CULTURA E SPETTACOLI- Pagina 38

Ludovico Bellucci in concerto sonorizza i capolavori del cinema muto

La stagione concertistica di Santa Pelagia prosegue all’insegna del dialogo tra la musica e gli altri linguaggi artistici, confrontandosi in questa occasione con la Settima arte.

La rassegna Intrecci musicali presenta, il 22 ottobre, alle ore 21, la “Musica del Mito”, un evento in cui le prime pellicole dell’epoca mitica del cinema muto si incontrano con le partiture sonore di periodi musicali altrettanto leggendari, grazie al pianoforte del giovane compositore torinese Ludovico Bellucci, da tempo impegnato in una rilettura in chiave moderna delle opere del passato.
Film muti d’epoca musicati dal vivo daranno vita ad un vero e proprio reenactment delle pratiche di proiezione e sonorizzazione originali, un cinema concerto che immerge il pubblico nel contesto storico e sociale degli anni Dieci, offrendo la proiezione integrale del film accompagnata da musiche inedite, eseguite dal vivo e concepite per valorizzarne lo sviluppo narrativo, i vissuti interiori dei protagonisti, gli eventi e il carattere storico delle vicende rappresentate.
Sul grande schermo scorrono le immagini di due capolavori del cinema muto italiano: “ Didone abbandonata” di Luigi Maggi del 1910, ispirato al celebre mito virgiliano, racconta con sorprendente sensibilità visiva il dramma amoroso della regina di Cartagine, restituendo in pochi minuti tutta la forza tragica dell’epopea classica. Le musiche, eseguite in prima assoluta, dialogano con le immagini per amplificare il pathos e la tensione emotiva del racconto.
Il secondo capolavoro è rappresentato da ”La caduta di Troia” di Giovanni Pastrone, che risale al 1911 ed è considerata una delle prime grandi produzioni del cinema muto italiano  e mette in scena con ambizione epica la guerra e la distruzione della città omerica, anticipando lo stile spettacolare che renderà celebre il regista di Cabiria.
La serata è realizzata in collaborazione  con il Conservatorio Giuseppe Verdi di Torino e la Cineteca Nazionale del Museo del Cinema.
“La Musica del Mito” è un’occasione unica per riscoprire il fascino originario del cinema muto nella suggestiva cornice settecentesca del Coro di Santa Pelagia, dove farsi trasportare all’interno di un  viaggio tra mito, immagini e suono, in cui la musica restituisce vita e voce alla memoria visiva del passato.
L’ingresso è libero su prenotazione. L’introduzione è affidata a Maria Adorno.

Ludovico Bellucci, 20 anni,  è pianista e compositore di colonne sonore. Studia composizione con Aldo Sardo presso il Conservatorio Giuseppe Verdi di Torino,  città in cui vive e lavora. La sua carriera artistica è iniziata nel 2015 con la partecipazione alla Festa della Musica di Torino, dove si è esibito per quattro edizioni consecutive con brani originali. Nel 2019 ha vinto il primo premio al concorso Pianofortissimo di Rivoli con un proprio inedito. Dal 2022, anno in cui realizza la musica per il cortometraggio “Dura Lex Sed Lex”, vincitore al Believe Film Festival di Verona, si dedica alla musica per il cinema muto.

Coro di Santa Pelagia, via San Massimo 21, mercoledi 22 ottobre ore 21

Mara Martellotta

Guadagnino e una grande Roberts non raggiungono la verità

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Sugli schermi “After the Hunt. Dopo la caccia”, presentato fuori concorso a Venezia

