CULTURA E SPETTACOLI- Pagina 351

“Futures moves to Piazza Carlina”

Con gli scatti inquietanti di Camilla Ferrari e quelli ardimentosi di Camillo Pasquarelli, prosegue il “progetto speciale” di “CAMERA”

Dal 30 giugno al 4 settembre

Sempre loro le (insolite, ma gradite e funzionali) locations: gli showroom di “Maradeiboschi” (piazza Carlina, 21) e di “VANNI” (al civico 15/A della stessa piazza), ormai collaudati partner e sostenitori del Progetto “Futures moves to Piazza Carlina”, promosso, dal maggio scorso (e in programmammo fino al prossimo ottobre), da “CAMERA- Centro Italiano per la Fotografia” di Torino. Obiettivi di fondo per tutti gli appuntamenti espositivi: promuovere la giovane fotografia italiana attraverso mostre dedicate all’opera dei talenti selezionati nel 2020, dall’istituzione torinese, nell’ambito del programma europeo “Futures Photography” e rinnovare intensificandolo il giusto rapporto con il territorio. In questo contesto (dopo “Three works”, l’appuntamento di apertura nel quale sono state allestite le opere della giovane artista bellunese Marina Caneve), dal prossimo giovedì 30 giugno e fino a domenica 4 settembre, vengono aperte al pubblico, curate sempre da Giangavino Pazzola, le mostre personali della fotografa milanese (1992) Camilla Ferrari, grande viaggiatrice specializzata in street photography, e del romano (1988) Camillo Pasquarelli rispettivamente con l’installazione “Aquarium” e “Clavadistas”.

“Aquarium” (2017) di Camilla Ferrari, da “VANNI”, è il racconto di un’esperienza biografica, alquanto traumatica (ma allo stesso tempo “poetica e asfissiante”) accaduta all’artista in Cina nel 2017. Appena atterrata a Pechino, infatti, Camilla ha visitato il palazzo imperiale della “Città Proibita” dove, per la prima volta nella sua vita, ha dovuto affrontare un grave “attacco di panico”. “Il progetto si sviluppa –racconta – a cavallo tra la registrazione della perdita del controllo dovuto all’alterazione delle proprie emozioni e lo straniamento derivante dal cambio di percezione dello spazio circostante, a sua volta sconosciuto”. A tale condizione alquanto critica, l’urgenza terapeutica della risposta viene proprio grazie all’aiuto dell’apparecchio fotografico, che la guida quasi in maniera inconscia verso un tranquillo abbandono e una nuova scoperta di sé. Un assoggettamento a cui segue un riscatto, dal caos alla quiete, “che non passa dalla rimozione del vissuto ma dalla sua elaborazione e memoria anche nei registri del visivo”.

Allestito da “Maradeiboschi”, “Clavadistas” (2019) è un progetto realizzato da Camillo Pasquarelli ad Acapulco, città messicana affacciata sull’Oceano Pacifico, tra le più violente al mondo. Sebbene nel dopoguerra sia stata per decenni meta mondiale del jet-set, a causa di una guerra tra cartelli della droga, dal 2010 i numeri del turismo internazionale sono crollati vertiginosamente, declassando Acapulco a destinazione turistica per la classe media messicana. Tra hotel abbandonati e la decadenza di un lungomare in rovina, ancora oggi rimane viva una tradizione tanto spettacolare quanto pericolosa: “Los Clavadistas” (I tuffatori).
In pieno stile documentario, Pasquarelli immortala i tuffatori che saltano dal crepaccio della Quebrada, una scogliera alta 35 metri. Sprezzo del pericolo, virilità e coraggio si mescolano alla devozione per la “Vergine di Guadalupe”, alla quale i tuffatori si raccomandano prima di lanciarsi, e alla necessità di sopravvivere grazie alle donazioni dei pochi turisti rimasti nell’area.

g.m.

Per info: CAMERA-Centro Italiano per la Fotografia, via delle Rosine 18, Torino; tel. 011/0881150 o www.camera.to

Orari:

–        “Maradeiboschi”, lun. e merc. 8/21,30; giov. e ven. 8/23,30; sab. 9/23,30; dom. 9/21,30

–       “VANNI”, mart. – ven. 10/19,30; sab. 10/13,30 e 15,30/19,30; dom. e lun. chiuso

Nelle foto:

–       Camilla Ferrari, dalla serie “Aquarium” (2017 – 2018)

–       Camillo Pasquarelli, dalla serie “Clavadistas” (2018 – 2019)

A Silvia Pozzi, il podio più alto del “Premio Biennale Mario Lattes per la Traduzione”

La seconda edizione dedicata alla Narrativa in Lingua Cinese si è tenuta al medievale Castello di Perno, nel cuore delle Langhe

Monforte d’Alba (Cuneo)

