CULTURA E SPETTACOLI- Pagina 40

Torino dice addio a Wilma Zavart, “l’ultima soubrette d’Avanspettacolo”

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Torino dice addio a Wilma Zavart, al secolo Zavattaro, “l’ultima soubrette d’Avanspettacolo”, come l’ha definita in questi giorni nel ricordarla sui social una sua cara amica, la grande attrice napoletana Isa Danieli. Torinese, nata in via Principe Amedeo, come volle specificare con orgoglio in uno dei nostri incontri, Wilma Zavart, ed in seguito Wilma De Landa, come pretese Erminio Macario, quando divenne sua prima ballerina iniziò a calcare le scene giovanissima, quasi per caso.

Quattordicenne allieva della Scuola di ballo del Teatro Regio venne chiamata all’ultimo momento da una sorella più grande a sostituire una ballerina. Lì fu subito notata e chiamata a calcare i palcoscenici dei teatri torinesi, uno per tutti il mitico Maffei, e poi nel corso degli anni di tutta Italia. Lavorò molto con un altro torinese ricordato da tutti, Riccardo Miniggio, in arte Ric, al quale insegnò a ballare; fece inoltre molti Caroselli in tv, ma pochissimi programmi  televisivi, allora quelli sperimentali, a causa del suo carattere un poco ribelle. Seppure sempre dolce e gentile e mai aggressiva nella sua avvenenza, in via Montebello la chiamarono una sola volta e poi mai più.

Venne definita dalla stampa dell’epoca: burrosa, statuaria e sempre sorridente. Nel 1967 lasciò  improvvisamente il mondo dello spettacolo all’apice del suo successo “perché  non mi ci trovavo più e non volevo finire a fare spogliarelli una volta che il fantastico e magico mondo dell’Avanspettacolo oramai finì “, mi confidò, e decise quindi di fare altro.

Aprì e gestì anche un rinomato ristorante di pesce torinese. A testimoniare la sua carriera tantissime fotografie da lei gelosamente custodite nel suo appartamento a Porta Palazzo che furono esposte nel 2022 in una mostra a lei dedicata all’interno della Tettoia dell’Orologio di piazza della Repubblica, praticamente proprio sotto casa sua.

L’ultimo saluto a Wilma avverrà presso la Parrocchia di San Gioacchino, in corso Giulio Cesare, lunedì 12 agosto, dove verrà officiata la Messa alle ore 10,30. Alle 11,30, l’ultima testimone dell’Avanspettacolo torinese, verrà accompagnata al Cimitero Monumentale della sua amatissima città.

Igino Macagno

Torino e le sue mummie: il Museo egizio

 

Torino sul podio: primati e particolarità del capoluogo pedemontano

Malinconica e borghese, Torino è una cartolina daltri tempi che non accetta di piegarsi allestetica della contemporaneità.
Il grattacielo San Paolo e quello sede della Regione sbirciano dallo skyline, eppure la loro altitudine viene zittita dalla moltitudine degli edifici barocchi e liberty che continuano a testimoniare la vera essenza della città, la metropolitana viaggia sommessa e non vista, mentre larancione dei tram storici continua a brillare ancorata ai cavi elettrici, mentre le abitudini dei cittadini, segnate dalla nostalgia di un passato non così lontano, non si conformano allirruente modernità.
Torino persiste nel suo essere retrò, si preserva dalla frenesia delle metropoli e si conferma un capoluogo a misura duomo, con tutti i pro e i controche tale scelta comporta.
Il tempo trascorre ma lantica città dei Savoia si conferma unica nel suo genere, con le sue particolarità e contraddizioni, con i suoi caffè storici e le catene commerciali dei brand internazionali, con il traffico della tangenziale che la sfiora ed i pullman brulicanti di passeggeri sudaticci ma ben vestiti.
Numerosi sono gli aspetti che si possono approfondire della nostra bella Torino, molti vengono trattati spesso, altri invece rimangono argomenti meno noti, in questa serie di articoli ho deciso di soffermarmi sui primati che la città ha conquistato nel tempo, alcuni sono stati messi in dubbio, altri riconfermati ed altri ancora superati, eppure tutti hanno contribuito e lo fanno ancora- a rendere la remota Augusta Taurinorum così pregevole e singolare.

1. Torino capitale… anche del cinema!

2.La Mole e la sua altezza: quando Torino sfiorava il cielo

3.Torinesi golosi: le prelibatezze da gustare sotto i portici

4. Torino e le sue mummie: il Museo egizio

5.Torino sotto terra: come muoversi anche senza il conducente

6. Chi ce lha la piazza più grande dEuropa? Piazza Vittorio sotto accusa

7. Torino policulturale: Portapalazzo

8.Torino, la città più magica

9. Il Turet: quando i simboli dissetano

10. Liberty torinese: quando leleganza si fa ferro

 