PIANETA CINEMA a cura di Elio Rabbione

Un tempo, a metà degli anni Sessanta, il mondo universitario, tra le pagine di “Chi ha paura di Virginia Woolf” di Albee, era scarnificato all’unisono con quello della coppia, oggi, con “After the Hunt. Dopo la caccia” Luca Guadagnino – bulimico cinematografico, sia detto per inciso, visti tutti i progetti, quelli bene informati dicono 6/8, che gli rimbalzano tra le mani, primo forse in scadenza, “Artificial” sul licenziamento e il reintegro del CEO di OpenAI, Sam Altman, quello che ha al proprio interno alcune scene girate qui a Torino negli scorsi mesi estivi, alla torre Intesa San Paolo -, dopo aver percorso le ultime tappe tra il tennistico “Challengers” e i dolori e le sfrenatezze di William Burroughs con “Queer”, allarga gli orizzonti all’insegnamento e agli insegnanti che hanno allontanato per sempre la cattedra e siedono intorno a un tavolo con i loro allievi, quelli che alimentano un efficace carisma e che entrando in classe iniziano senza preamboli la lezione, gli studenti attenti come pargoli agli occhi di una mamma; alle rivalse e alle demagogie, agli incontri tra pranzi e confidenze, tra ambiguità e motti di spirito che tendono a colpire, tra cattedre inseguite da una vita con tanto di studi incorporati e colleghi amici/nemici che, dopo tanti allegri chiacchiericci al pub, non vedono l’ora di metterti il classico bastone tra le ruote. E con questi, è da aggiungersi di questi tempi il me too, che come niente ha raggiunto – o invaso? – le aule, nel caso, di Yale. A intervallare l’intreccio – alla cui base è una sceneggiatura, facilmente oscarizzabile, firmata da Nora Garrett (tratta, pare, da una storia vera), piena zeppa di riferimenti, Jung e Freud e Aristotele, e poi Kierkegaard e Schopenhauer e Nietzsche, scritta in dialoghi felicissimi e fitti fitti in punta di penna, parole circostanze luoghi personaggi che non fanno una grinza, ardua difficile tutta calibrata passo dopo passo, a tratti scogliosa per lo spettatore ma estremamente stimolante, vero riferimento per certi scrittori di/per il cinema, parecchi di casa nostra, capaci di partorire tremende insensatezze e ovvietà dal fiato corto – il ticchettio ossessivo di un metronomo, tic tac tic tac tic tac, qua e là, sin dalle prime immagini, via via sdoppiato nelle musiche di Trent Reznor e Atticus Ross, padroni d’assorbire altresì ad un vastissimo repertorio, ogni nota improvvisa e disturbante (anche il padrone di casa invade gli ambienti di una musica altissima).

La docente di filosofia Alma Olsson (Julia Roberts, una delle sue più belle interpretazioni, tesissima in ogni attimo) ha chiamato a casa sua, complice l’affettuoso (la sveglia di ogni mattino ha la sua pillolina d’obbligo sul momodino) consorte Frederick, Michael Stuhlbarg, eccellente, comico disturbatore nel confessionale di turno (già con Guadagnino come padre del giovane protagonista in “Chiamami col mio nome”), per una cena colleghi e allievi e medici, per il cibo, il bicchiere di vino, la chiacchiera, la risata. Per discutere, se c’è ancora spazio, del fatto che ogni candidato maschio bianco etero e cisgender di questi tempi parte sfavorito. Con le dispute e le ambiguità di cui sopra, si arriva alla fine, il contendente Hank belloccio e narcisista e l’allieva brillante Maggie, afroamericana, gay, figlia di papà che sovvenziona con soldoni l’istituto, se ne vanno per ultimi, guardandoli Alma dallo spioncino della porta d’ingresso mentre s’allontanano sul pianerottolo, prima di pigiare il tasto dell’ascensore: salvo il giorno dopo Maggie (che, tenete a mente, durante una corsa nel bagno di casa, “si è messa” al corrente di un piccolo segreto che da sempre rimane sepolto nel cuore di Alma) rifarsi viva per narrarle delle molestie subite dall’uomo, la sera precedente durante l’ultimo bicchiere in casa di lei: rifacendosi ad Alma paladina dei diritti femminili e al clima d’empatia sorto tra due esseri umani.