4. Torino e le sue mummie: il Museo Egizio

Con oltre 850.000 visitatori all’anno, il Museo Egizio è un inopinabile punto di riferimento nel panorama culturale e scientifico, non solo del territorio ma anche a livello internazionale.
Al di là della sua notorietà, il primato museale è quello di essere il primo museo del mondo interamente dedicato alla civiltà nilotica.
La collezione affonda le sue radici nel lontano Seicento, quando Carlo Emanuele I di Savoia entra in possesso della Mensa isiaca, una minuziosa tavoletta in bronzo di epoca romana, nota anche come Tavola bembina” – perché originariamente di proprietà del Cardinal Bembo- preziosamente intarsiata in bronzo e metalli, raffigurante figure e geroglifici a imitazione di quelli egizi.
Il reperto suscita grande interesse tra gli studiosi dellepoca, che iniziano ad appassionarsi a quella parte di mondo, dove in effetti si sviluppano le prime civiltà che tuttoggi studiamo con fascinazione e meticolosità. Accade così che tra il 1759 e il 1762, Vitaliano Donati venga incaricato di recarsi in Egitto per effettuare una serie di scavi, da cui emergono diversi reperti di straordinaria bellezza, tuttavia sarà necessario attendere le campagne napoleoniche prima che la moda dellegittologiadilaghi in Europa, soprattutto grazie alle scoperte di Bernardino Drovetti, collezionista piemontese, allora diplomatico al servizio della Francia, a cui si deve la raccolta di ben 8.000 reperti.
Nonostante tale motivazione pare comunque strano che proprio qui, ai piedi delle Alpi, sorga una raccolta così ampia, da essere seconda solo al Museo del Cairo, tutta dedicata a quellesotica cultura sabbiosa e vetusta, non di meno ormai il Museo si presenta come uno dei principali centri nevralgici torinesi, indissolubilmente legato alla cittadinanza e, anzi, luogo misterioso che ben si addice a sottolineare un certo carattere occulto della Torino esoterica.
Il Museo infatti, oltre alla fama intellettuale indiscussa, si circonda di diverse leggende che lo rendono unicoanche sotto altre ottiche: vi ricordate, cari lettori, che cosa è avvenuto nellormai lontano 2000? In quellanno si registrano innumerevoli casi di bambini colpiti da malessere e intossicazioni proprio durante la visita allEgizio, i medici non trovano subito una spiegazione e lasciano così il tempo ai superstiziosi di gridare alla maledizione del faraone; poco dopo viene in effetti fuori che la colpa è delle mummie, o meglio, delle loro teche, pulite con un particolare solvente che danneggia il benessere del pubblico.
Vi è inoltre la questione dei triangoli magici, quello Bianco e quello Nero, i cui influssi positivi e negativi si riversano silenziosi e costanti sui cittadini, ecco, proprio allinterno delledificio pare vi siano molti oggetti dalle forti influenze energetiche, sia benevole che malevole, anche se gli esperti del settore ci tranquillizzano ricordandoci che il bene abbonda e la maggior parte dei reperti incriminati sono in realtà legati alla Magia Bianca.
Tiriamo quindi subito un sospiro di sollievo, senza tuttavia abbassare del tutto la guardia, dopotutto non è poco lo spazio occupato dal papiro definito Libro dei Morti, una delle attrazioni principalidellesposizione che, con i suoi 864 cm di lunghezza, occupa unintera parete! Si tratta di un diuturno reperto risalente al 332-320 a. C. e contenente vere e proprie istruzioni per guidare le anime nellaldilà; le sepolture egizie sono solite avere un oggetto simile nel corredo del defunto, ma quello conservato a Torino è il più dettagliato e completo mai stato ritrovato.


E voi, in che sfera dinfluenza lo inserireste, in quella Bianca o in quella Nera?
A connettere il Museo alla città, vi è poi una delle molte versioni del mito della fondazione dellantica Augusta Taurinorum: un giovane principe egizio, Pa Rahotep, costretto ad abbandonare il proprio paese dorigine ed a intraprendere un lungo viaggio, che prima lo porta sulle coste della Liguria, ed infine lo vede approdare in Piemonte dove, sulle sponde di un fiume il Po, secondo la storia- fonda una città che denomina Eridania -il fiume Po, per secoli, è noto come Eridano-. Una volta insediatosi, Pa Rahotep introduce il culto del dio Api, raffigurato con le sembianze di un Toro. Da qui la derivazione del nome della città.
Trovo sempre affascinanti, cari lettori, questi aspetti mitici e leggendari, ma è bene occuparsi anche di altri assunti, decisamente più quantificabili anche se meno intriganti.
Torniamo allepoca ottocentesca, precisamente nel 1824, quando re Carlo Felice acquista la collezione Drovetti, e, dopo averla unita a quella di Donati, dona vita al primo museo in nuce dedicato alla civiltà egizia.
La prima esposizione ha sede presso il Collegio dei Nobili, edificio costruito su progetto di Michelangelo Garove (dal 1679), tuttavia, nel corso del secolo, grazie agli interventi, di Giuseppe Maria Talucchi e Alessandro Mazzucchetti, lo spazio viene ampliato e adeguato alle nuove necessità, finché, a seguito degli importanti rinnovamenti, nel 1832, il Museo apre finalmente al pubblico.
Secondo il gusto del periodo, i reperti dellantico Egitto sono mescolaticon articoli romani, preromani e preistorici, ed è inoltre presente una sezione di storia naturale.
Nel tempo la collezione singrandisce, comportando diversi cambi di sede, dallAccademia delle Scienze, al Regio Museo di Antichità fino alla sede attuale, in via Accademia delle Scienze.
Di determinante importanza sono stati gli scavi archeologici di Ernesto Schiaparelli e di Giulio Farina, i quali, tra il 1903 e il 1937, portano a Torino circa 30.000 referti. Nel 1924 lo stesso Vittorio Emanuele III di Savoia solca i corridoi dellesposizione, attraversando per primo la nuova ala del Museo, denominata Ala Schiapparelli, nella quale sono visionabili oggetti provenienti da Assiut e Gebelein.
Tra gli anni 30 e gli anni 80 del Novecento si predispongono ulteriori ristrutturazioni e adattamenti, tra cui linstallazione della Pinacoteca e la sistemazione dellAla Schiaparelli; di particolare rilevanza è stata, allepoca, lopera di ricomposizione del tempietto rupestre di Ellesiya, donato dal Governo Egiziano in riconoscimento dellaiuto italiano nel salvataggio dei templi nubiani minacciati dalle acque della diga di Assuan. Per il trasferimento a Torino la struttura viene tagliata in 66 blocchi e poi ricostruita ed inaugurata il 4 settembre 1970.
A partire dagli anni 80 lattenzione si pone sulla costruzione di nuovi spazi espositivi sotterranei, dedicati ai ritrovamenti di Assiut, Qau el-Kebir e Gebelein, nonché allampia sala del piano terra destinata ad accogliere le testimonianze dellEtà Predinastica e dellAntico Regno.
Un altro anno da ricordare è senzaltro il 2006, (Giochi Olimpici Invernali di Torino), quando lo statuario è riallestito dallo scenografo Dante Ferretti; lintervento rifunzionalizza gli ambienti allintero percorso museale, ora articolato su cinque piani espositivi, muta inoltre notevolmente anche la generale atmosfera, ora assai suggestiva e teatrale, costituita da unilluminazione impattante e altamente immersiva. La riapertura del 2015 segna il nuovo approccio rivolto ai visitatori, decisamente meno faticosoe didatticodelloriginale, ma maggiormente apprezzato dal pubblico di massa, che allo sforzo intellettivo predilige lapprendimento stile TikTok.
Ancora qualche parola per chi fosse interessato al contenuto della raccolta e non solo ai selfienella Galleria dei Re.
Oltre al già citato Libro dei Morti, vi sono altri due papiri degni di nota: il papiro dello sciopero e il papiro erotico.

Il primo documenta uno tra i più antichi scioperi della storia, svoltosi durante il regno di Ramesse III, portato avanti dagli operai e dagli artigiani impegnati nella costruzione delle tombe reali di Luxor; il secondo invece, proveniente dal villaggio di Deir el-Medina, smorzalidea austera e monumentale che solitamente caratterizza lestetica dellarte egizia, mostrando al pubblico illustrazioni sinuose e figure curvilinee, ma soprattutto immagini esplicitamente erotiche, contrassegnate da tratti ironici ai limiti della comicità, senza mai perdere il tocco raffinato tipico dellOriente.
Oltre a testimoniare che chi non lavora, non fa lamore” – lo sciopero termina dopo alcuni mesi- i reperti dimostrano come la Cultura con la Cmaiuscola non abbia nulla a cui spartire con censura e bigottismo, aspetti esclusivi degli integralismi religiosi e dei regimi politici totalitari. Ce lo insegnavano già millecinquecento anni prima di Cristo, eppure luomo contemporaneo continua ad avere una testa durissima.
Oltre alla Tela di Gebelein, la più antica pittura su lino mai rinvenuta, raffigurante momenti di vita quotidiana e usanze dellepoca, consiglio di soffermarvi sulla tomba di Kha, una sorta di archistardellepoca, noto capo architetto, progettista della Necropoli Tebana. La sua bravura lo porta a lavorare per i grandi faraoni della XVIII dinastia, i suoi meriti sono riconosciuti pubblicamente, tanto da ottenere una tomba più piccola, ma uguale in tutto e per tutto a quella dei regnanti. Larchitetto viene sepolto insieme alla moglie Merit, il loro corredo funerario consta di circa 460 pezzi, tra cui anche una spettacolare parrucca rimasta ancora perfettamente intatta.
Dato che è secondo solo al Museo del Cairo, non credo sia il caso di continuare, in questa sede, con lelenco dei reperti visionabili allinterno dellesposizione torinese, vi invito quindi ad andare, cari lettori, a scoprire le meraviglie del Museo Egizio con i vostri occhi .
Spero, con questo mio scritto, di avervi un poincuriosito, perché non mi stancherò mai di sottolineare limportanza dei luoghi delle Muse, contenitori concreti della cultura, luoghi di testimonianza e bellezza, roccaforti dellunica, vera, insopprimibile libertà, quella intellettuale.

Alessia Cagnotto

 

Antichi legami tra Luzzogno e Casale Monferrato

 

Luzzogno fu la prima comunità a rendersi autonoma da Omegna nel 1312 ed erigendosi in parrocchia nel 1455 rappresentò per quattro secoli l’unità religiosa e civile della Valstrona. Nel 1756 nacque il comune libero di Luzzogno il quale, come gli altri della vallata, rimase distinto fino al 1926 quando fu riunito nel comune di Valstrona per decreto governativo. In passato gli uomini del piccolo borgo trovarono lavoro nelle cave di marmo, nelle miniere, in agricoltura e negli alpeggi, vera fonte economica del paese. Proficua fu l’emigrazione esterna oltre le Alpi verso la Germania, raggiunta a piedi in una settimana di viaggio attraverso il Lago Maggiore verso Bellinzona e seguendo il Ticino per fermarsi solitamente due anni. Meno proficua fu l’emigrazione interna verso la Lombardia e il Piemonte, effettuata nella stagione invernale dai concari e palai venditori di pale da riso, gioghi per buoi, cucchiai e mestoli ritornando a casa in primavera con piccoli guadagni. L’emigrazione fu interrotta dallo scoppio della prima guerra mondiale, creando grave danno economico per la comunità.