Ha inizio il thriller ma non certo la ricerca di un colpevole da parte di Guadagnino, pronto anzi ad allontanare il calice amaro del finale (a dire il vero un po’ insipido, visto il fervorino che è l’inciampo dell’intero affresco, con quel biglietto da venti dollari posato sul tavolo del bar che ci ricorda quanto di “mercanteggio etico” ci sia nella storia) pur di rimescolare le carte, a dire e a negare, ad analizzare e a ritornare su quelle che sembravano conclusioni, in dialoghi a due ben congegnati dando ampio spazio alle ragioni dell’uno e poco dopo a quelle altrettanto meritevoli dell’altro, ascoltando le ragioni della pretesa innocenza e quelle forse legittime dell’accusa, guardando all’opportunismo della ragazza e agli scatti di machismo del collega, superuomo incallito, senza freni nella casa/rifugio di Alma, lasciando sempre lo spettatore sull’orlo di un enigmatico precipizio. Mentre Alma prende ad accusare dolori al ventre che crescono a denunciare tre ulcere alla fine perforate e un incidente nei confronti della università e di conseguenza della commissione che avrebbe dovuto dare il proprio placet per la agognata cattedra. In una durata di circa due ore e mezzo che si sarebbe dovuto un tantino sforbiciare. Verità nascoste e verità personalissime che Guadagnino ti schiaffa in faccia all’improvviso, con una costruzione perfetta d’ambienti (le scene sono di Stefano Baisi), con gli attori spinti a guardare in macchina (la fotografia fatta di paesaggi innevati, delle luci calde della signorilità e di quelle bianche e gelide che sono nel rifugio di Alma) ad una distanza ravvicinata oppure con questa che li tallona senza mezze misure.

Coraggioso è Guadagnino a scavare nel grande tema della verità e di conseguenza in quel mondo universitario che potrebbe ancora avere parecchi scheletri nell’armadio, argomenti modernissimi e votati alla scomodità, dove i sentimenti sono azzerati (i social aiutando parecchio) e i dubbi al di qua dello schermo permangono. Siamo nel terreno tremulo e pericoloso delle acque melmose e il regista rifiuta di darci risposte: e lo spettatore, se lo vorrà, potrà fare le proprie scelte. “Ed ecco, signori, come parla la Verità”, avrebbe detto nel finale del testo pirandelliano la velata signora Ponza. Ieri, come ogi, si calava il sipario.

“1979. L’inverno più buio”: Torino tra piombo, sogni e disillusioni

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TORINO TRA LE RIGHE

C’è una domanda che apre le porte alla storia: Qual è il peso specifico del piombo?
La risposta, forse, la conosce Paolo, giovane studente del Politecnico, idealista con l’anima appesantita da una stagione che ha il colore freddo della rassegnazione e l’odore acre della paura. È il 1979 e Torino è stretta nella morsa del terrorismo: un inverno cupo, carico di tensione, in cui i sogni di cambiamento si mescolano al sangue e alle contraddizioni.
Con il romanzo “1979. L’inverno più buio”, edito da Gilgamesh Edizioni, Luigi Schifitto ci conduce in un viaggio tra passato e presente, tra idealismo e giustizia, raccontando una vicenda potente che prende forma da un fatto storico realmente accaduto nella nostra città. Un attentato, una tragedia. E un diario: quello di Paolo, che quarant’anni dopo riemerge misteriosamente tra le mani del commissario Stefano Cavalli.
Il romanzo si sviluppa su due piani temporali intrecciati con grande perizia narrativa: da un lato, il Paolo ventenne, sospeso tra l’impegno politico e la disillusione; dall’altro, il Cavalli maturo, alle prese con le ombre di un passato che ancora brucia. La storia si costruisce attorno a un interrogativo che non riguarda solo la verità processuale, ma anche la responsabilità morale, collettiva e individuale.
La penna di Schifitto è lucida e coinvolgente, mai compiaciuta, capace di restituire il clima di quegli anni senza retorica. A rendere più vivido il quadro ci pensano anche i riferimenti musicali, da De André ai Ramones, che accompagnano la narrazione come una colonna sonora emotiva.
Il risultato è un romanzo malinconico, avvincente, tragico ma necessario, che riesce in un’operazione tanto ambiziosa quanto riuscita: fondere verità storica e finzione narrativa in un intreccio serrato e fluido.
Il personaggio di Paolo, con la sua lotta interiore, le sue fragilità e i suoi tormenti, è il cuore pulsante del libro. Ma è nel contrasto con il presente, e con il percorso del commissario Cavalli, che emerge tutta la potenza del romanzo. Il lettore viene trascinato in un’indagine che è prima di tutto umana, oltre che giudiziaria.
E poi c’è il finale. Un finale che non si dimentica, che sorprende e lascia un velo di malinconia addosso. Un epilogo coerente, emozionante, che dà senso all’intero viaggio.
Luigi Schifitto, siracusano di nascita e torinese d’adozione, insegna matematica e fisica in un liceo della città. Da anni scrive di Torino e per Torino. Tra i suoi lavori precedenti, ricordiamo L’uomo con lo zainettoDelitti di stagione e Una persona scorretta, tutti con protagonista il commissario Cavalli. Con questo nuovo romanzo, lo scrittore conferma la sua capacità di raccontare la città nei suoi chiaroscuri più profondi, mantenendo vivo il dialogo tra memoria e contemporaneità.
“1979. L’inverno più buio” non è solo un noir. È un promemoria. Un invito a non dimenticare. Un libro che ci obbliga a guardare indietro, per capire dove siamo oggi.
E forse anche per chiederci, ancora una volta, quanto pesa davvero il piombo.
Marzia Estini