Miglior fortuna ebbe la nobile famiglia dei conti Gozzano, provenienti in passato dalla Val Vigezzo. Lasciarono Luzzogno alla metà del ‘500 per spostarsi a Brolo di Nonio (il paese dei gatti) sulle sponde del Lago d’Orta dove edificarono la loro bella casa nel Canton di Sopra a Nord della chiesa. Tramite  cinque matrimoni con membri dei conti Tarsis di Brolo, possedevano il 40% dei terreni del borgo, costruirono la nuova sacrestia e il porticato della chiesa sorretto da sette colonne. I Gozzano-Tarsis risiedevano nell’imponente palazzo di Brolo del XVII° secolo con i suoi loggiati, le decorazioni affrescate e giardini formali. Per costruire l’oratorio annesso al palazzo, dedicato alla Vergine dei sette dolori, ottennero la dispensa dal vescovo di Novara mons. Gilberto Borromeo. Nel 1650, le due  famiglie emigrarono a Madrid e ad Aranjuez dove fecero fortuna con attività commerciali e prestiti di denaro. Al rientro dalla Spagna, i Tarsis acquisirono il titolo di conti di Castel d’Agogna, segnando l’inizio di un nuovo radicamento nel novarese ed edificarono il palazzo neoclassico a Milano.
A Briga Novarese, i Gozzano acquistarono nel 1730 il palazzo e l’oratorio accanto alla parrocchia dal nobile Brusati ed ereditarono i beni della cappella della Beata Vergine Immacolata, denominata Madonna del Motto, ospitando il vescovo di Novara mons. Marco Aurelio Bertone nel 1761. Altre importanti discendenze furono create all’inizio del ‘600 dai Gozzano di Luzzogno con le famiglie Alessi e Bialetti, fondatori delle note aziende di casalinghi. La casa dei conti Gozzano fu ceduta nel 1709 al comune di Luzzogno, con instrumento rogato dal notaio Giovanni Albergante di Omegna, da Francesco Bernardino figlio del notaio casalese Antonio Gozzano e ultimo esponente della famiglia a lasciare la vallata, ricco proprietario di case e terreni a Casale, Cereseto e Moncalvo.
La casa è stata ristrutturata nel 1972 mantenendo l’architettura originale dove è  conservato, su una  parete del loggiato, un affresco del ‘500 di autore sconosciuto che riproduce i vizi e le virtù rappresentate da una doppia serie di figure allegoriche, restaurato da don Luigi Arioli padre rosminiano e professore d’arte a Stresa. Due importanti personaggi hanno dato risonanza a Luzzogno, mons. Carlo Antonio Gozzano oriundo nato a Casale nel 1640, arcidiacono della cattedrale casalese e vescovo di Acqui e mons. Raffaele De Giuli nato a Luzzogno nel 1884, arciprete di Domodossola e vescovo di Vallo di Lucania e Albenga. Anche la chiesa cattolica di Luzzogno ha il proprio santuario. Dedicato alla Madonna delle Grazie, detto della Colletta, è stato eretto come ex voto da un Gozzano nel ‘600 su un antico oratorio dove si svolge la famosa festa triennale in onore della regina protettrice della vallata.
Nella Valstrona esistono due tipi di costumi femminili simili, pittoreschi, tradizionali ed espressione di cultura montana. Nella alta vallata (Campello Monti e Forno) l’indumento si richiama ai modelli Walser della Valsesia,  composto da un vestito nero di lana, una camicia bianca ricamata con ampia apertura comoda per l’allattamento e due sottovesti, una bianca rifinita con pizzi e passamaneria e l’altra colorata più rustica, ricoperte da una pettorina ricamata fermata da due nastri colorati. Nella media vallata (Luzzogno, Massiola, Fornero e Sambughetto) il costume è composto da una gonna nera di lana pieghettata e uno scamiciato di stoffa bianca a maniche lunghe finemente ricamato ricoperto dal bustino aderente senza maniche, arricchito da motivi floreali con nastro colorato in vita. Le famiglie Gozzano, emigrate a metà ‘500 nel casalese, riuscirono ad ottenere tanta dignità e ricchezza tali da condizionare la Corte dell’epoca e furono definiti i banchieri dei Gonzaga, duchi di Mantova e Monferrato. L’accorta e coraggiosa politica patrimoniale permise loro di scalare diversi rami della nobiltà diventando signori, consignori, conti ed in seguito marchesi di San Giorgio, Treville, Odalengo Grande e Piccolo, Olmo Gentile (Asti) e Perletto (Cuneo), edificando diverse chiese e palazzi in Monferrato e a Torino.
I Gozzano erano proprietari di una fabbrica di orologi con fonderia annessa a Ginevra e gli importanti matrimoni con membri di una trentina di casate nobiliari piemontesi, liguri, savoiarde, austriache e balcaniche portarono ad aumentare il loro patrimonio, definito il più colossale di sempre del Monferrato. Ulteriore prestigio è rappresentato dalla parentela recentemente emersa sulla linea romana dei Gozzano di Agliè con la famiglia materna del principe Maurizio Gonzaga. Sappiamo però che in genealogia le persone che portano lo stesso nome non sempre discendono da un comune antenato. Nel 1995 il marchese Titus Gozani di Dusseldorf, ultimo esponente del ramo austriaco emigrato da San Giorgio Monferrato a metà ‘700, ritrovò le proprie origini a Luzzogno concludendo la ricerca iniziata a Casale dal padre marchese Leo Ferdinando nel 1963, luogo di incontro con i parenti conti Cavalli d’Olivola di Lucedio e con il nostro giornalista Idro Grignolio. Oggi le famiglie Gozzano risiedono in Piemonte, Lombardia, Liguria, Abruzzo, Lazio, Germania, Brasile (Itu e Sorocaba) e negli Usa (New York, Mass, Colorado e California). I loro antichi legami, che si erano interrotti, sono stati ricuciti dall’autore nel 2018 a Luzzogno.
Armano Luigi Gozzano

Badaluk, burnia, ramassin: incursioni saracene nel dialetto piemontese

Damaschin, burnia, badaluk, faudal… sono tante le parole piemontesi di origine araba, alcune delle quali si usano ancora oggi in varie parti del Piemonte.

In effetti, i contatti tra le due lingue risalgono a oltre 1200 anni fa quando i saraceni si insediarono per almeno un secolo tra torinese e cuneese.
Nel IX secolo i mori provenienti dal nord Africa sbarcarono in Spagna e raggiunsero le coste francesi, la Provenza e infine le montagne piemontesi su cui innalzarono torri di avvistamento e bastioni per difendersi, molti dei quali erano già esistenti e furono in seguito fortificati dagli arabi. Quante volte in montagna troviamo un’insegna turistica con la scritta “torre saracena” che in realtà non è proprio “saracena” ma preesistente all’arrivo degli arabi. E allora, aspettando i dolcissimi ramassin o dalmassin, le susine forse più buone e gustose, chiamate anche “damaschin” per evocare una millenaria origine siriana, passiamo brevemente in rassegna alcune parole arabe che sono penetrate con forza nel dialetto piemontese. Altri nomi di provenienza araba sono “cossa” (zucca) che deriva dalla parola araba “kusa” (zucchina), “badaluk”(sciocco) dall’arabo “mamaluk”, cioè i Mamelucchi, i soldati-schiavi dei sultani, “fàudal” (grembiule) dall’arabo “fodhal” (grembo), “burnia” (contenitore di vetro) dall’arabo “buri” e così via. Ma torniamo ai ramassin o “damaschin” o ancora “dalmassin” perché anche sulla frutta e in particolare sulla susina o prugna che sia, da oltre un millennio saraceni e crociati sono ai ferri corti, tanto per cambiare. É arrivata dalla Siria, da Damasco, grazie ai saraceni o stati i crociati a introdurla in Piemonte tra una crociata e l’altra in Terra Santa? Il dubbio permane. Comunque sia, la coltura veniva chiamata già allora “damaschin”, termine che risuona ancora oggi in alcune vallate del cuneese. Sembra infatti che il suo nome sia derivato dalla variante di “dalmassin” coltivato nella zona di Mondovì. Da Damasco la susina sarebbe stata importata in Piemonte dai crociati nel XII secolo mentre secondo altre fonti, più attendibili, furono i saraceni a portarla nelle nostre valli durante le scorrerie medioevali tra il IX e il X secolo. Da Bagnasco a Garessio, da Sampeyre a Mondovì sono infatti ancora molte le rievocazioni storiche che narrano l’epoca dei mori nella nostra regione. Il ramassin arrivò prima nelle campagne del saluzzese e del monregalese e poi in Val di Susa, Valli di Lanzo e nel chierese. Altrove il frutto è quasi sconosciuto e il suo nome evoca subito la dolcezza delle marmellate e delle crostate che lo vedono assoluto protagonista, una bontà tutta siro-piemontese.            Filippo Re

“Musica e parole” con Paola Turci e Pierfrancesco Pacoda

Chiude il festival “Scenario montagna” l’appuntamento con

 

 

A Palazzo delle Feste di Bardonecchia il 12 agosto prossimo, alle 21, ultimo appuntamento di “Scenario montagna” con Paola Turci e Pierfrancesco Pacoda, che presentano “Musica e parole”, tre decenni di carriera raccontate attraverso la voce e le note della cantautrice romana e del celebre giornalista musicale.

Paola Turci è cantante, musicista, un’anima in cui si fondono eleganza, rock, sensibilità e coraggio, capace di mettere a nudo la sua vita, la sua carriera e le sue canzoni. Sarà accompagnata da Pierfrancesco Pacoda, uno dei più popolari e influenti giornalisti italiani musicali.

“Musica e parole” è a metà strada tra il concerto e l’intervista e chiude la ventesima edizione di ‘Scenario Montagna’, il festival delle valli montane piemontesi, ripercorrendo tre decenni di carriera musicale dell’artista.

Si terrà al Palazzo delle Feste in piazza Valle Stretta 1 a Bardonecchia il 12 agosto alle 21.

 

Mara Martellotta

Nagasaki, 9 agosto 1945

Nagasaki si estende al centro di una lunga baia, che rappresenta il miglior porto naturale dell’isola di Kyūshū, nel sud del Giappone. Il suo nome, letteralmente, significa “lunga penisola”. Il 9 agosto del 1945 diventò la seconda città su cui venne sganciata una bomba atomica. Il bombardiere B-29 Superfortress dell’aviazione americana (esemplare numero 44-27297, ribattezzato “Bockscar”) portava in pancia “Fat Man” (in italiano “ciccione“). Quel nomignolo era stato assegnato alla Model 1561 (Mk.2), la terza bomba atomica approntata nell’ambito del Progetto Manhattan, il secondo e ultimo ordigno nucleare mai adoperato in combattimento. In origine non era previsto che la città di Nagasaki finisse nel mirino dell’aereo pilotato dal maggiore Charles W. Sweeney. Era, come si usa dire in gergo militare, “una seconda scelta”. L’obiettivo primario era la città di Kokura, non distante da Fukuoka, nella parte settentrionale dell’isola di Kyūshū, sede di un grande deposito di munizioni dell’esercito giapponese. Ma il cielo era coperto di nubi e la visuale pessima. Così si optò per l’alternativa e questa portava il nome di Nagasaki. Così la bomba finì sulle acciaierie Mitsubishi situate poco fuori quella città. “Fat Man” esplose a un’altezza di mezzo chilometro sull’abitato e sviluppò una potenza di 25 chilotoni, quasi il doppio di “Little Boy”, l’ordigno sganciato dal bombardiere “Enola Gay” che esplose tre giorni prima su Hiroshima. Nagasaki era costruita su un terreno collinoso e il numero di morti fu inferiore a quelli causati dal primo ordigno. A Hiroshima morirono istantaneamente per l’esplosione nucleare tra le sessantaseimila e le settantottomila persone e altrettanti furono i feriti. Per due volte in tre giorni, il sole cadde sulla terra. Un numero elevato di persone persero la vita nei mesi e negli anni successivi a causa delle radiazioni e molte donne incinte persero i loro figli o diedero alla luce bambini deformi. Il numero totale degli abitanti uccisi a Nagasaki venne valutato attorno alle ottantamila persone, incluse quelle esposte alle radiazioni nei mesi seguenti. La sorte volle che tra le persone presenti a Nagasaki quel 9 agosto vi fossero anche un ristretto numero di sopravvissuti di Hiroshima. Entrambe città vennero rase al suolo. Un disastro che costrinse, meno di una settimana dopo, il 15 agosto 1945, l’imperatore del Giappone Hirohito a presentare agli alleati la resa incondizionata. Con la firma dell’armistizio, il 2 settembre di quell’anno, si concluse di fatto il secondo conflitto mondiale. Quasi ottant’anni dopo i bombardamenti atomici su Hiroshima e Nagasaki, due ospedali della Croce Rossa giapponese stanno curando migliaia di persone che continuano a patire le conseguenze di questi attacchi. Si calcola inoltre che diverse migliaia di queste persone continueranno ad avere necessità di cure nei prossimi anni per le problematiche legate alle radiazioni. In totale, tra i due centri sanitari sono stati ospedalizzati oltre due milioni e mezzo di persone per le conseguenze legate alle radiazioni. Il 63 % dei decessi registrati nell’ospedale di Hiroshima, in funzione dal 1956, sono stati causati da diversi tipi di cancro. Tra questi, un 20 % per cancro al polmone, il 18 % per cancro allo stomaco, il 14 % per neoplasie al fegato, il 7 % per cancro all’intestino e un altro 6 % dai linfomi maligni. Nell’ospedale di Nagasaki, che cominciò a funzionare nel 1969, i morti per cancro rappresentavano, fino a qualche anno fa, il 56% del totale. Secondo i dati forniti dalla Croce Rossa, l’incidenza di leucemia tra i sopravvissuti dei bombardamenti fu di quattro o cinque volte superiore rispetto alle persone non esposte alle radiazioni durante la prima decade, e diminuì successivamente. Una contabilità tremenda, eredità diretta di quello che fu l’inizio dell’era del terrore nucleare. Dopo tanti decenni, in tempi in cui la guerra scoppiata con l’invasione dell’Ucraina si è combattuta pericolosamente nei pressi delle centrali nucleari, la memoria di ciò che è stato deve indurre a far sì che nessuno debba più scrivere, di fronte alle atrocità del conflitto, quello che il copilota, capitano Robert A. Lewis , annotò sul diario di bordo del bombardiere “Enola Gay” dopo aver verificato con un binocolo gli effetti della bomba sganciata su Hiroshima: “My God what have we done?”, ““Dio mio, cosa abbiamo fatto?”.