Luciano Berio, compositore, nel Centenario della nascita 

Nel corso dei secoli la musica ha subito naturali trasformazioni, dal periodo rinascimentale al serialismo integrale del suono nato nel secolo scorso. Felix Mendelssohn, compositore del periodo romantico tedesco, dopo quasi un secolo ha ripescato le grandi opere dimenticate di Johann Sebastian Bach, generando il repertorio musicale. Lo stile contrappuntistico di Bach fu in parte conservato da Carl Philipp Emanuel, il figlio più famoso definito il Bach di Amburgo, ricco di idee e molto ammirato da Haydn. Il genio paterno invece non era affine al figlio più giovane Johann Christian che aveva privilegiato l’elemento armonico e lo stile galante, precursore del classicismo e molto influente su Mozart.

Dopo tanti anni di attesa non si è ripetuto il fenomeno musicale del ’68, lo sciame sismico giunto dall’Inghilterra ormai esaurito ed immerso nel sonno spettrale degli ultimi decenni, splendido miraggio assopito in una società liquida senza valori dove il culto dell’immagine scorre velocemente riducendo l’ascoltatore a semplice pubblico ipnotizzato da false illusioni. L’argomento principale mancante di questo vuoto è stato riempito sapientemente nel 1972 da Luciano Berio (*Oneglia 24-10-1925 +Roma 2003), compositore e pioniere dell’avanguardia europea. La sera del 22 febbraio, una settimana dopo la chiusura del Festival di Sanremo in piena crisi con riduzione della doppia interpretazione introdotta nel 1957, richiesta di sciopero e l’amara prospettiva di sospensione del programma, sul secondo canale Rai andava in onda la prima delle dodici puntate di “C’è musica & musica”.

La coraggiosa serie ideata da Berio proponeva al pubblico televisivo l’alternativa di una nuova estetica, utilizzando nuove forme sperimentali di comunicazione musicale e sapere umanistico. Le varie problematiche sulla scrittura e sul pensiero musicale furono esposte tramite oggetti sonori dal barocco di Monteverdi ai contemporanei Beatles, commentati da importanti personaggi internazionali quali Bernstein, Cage, Boulez, Messiaen, Stockhausen, Sanguineti, Donatoni e Dallapiccola. Le puntate furono replicate sulla stessa rete da marzo a giugno e pubblicate da Feltrinelli nel 2013 con commenti di Michele Dall’Ongaro, direttore musicale di Rai Radio Tre. Nel primo Studio di Fonologia Musicale della Rai di Milano, Berio aveva approfondito con Bruno Maderna la ricerca sonora delle interazioni acustiche tra strumenti, suoni elettronici e parola, affermandosi come autorevole esponente di musica sperimentale.
In “Omaggio a Joyce”, le risorse espressive della mezzosoprano americana e prima moglie Cathy Berberian unite alla rielaborazione elettroacustica crearono una dialettica e un nuovo linguaggio parlato onomatopeico. Tra i vari premi ottenuti da Berio ricordiamo il “Leone d’oro alla carriera” alla Biennale di Venezia, diversi ” Honoris Causa” e il “Premium Imperiale” giapponese. Promotore di musica contemporanea, insegnò nelle prestigiose accademie di Europa e Stati Uniti e a Firenze fondò l’istituto “Tempo Reale”, utilizzando nuove tecnologie e applicazioni elettroniche. Tra i suoi allievi figura Giulio Castagnoli, docente del Conservatorio Verdi di Torino aperto ai diversi contesti artistici con la passione per la fisica acustica, autore di saggi sui suoi mentori Berio, Donatoni e Ferneyhough. Compositore di musica espressiva formata da suoni materici, parafrasa i pensieri musicali del passato con la tipica complessità, per certi aspetti, di Olivier Messiaen.

L’interesse di Berio verso la musica di Castagnoli si era concretizzato dopo il loro incontro a Bonn, dirigendo egli stesso nel 1992 al Comunale di Bologna i “Madrigali per Orchestra” di Castagnoli e nel 2002 commissionandogli per l’Accademia di Santa Cecilia il “Concerto per violoncello e doppia orchestra”. Per il centenario della nascita di Berio, Castagnoli e Andrea Basevi del Conservatorio Paganini di Genova sono stati ospiti della terza sessione del Convegno di Rimini del 19 ottobre 2025, una tavola rotonda dal titolo “Abitare la melodia, due compositori tra le architetture di Luciano Berio”, dedicata alla tecnica sapiente e alla vena creativa del maestro. Con i due compositori, Berio aveva completato e orchestrato l’opera di Sergio Liberovici “Maelzel o delle macchinazioni”, pubblicata nel 1995 da Casa Ricordi. In questo inizio di secolo la musica contemporanea è in fase di cambiamento, percorsi sempre più individuali e scritture meditate non condivise, confusione in atto anche nelle arti figurative.
Armano Luigi Gozzano

Il Premio “Ivo Chiesa” a Filippo Fonsatti

DIRETTORE GENERALE DEL TEATRO STABILE DI TORINO

Il Teatro Stabile di Torino arricchisce il suo palmarès con il Premio Ivo Chiesa. Una vita per il teatro – VI edizione 2025 che è stato assegnato al suo Direttore generale Filippo Fonsatti durante la cerimonia organizzata lunedì 20 ottobre alle ore 18.30, nel foyer del teatro Ivo ChiesaIl premio, istituito dal Teatro Nazionale di Genova nel 2020, in occasione del centenario della nascita di Ivo Chiesa e su impulso del direttore Davide Livermore, vede fra i premiati di questa edizione anche l’attrice teatrale e cinematografica Anna Bonaiuto e Maria De Barbieri, anima storica – insieme al compagno di vita Tonino Conte – del Teatro della Tosse, che quest’anno compie 50 anni.
«Filippo Fonsatti – si legge nella motivazione del premio – incarna, un modello di managerialità teatrale estremamente coerente e di alto livello, nutrito dallo studio, dalla ricerca, dal dialogo con gli artisti. Un modo di gestire il teatro pubblico che certo sarebbe piaciuto ad un maestro come Ivo Chiesa».

Nella stessa serata sono stati consegnati i Premi della Critica ANCT 2025 all’attrice Valentina Picello e alla traduttrice Monica Capuani, con le quali lo Stabile di Torino ha collaborato in numerose occasioni. Valentina Picello è stata la protagonista de La gatta sul tetto che scotta, produzione del Teatro Stabile di Torino diretta da Leonardo Lidi che è stata accolta con successo nella scorsa stagione e che sarà replicata in molte città italiane tra il 2025 e il 2026. Monica Capuani, traduttrice di testi teatrali e letterari, lavora con lo Stabile torinese da molto tempo: fra le collaborazioni più recenti, ricordiamo la sua traduzione de La gatta sul tetto che scotta di Tennessee Williams, quella di Agosto a Osage County di Tracy Letts e quella di Circle, Mirror, Transformation di Annie Baker, che sarà il prossimo spettacolo diretto da Valerio Binasco per il Teatro Stabile di Torino.

Radici: il festival che interroga le nostre identità

Si terrà domani, alle ore 10 al Circolo dei lettori e delle Lettrici di Torino la conferenza stampa di presentazione di Radici, il festival che quest’anno invita grandi artisti e voci autorevoli a interrogarsi – in chiave pirandelliana – sul tema delle identità: una, nessuna e centomila.
Un percorso che attraversa l’individuale e il collettivo, la nazione e il popolo, fino all’immagine che ciascuno costruisce di sé in una società sempre più complessa ma al tempo stesso omologata. Un’omologazione che Pier Paolo Pasolini denunciò già negli anni del boom, osservando come il consumismo avesse trasformato stili di vita e modelli culturali.
Accanto a questo filone, Radici esplora anche le esperienze di chi ha scelto di espatriare, vivendo in bilico tra due mondi e due identità.
E oggi, mentre i social media amplificano, distorcono e condizionano la percezione di sé, e l’intelligenza artificiale mette in discussione la stessa nozione di identità, il festival rilancia il dibattito aprendolo a prospettive e contenuti diversi, con l’obiettivo di risvegliare nuove consapevolezze.
Valeria Rombolá

L’aquila di Cicogna

 

Cicogna è la piccola capitale della Val Grande, l’area wilderness più grande delle alpi e d’Italia all’estremo nord del Piemonte, parco nazionale più di trent’anni. Corte maggengale delle comunità verbanesi di Cossogno, Unchio e Ungiasca già dal XIII secolo, diventò un centro permanente solo a partire dal XVI secolo.