Marco Travaglini

L’attimo fuggente del professor Keating

 

Nel settembre del 1989 usciva nei cinema italiani L’attimo fuggente, film di grande valore e significato al di là della sceneggiatura, della regia e dei protagonisti, capace di proporsi come simbolo di una generazione e di un’epoca. La pellicola del grande Peter Weir, con uno straordinario Robin Williams nel ruolo del professor Keating, propone argomenti e riflessioni profonde sulla capacità di guardare il mondo da diverse angolazioni. Keating diventa il “capitano” dei suoi allievi, interessandosi a loro e a ciò che hanno da dire, insegnando in modo anticonformista di studiare e coltivare il proprio pensiero rompendo le convenzioni conservatrici di una società molto chiusa come quella dei primi anni ’60, facendo amare la poesia. E ognuno di loro cresce, rompe tabù e convenzioni anche in modo drammatico come accade a Neil.

Come dimenticare la “setta dei poeti estinti” che si ritrovano citando i versi di Thoreau (“Andai nei boschi perché volevo vivere con saggezza, in profondità, succhiando tutto il midollo della vita, […] per sbaragliare tutto ciò che non era vita e per non scoprire, in punto di morte, che non ero vissuto”). O le rime potenti dell’Ulysses di Alfred Tennyson (“Venite amici, che non è tardi per scoprire un nuovo mondo. Io vi propongo di andare più in là dell’orizzonte, e se anche non abbiamo l’energia, che in giorni lontani mosse la terra e il cielo, siamo ancora gli stessi, unica ed eguale tempra d’eroici cuori, indeboliti forse dal fato, ma con ancora la voglia di combattere, di cercare, di trovare e di non cedere”). Quando, durante una lezione, il professor Keating salì in piedi sulla cattedra chiedendo ai ragazzi se avevano compreso il perché di quel gesto, di fronte al loro incredulo stupore disse: “Sono salito sulla cattedra per ricordare a me stesso che dobbiamo sempre guardare le cose da angolazioni diverse. E il mondo appare diverso da quassù.

Non vi ho convinti? Venite a vedere voi stessi. Coraggio! È proprio quando credete di sapere qualcosa che dovete guardarla da un’altra prospettiva”. Criticato e allontanato dall’insegnamento dalla direzione conservatrice dell’istituto poté assistere nel suo ultimo giorno di scuola alla coraggiosa e non scontata manifestazione di solidarietà dei suoi giovani discepoli. In quell’epico finale gli studenti salgono in piedi sui banchi gridando “Oh capitano, mio capitano”, dimostrando a Keating di aver compreso il valore del suo modo di insegnare, che nulla è stato vano e che ogni parola ha fatto breccia nei cuori e nelle menti. Colgono l’attimo fuggente, il Carpe Diem nel momento giusto. In quella ribellione c’è un messaggio fatto di passione e amicizia, amore per la vita e la giustizia. Un segnale di speranza nel fatto che, in fondo, cultura e conoscenza possono contribuire a migliorare il mondo. E a salvare noi.

Marco Travaglini

A Castellamonte torna la Mostra della Ceramica

Come ogni anno, la Città di Castellamonte, il Canavese, la Città Metropolitana di Torino e la Regione Piemonte attendono, con grande curiosità e interesse la Mostra della Ceramica, anche la sessantatreesima edizione, non deluderà le aspettative dei tanti visitatori con le numerose proposte dell’arte ceramica in tutte le sue espressioni nuove, classiche ma sempre uniche e molto originali.

Una manifestazione che non ha pari nel suo genere nella nostra regione. La caratterizzano le molteplici ed articolate esposizioni distribuite su tutta la città. Dalle famose stufe in ceramica, alla scultura, al design sono presentate opere eterogenee con stili e tecniche sempre sorprendenti.

È un appuntamento molto atteso anche dai tanti artisti ceramisti, pittori, scultori e architetti che con grande interesse seguono da diversi anni l’evento da più parti d’Italia e del mondo. Un incontro molto prestigioso capace di suscitare da parte del pubblico molte aspettative per cui ad ogni edizione accorre sempre più numeroso a visitare la mostra della ceramica.