Cicogna, posta sul declivio che scende dalla Cima Sasso e separa l’imbocco della Val Pogallo dalla Val Grande, segna il limes, il confine tra la civiltà degli esseri umani e quella della natura. E’ lì che Fabio Copiatti ha ambientato i suoi ultimi libri, compreso L’Aquila di Cicogna, edito recentemente da Youcanprint. Verbanese di nascita (con genitori originari di Cossogno) per 24 anni – dal 1996 al 2019 – ha lavorato per il Parco Nazionale Val Grande per poi trasferirsi all’ombra delle Dolomiti Bellunesi dove si occupa di politiche per la sostenibilità. Ricercatore storico, biologo e guida escursionistica ambientale, con i suoi libri ha contribuito a far conoscere la cultura e le tradizioni alpine. Nel suo L’aquila di Cicogna Copiatti ha raccolto numerosi racconti partendo da uno sguardo che spazia su due prospettive: da un lato la rievocazione di vicende realmente accadute nel secolo scorso, testimonianze di guerra, di lotta e di sopravvivenza, fatti tramandati da chi c’era, da documenti d’archivio, da giornali locali; dall’altro, il filo più intimo dei ricordi personali dell’autore, maturati in quell’area selvaggia. Tra le pagine rivivono personaggi come Don Antonio Fiora, il combattivo “prete di Cicogna”, quasi si trattasse di una sorta di Don Camillo della Val Pogallo, le vicende di abili cacciatori e di animali leggendari come la grande aquila e la vipera con le zampe, storie di lotta e di dolore al tempi della Resistenza come il tragico rastrellamento del 1944, ricordi di balme perdute, alberi straordinari e animali come il fagiano di monte e il saettone. Con uno stile sobrio e coinvolgente i racconti restituiscono l’essenza della storia valgrandina. Un mondo arcaico, retto da pratiche e valori ancestrali, per certi versi poco moderni, secondo i canoni odierni, ma quanto mai importanti, necessari, utili per l’oggi e il domani. Un mondo che ci insegna ad essere umili, a riconoscere che una parte importante della cultura accumulata da generazioni di montanari risiede in quei luoghi aspri, spesso percorsi su sentieri ripidi sotto il peso di una gerla. Posti dove le frontiere dei crinali sono stati più un punto d’incontro che una linea di demarcazione e separazione. Copiatti ha rilevato nei fatti il testimone della ricerca di Nino Chiovini e questo gli fa onore. Ecco perché quest’ultimo suo libro – come i precedenti Cicogna ultima Thule, A passo di vacca, E’ questa casa mia. Storie e racconti di Valgrande – è davvero molto importante.

Marco Travaglini

Iperspazio, Fertili Terreni Teatro: di scena la pièce teatrale ‘Molly’

Per Iperspazi, la stagione 2025-2026 di Fertili Terreni Teatro, andrà  in scena lunedì 20 ottobre alle ore 19 e da martedì 21 a giovedì 23 ottobre, alle 21, presso OFF Topic, la pièce teatrale ‘Molly’, un progetto di Cubo, scritto e diretto da Girolamo Lucania con Letizia Alaide Russo, in collaborazione con il Teatro della Caduta, Giallo Mare Minimal Teatro, Catalyst  ETS.

Lo spettacolo presenta luci stroboscopiche, non adatte ad un pubblico fotosensibile.

Per Cubo il viaggio nell’adolescenza e nelle sue contraddizioni ha dapprima avuto inizio con ‘Sid- fin qui tutto bene’, protagonista un ragazzo di periferia di seconda generazione, è poi proseguito  con ‘HyperGaia’, giovane raver che combatte l’estinzione e ora scrive il suo terzo capitolo teatrale nel racconto di ‘Molly’, ovvero la narcosi del narcisismo e le conseguenze depressive del nostro mondo edonico. Si tratta di un itinerario articolato per sondare radici e prospettive delle nuove generazioni, uomini e donne cui in un domani molto prossimo sarà affidato il futuro della specie.

Liberamente ispirato a un fatto di cronaca, nel 2017 la quattordicenne britannica Molly Rose Russell venne trovata senza vita nella sua camera in circostanze appaarentemente misteriose, poi archiviate dal medico legale con la formula “deceduta per autolesionismo mentre soffriva di depressione e degli effetti negativi dei contenuti online”. Il racconto di Molly è la storia d’amore di una ragazza mai uscita dalla propria stanza, una scelta di isolamento estremo cui si deve aggiungere la prospettiva di un amore con un’altra ragazza, identica  a lei, ogni giorno rinsaldato dal tempo trascorso insieme. Una passione totalizzante che unisce le due adolescenti e fa loro costruire un legame sempre più forte, ai limiti della reciproca dipendenza, destinato ad assorbire ed annullare le reciproche personalità fino a quando, un giorno, una delle due non si presenta. Solo a questo punto l’altra giovane deciderà di rompere gli schemi dell’autoesilio che, nel tempo, si era imposta, uscendo a cercarla, salvo poi presto scoprire la terribile e atroce verità.

Se la giovane adolescente inglese sui suoi canali social voleva informare e condividere le riflessioni su di una depressione compagna di vita al pari che nell’esistenza di molte sue coetanee e coetanei, nella realtà proprio le invisibili potenzialità dei social e degli algoritmi sottostanti, avevano iniziato a minarne i già fragili equilibri, rivelandosi con il passare dei giorni trappole pericolose cui sarebbe stato impossibile sottrarsi. E così un fatto di cronaca passato in secondo piano, dolorosa pagina archiviata come dramma familiare come tanti altri, diventa cartina di tornasole per far emergere ombre e fantasmi dalla valenza universale. Il rapporto con i social network e le intelligenze artificiali, le responsabilità legali e la coscienza collettiva, tutti elementi messi a fuoco in un progetto drammaturgico, che risulta l’esito finale di un articolato piano di incontri con ragazze e ragazzi degli istituti superiori, studentesse e studenti impegnati in un laboratorio di scrittura creativa immaginato per affrontare i temi cardine dello spettacolo,  su tutti la dipendenza dai social,  le patologie depressive  e il funzionamento degli algoritmi.
Dalla scrittura alla scena il passaggio si è  concretizzato all’insegna di quella multidisciplinarietà che ha interessato ogni componente del processo creativo, spaziando dalla composizione musicale e visuale alla drammaturgia, per dare forma ad un unicum coerente sinfonico, visivo e drammaturgico. Dal pubblico vista solo di profilo, con lo sguardo fisso in una videocamera che ne proietta l’immagine verso la platea, Molly diventa un oggetto di video/arte, una proiezione cinematografica creata e fatta vivere in diretta.

“Molly – spiega il regista Girolamo Lucania – è una storia di specchi e trucchi, quelli cui siamo ormai costretti a vivere ogni giorno. Diverse versioni di noi, maschere dietro i nostri avatar. E poi ci sono i nostri profili, che ci osservano e ci emulano ogni giorno, ci spingono verso desideri che non credevamo di avere. Miriadi e miriadi di versioni emulate della stessa creatura. Un corso storico che ci sta scivolando sotto i nostri occhi, in cui si intrecciano rapporti umani, il senso della vita di giovani ragazzi e ragazze, declinato attraverso il rapporto con una  nuova generazione di creature aliene, gli algoritmi generati e creati al solo scopo di produrre profitto”.

Mara Martellotta

Al Teatro Gobetti debutta “Figli d’anima” Scritto e diretto da Simone Schinocca

Debutta in prima nazionale, martedì 21 ottobre prossimo, alle 19.30, per la stagione del Teatro Stabile di Torino, al Teatro Gobetti, “Figli d’anima”, scritto e diretto da Simone Schinocca. Lo spettacolo, il cui titolo è ispirato al modo in cui la scrittrice Michela Murgia parlava del suo nucleo famigliare scelto, pone al centro il tema dell’affido esplorando la genitorialità e il legame profondo della filiazione. Il testo propone un viaggio fra famiglia naturale e famiglia scelta, nate da incontri che cambiano la vita. In scena Antonella Delli Gatti, Costanza Maria Frola, Marco Musarella e Michela Paleologo. Luci e scene sono di Florinda Lombardi, i costumi di Agostino Maria Porchietto. Lo spettacolo, prodotto da Tedacà, in collaborazione con il Festival delle Colline Torinesi, Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale e Fertili Terreni Teatro, con il sostegno di Casa Affido della Città di Torino, sarà in scena al teatro Gobetti fino al 26 ottobre prossimo.