Il percorso di quest’anno prende piede dalla collaborazione tra la Città di Castellamonte e ANGI – Associazione Nuova Generazione Italo-Cinese, che ha costruito un ponte istituzionale, umano ed artistico tra il Comune canavesano e la prefettura cinese di Wenzhou, da secoli importante centro di produzione di ceramica a porcellana del Paese del dragone. Questo scambio si è sviluppato, nel corso dell’ultimo anno, con iniziative diplomatiche quali la visita del Sindaco di Castellamonte in Cina, ed artistiche come la residenza d’artista di due artisti di Yongjia il cui lavoro, in collaborazione con i ceramisti locali, andrà ad arricchire l’arredo urbano castellamontese.

Sulla scia di questa collaborazione si è voluto dedicare Il concorso “Ceramics in love”, giunto alla sua sesta edizione, a Marco Polo, per ricordare i settecento anni della sua scomparsa, per cui ci è sembrato doveroso menzionarlo nel titolo del concorso, “Ceramics in love- Marco Polo” unitamente all’omaggio alla Cina, ospite d’onore al Palazzo Botton dove fanno bella sfoggia una serie di opere provenienti dalla Contea di YongJia. In tal modo pensiamo sia doveroso continuare gli omaggi a nazioni con forte tradizione ceramica, dopo la Romania e il Marocco, presenti nelle passate edizioni.

Anche per questa edizione corrente viene proposto il progetto “ritorno alla Rotonda Antonelliana”, una legittima restituzione del luogo dove la mostra ebbe i suoi natali dal lontano 1961 in poi.

Il grande piazzale, circondato dalle imponenti mura della chiesa incompiuta di Alessandro Antonelli, ancora una volta si trasforma in un suggestivo palcoscenico dove dominano la scena grandi e medie sculture in ceramica realizzate da artisti di Castellamonte e del Canavese a cui si aggiungono gli artisti della “Baia della Ceramica” (Savona, Albissola Marina, Albisola Superiore e Celle Ligure), altri provenienti dalla Francia e dalla Romania che accompagnano due suggestive opere degli studenti del locale Liceo Artistico Statale “Felice Faccio. Infine, un grande colpo di teatro: una inattesa sorpresa attende il pubblico: l’Attraversamento meridiano, ci racconta della transumanza con mucche podoliche della Basilicata. Una curiosa installazione di quaranta opere in ceramica realizzate dagli artisti ceramisti castellamontesi, che interpretano, in una varietà di colori e di personalizzazioni, un esemplare in argilla modellato dall’artista materano Raffaele Pentasuglia.

Tra le belle arcate del Palazzo Antonelli, sede del Comune, anche per questa edizione fanno bella mostra di sé le famose Stufe di Castellamonte ad opera delle più importanti industrie del settore, dal design classico a quello contemporaneo.

Nel prestigioso Palazzo Botton, sono ospitate diverse, articolate ed eterogenee mostre, ciascuna con spiccate e proprie identità.

Al piano terra del Palazzo è presentata la mostra delle 100 opere del concorso “Ceramics in love-Marco Polo2024”, con artisti provenienti da tutta Italia e dal mondo. sono ben 26 le nazioni dei partecipanti. Opere selezionate perché di particolare rilievo artistico e tecnico tali da creare come sempre un proficuo confronto tra tutti gli artisti partecipanti.

Sempre al Palazzo Botton ma al piano nobile vi è l’omaggio alla Cina.

Sono mostrate per la gioia del visitatore opere in ceramica di straordinaria bellezza per tecnica, forma e cromia per cui la Cina è famosa nel mondo.

Continua al piano “Carta cristallina” una mostra di grafica e di opere in ceramica a cura di Elisa Talentino.

Un doveroso omaggio a Miro Gianola vuole onorare la memoria di un artista molto amato, recentemente scomparso, con sue opere in ceramica, sculture e dipinti.

Al Centro Congressi Martinetti al primo e al secondo piano le “ceramiche sonore” dei concorsi 2022, 2023 e 2024 presentate insieme ai fischietti in terracotta raccolti da Mario Giani, in arte “Clizia”, provenienti da tutte le parti del mondo, prestigiosa donazione che è un po’ il fiore all’occhiello della nostra Civica Collezione.

In questa sede è presente una raffinata sezione di design, “Design contemporaneo”, con opere molto originali che non mancheranno di sorprendere i visitatori.

Al piano terra, come da consolidata consuetudine, le ceramiche da indossare a cura del C.N.A di Torino.

Gli studenti del Liceo Artistico Statale “Felice Faccio” di Castellamonte, espongono alla Casa della Musica le opere della sezione Design della Ceramica. Gli studenti sono altresì presenti alla rotonda antonelliana con due opere di grandi dimensioni. Un felice connubio di maestri e allievi, un confronto fattivo fra esperti artisti e giovani in procinto di affacciarsi sulla scena dell’arte.

All’Orto Sociale Camillo, uno spazio rigereato da Associazioni e cittadini, si potrà visitarel’installazione “Fiori di Campo”, 1000 piccoli fiori in ceramica creati d diverse realtà sociali guidate dall’artista Rita Bagnoli.

Da segnalare infine la costante presenza dei punti espositivi privati, sede di esposizione di altissimo valore quali il Centro Ceramico Fornace Pagliero, il Cantiere delle Arti, Ceramiche Grandinetti, La Castellamonte, Gallerie Via Educ 10, Ceramiche Camerlo con l’Home Restaurant del Ceramista, Ceramiche Castellamonte, Ceramiche Cielle.

Orari della mostra:

martedì – venerdì ore 16 – 20

sabato – domenica ore 10 – 20

Ingresso gratuito

Per informazioni: 0124 5187216

L’enigma del “Sacro” e la terrena concretezza del “Tempo”

Sono i temi al centro della recente mostra di Andrea Bianconi, raccontati in un libro-confessione presentato nella “Chiesa di Santa Marta” a Magnano di Biella

Venerdì 9 agosto, ore 18

Magnano (Biella)

A Elia che gli chiede Quali sono state le tue prime impressioni entrando nella Chiesa di Santa Maria?, Andrea risponde facendo, strada alla memoria, Appena entrato ho provato un forte senso di accoglienza … accoglienza insieme a una curiosità che si alimentava sempre più. Ma la cosa strana è che quando sono uscito ho provato chiarissima la sensazione del tempo … il tema della mostra è nato in quel momento lì … Il pensiero successivo sono stati i numeri, la prima cosa che ho collegato al tempo.