Grazie alla collaborazione di Casa Affido della Città di Torino, Simone Schinocca ha realizzato un lavoro di ricerca e scrittura che prende il via da una serie di interviste condotte con persone che hanno scelto di aprire la propria casa e con ragazzi e ragazze che, arrivando da esperienze di trascuratezza e abbandono, hanno avuto la possibilità di riscrivere e riscoprire il loro concetto di famiglia. Lo spettacolo prende forma partendo da due riflessioni: “figli dell’anima” e “shamandura”. “Figli dell’anima” si riferisce a una pratica diffusa in passato, in Sardegna, che consisteva di affidare il proprio figlio biologico ad altri adulti, generalmente senza figli, appartenenti alla propria comunità, ma non necessariamente alla propria rete famigliare. Questa forma di sostegno comunitario non era regolamentata da carte formali, se ne trova traccia solo nelle testimonianze di chi ha vissuto tale esperienza o negli atti testamentari in cui, i figli dell’anima venivano nominati eredi da chi li aveva accolti come figli propri.
“Shamandura” è un termine arabo che significa “ormeggio”, e indica l’attracco a cui l’imbarcazione deve legarsi quando si trova nel mezzo della barriera corallina, al fine di non rovinarla. Un ancoraggio che offre la possibilità di fermarsi, riposare, passare la notte in un luogo riparato da correnti e mareggiate, ma senza danneggiare nulla di ciò che sta intorno. “Shamandura”, per alcuni pescatori sardi e siciliani, è anche il luogo dove le onde del mare in tempesta si infrangono sulla scogliera e, tornando indietro, si scontrano con le onde in arrivo, creando una superficie marina più calma.

“Figli d’anima e shamandura, a questi due termini dal significato evocativo – racconta la compagnia – si ispira la nostra idea di spettacolo, che avrà àl centro il tema della genitorialità e dell’intima natura del legame di filiazione, legame che può andare ‘oltre’ quello di base. L’idea di base non è contrapporre i due concetti, ma ricercare e raccontare l’anello di congiunzione tra famiglia scelta e quella naturale. Ci sono le famiglie naturali alle quali si affiancano persone che, nel tempo, possono diventare famiglie scelte. La conciliazione di queste due si può trovare in molte esperienze di affidamento famigliare, e rappresentano una vera e propria ‘shamandura’ nella vita di tanti ragazzi e ragazze.
Grazie al potere della narrazione, riusciamo a comprendere la grandezza delle piccole cose e la preziosità dei dettagli. Di rado li afferriamo immediatamente mentre siamo immersi nella vita, mentre spesso riusciamo a coglierli in quella fase dell’esperienza determinata dal ricordo, quando ripensiamo al vissuto, interpretiamo i fatti accaduti e li raccontiamo a qualcuno. Con il tempo riusciamo a dare un senso alle cose, pur sapendo che possono esserci tante narrazioni di un vissuto e molteplici punti di vista da cui osservarlo. Se questo è quasi sempre vero, vale ancora di più ciò che riguarda le storie familiari. Racconteremo storie per dare senso, trovare un senso, costruire memoria, regalare stupore, dare spazio all’immaginario e alla creatività. Per educarci alla strordinarietà dell’ordinario e porci alcune domande come: con quali occhi guardo la realtà ? Con quali orecchie ascolto ciò che avviene ? Con che tipo di consapevolezza e partecipazione vivo la mia quotidianità ? Con che desiderio di genitorialità ? Cosa significa essere figli ? Di chi ci sentiamo figli ? Di chi ci sentiamo madri e padri ? Le storie hanno capacità trasformativa nel tempo e nelle nostre vite”.

Teatro Gobetti – via Rossini 8, Torino

Orario: martedì, giovedì e sabato ore 19.30 / mercoledì e venerdì ore 20.45 / domenica ore 16

Biglietteria Teatro Carignano – piazza Carignano 6, Torino – 0115169555 – biglietteria@teatrostabiletorino.it

Mara Martellotta