Elia ad Andrea Hai pensato a un arco temporale che possiamo definire quasi infinito. La freccia che ci accoglie all’ingresso, in alto, che quasi copre anche il quadro di Santa Marta, sembra indicare il tempo verso qualcosa. Tu lo hai ritmato, cioè lo hai quasi concretizzato attraverso i numeri.

Alla parola ‘ritmato’, Andrea sorride … Mi piace molto la parola ritmato. La freccia che va verso l’alto è sempre presente dentro di noi, cioè noi abbiamo sempre una tensione verso l’alto, una tensione verso l’oltre. In questa freccia luminosa c’è la tensione verso l’altro che accompagna tutta la nostra giornata, la nostra vita.

Così l’incipit della lunga conversazione fra l’artista vicentino Andrea Bianconi (classe ’74, nativo di Arzignano, oggi residente fra Brooklyn – New York e Vicenza) ed Elia Fiore, monaco del “Monastero di Bose”, al centro del libro “Andrea Bianconi 0 – 24” (144 pagine, in doppia versione italiano – inglese) che sarà presentato venerdì 9 agosto (ore 18) presso la “Chiesa di Santa Marta” (XV secolo) a Magnano, piccolo borgo in provincia di Biella (di cui Bose è nota frazione per la “Comunità Cristiana” lì fondata nel 1965 da Enzo Bianchi) sito sul crinale collinare della “Serra d’Ivrea” e appartenente alla “Comunità Montana Valle dell’Elvo”.

Il libro, contenente anche testi di Paola Bergamaschi e della storica dell’arte Irene Finiguerra, è stato realizzato grazie al contributo della “Fondazione Cassa di Risparmio di Biella” e per la parte grafica di Anna Pendoli. Si tratta di una sorta di report dell’esperienza vissuta da Bianconi in occasione della sua mostra (da cui il titolo del libro), tenuta proprio a Magnano dal 21 giugno al 14 luglio scorsi per il ciclo “Fuoriprogramma”.

In quell’occasione, per la prima volta, l’artista vicentino si è confrontato con uno “spazio sacro”, scegliendo di mettere al centro del lavoro realizzato per la mostra il “tema del tempo”. “La Chiesa per la sua natura profonda – è stato scritto – e anche per la sua funzione pubblica è un luogo dove si sperimentano due dimensioni del tempo: quello infinito legato alla convinzione che la vita abbia una proiezione nell’eternità, e quello circoscritto, scandito per secoli dal suono delle campane, al passare di ogni ora. Con le sue opere Bianconi ha voluto creare un cortocircuito tra queste due dimensioni del tempo”. Con suggestivi risultati sotto l’aspetto estetico, saggiamente fissati, oggi, in pagine scritte che vanno oltre la riflessione critica per tracciare la “corsa” , il “viaggio” faticoso, e non sempre facile, di un uomo alla ricerca quotidiana (“0 – 24”) della sua personale idea di “infinito” e “ultraterreno”.

Bianconi è artista che parla un linguaggio di assoluta e personale “contemporaneità”. I suoi lavori nascono attraverso intuizioni che lo relegano al centro dell’opera. Lui stesso diventa opera. In ogni suo gesto c’è l’urlo “silenzioso” del voler  essere, malgrado tutto, uomo fra uomini, sospeso in un cortocircuito inquietante di attualità e di ignoto futuro. Finito e infinito. Realtà che non ha gioco se non tende all’astratto, al salto nel buio di universi senza  certezza di voci e di forme.

Artista, performer. Di lui si sono date definizioni, le più disparate: “trasformista, funambolo, navigatore di epoche e corpi, attore in prima persona e regista di recite collettive”. Dal 2007 è rappresentato da “Barbara Davis Gallery” di Houston, USA. Nel 2018 è stato il primo artista italiano invitato a Davos (Svizzera), durante la 48^ edizione del “World Economic Forum” per presentare ai Capi di Stato, ai Grandi della Terra la sua performance “Voice to the Nature”, una forte denuncia sull’“ecocidio” in atto, per richiamarli all’urgenza di agire “ora e non dopo” per la salvaguardia e la difesa del Pianeta.

Per info su presentazione: fuoriprogramma.magnano@gmail.com

Gianni Milani

Nelle foto: Cover “Andrea Bianconi 0 – 24” e “Installazioni” nella Chiesa di Santa Marta (Ph. Anna Pendoli)

“La festa per chi resta” al Mausoleo della Bela Rosin con Assemblea Teatro

Da mercoledì 7 agosto

 

Assemblea teatro,  in collaborazione con le biblioteche civiche torinesi, promuove un mini festival estivo, la “Festa per chi resta”fino a  sabato 17 agosto negli spazi del Mausoleo della Bela Rosin, in strada Castello di Mirafiori 148/7.

Ad inaugurare il cartellone mercoledì 7 agosto il testo di Jean Giono  “L’uomo che piantava gli alberi”; nel corso della serata saranno festeggiati i 45 arbusti piantati dall’associazione Quaranta.

Giovedì 8 agosto spazio alle novità con la pièce dal titolo “Non esisto”, di cui Renzo Sicco e Giovanni Boni sono gli artefici della prima, tratta dal romanzo di Alberto Schiavone. La notte di San Lorenzo, sabato 10, sarà presente la suggestiva pièce intitolata “Il segreto del piccolo Newt” sullo sfruttamento dei minori. Il tema del ruolo delle donne  e del femminile sarà affrontato lunedì 12 agosto con “Note di donne”. Verrà anche dedicato uno spettacolo all’inscindibile coppia di Stanlio e Ollio, dal titolo “Un mondo di allegria”.

 

Mara  Martellotta