Docente di “Lingua Cinese e Traduzione” presso l’Università degli Studi di Milano – Bicocca (nonché condirettore editoriale di “Caratteri”, prima rivista in italiano di Letteratura Cinese Contemporanea), è Silvia Pozzi, per la traduzione di “Pechino pieghevole” di Hao Jingfang (add editore), la vincitrice della seconda edizione del “Premio Biennale Mario Lattes per la Traduzione” , promosso dalla “Fondazione Bottari Lattes”, in collaborazione con l’“Associazione Culturale Castello di Perno” ed il Comune di Monforte d’Alba. La Pozzi è riuscita ad emergere in una rosa di cinque finaliste e finalisti composta da: Marco Botosso e Maria Teresa Trucillo traduttori di “Colora il mondo” di Mu Ming (Future Fiction), Maria Gottardo e Monica Morzenti traduttrici di “I due Ma, padre e figlio” di Lao She (Mondadori), Patrizia Liberati Maria Rita Masci traduttrici di “Il dizionario di Maqiao” di Han Shaogong (Einaudi) e Nicoletta Pesaro traduttrice di “Grida” di Lu Xun (Sellerio). “Con la traduzione di Pechino pieghevole’ – spiega la Giuria specialistica – Silvia Pozzi porta al lettore italiano una voce originale e convincente della scena letteraria cinese contemporanea. Come non pochi scrittori della sua generazione, Hao Jingfang, l’autrice di questa raccolta di racconti, adotta il genere della narrativa fantascientifica, che declina in varie forme per ottenere diversi effetti e dimensioni. Ma per quanto frutto di una distorsione fantastica della realtà come la conosciamo, i mondi di questi racconti inevitabilmente ci rimandano al nostro e i personaggi che li abitano hanno in fondo le nostre stesse emozioni e ambizioni, ed è certo per questo che le loro vicende risultano avvincenti e sono capaci di parlare al lettore. Ma non solo: quella misteriosa comunicazione avviene anche grazie alla maestria della traduzione, alla duttilità (o alla “pieghevolezza”, verrebbe da dire) del suo stile, a quell’abilità alchemica di ricalcare e adattare il testo dell’originale e restituircelo fresco e inaspettatamente vicino in una nuova lingua: fluida, sfumata, elegante”. La cerimonia di premiazione, condotta da Stefania Soma (in arte, Petunia Ollister), si è svolta nei giorni scorsi al Castello di Perno, nel cuore delle Langhe, “Patrimonio Mondiale dell’Umanità Unesco”. Nell’occasione, queste le parole di Caterina Bottari Lattes, presidente della “Fondazione” di Monforte d’Alba: “Con il ‘Premio Mario Lattes per la Traduzione’ la ‘Fondazione Bottari Lattes” pone l’attenzione sul fondamentale ruolo dei traduttori nella diffusione della letteratura e sull’impareggiabile contributo della traduzione nell’avvicinare popoli e culture differenti, abbattendo muri ideologici, creando ponti culturali e favorendo il dialogo. Con questa iniziativa la Fondazione intende promuovere la conoscenza di culture e autori meno noti al pubblico italiano e incoraggiare la traduzione in italiano delle loro opere letterarie più significative per qualità letteraria e profondità di contenuti, riflessioni, testimonianza. Il tutto nella piena consapevolezza che la traduzione non si risolve in una semplice trasposizione di parole da una lingua all’altra e nello spostamento di un segno linguistico da un codice all’altro, ma è una disciplina che sa trasferire pensieri e concezioni tra culture diverse, con le quali il traduttore instaura un profondo legame”.

Per info: “Fondazione Bottari Lattes”, via G. Marconi 16, Monforte d’Alba (Cuneo);  tel. 0173/789282 o www.fondazionebottarilattes.it

 

g.m.

Nella foto:

–       Silvia Pozzi

Trovatore in transito

IL VERONESE MATTEO ZENATTI ‘TROVATORE’ SULLE ORME DI RAMBAULT DE VAQUEIRAS IN VALCERRINA ED IN MONFERRATO

 

Rambault de Vaqueiras o, italianizzato, Rambaldo, fu uno dei trovatori provenzali più apprezzati nel periodo tra il Dodicesimo ed il Tredicesimo secolo. Dalla natia Provenza, dove divenne giovanissimo joglar, giunse nel Nord Italia e, in particolare alla corte di Bonifacio, marchese di Monferrato di cui seguì il destino, cantandone le gesta e l’amore per la di lui sorella, Beatrice, sposa di Enrico del Carretto. Fatto cavaliere, partecipò alla Quarta Crociata della quale Bonifacio era al comando, alla presa di Costantinopoli, alla nascita dell’Impero Latino d’Oriente e trovò la morte con il marchese nei pressi di Tessalonica per mano di ribelli ‘bulgari’.

Matteo Zenatti, veronese di Tregnago (paese vicino a Soave) ha dato vita ad un interessante percorso, tutto rigorosamente a piedi, sulle orme di Rambault, ‘Trovatore in transito’, partendo da Dronero, grazie alla collaborazione dell’associazione Espaci Occitan, e facendo poi tappa a Busca, Saluzzo, Savigliano, Montaldo Roero, Cisterna, Villafranca d’Asti, Capriglio, nella frazione Piancerreto di Cerrina, Mombello Monferrato per terminare a Pontestura che fu proprio una delle capitali itineranti dei marchesi aleramici. Ad ogni tappa ha tenuto, grazie all’ospitalità ed alla collaborazione di enti, istituzioni, associazioni, privati, un incontro nel quale ha eseguito i pezzi dei 7 brani che ci sono rimasti di Rambault nei quali si parla soprattutto di amore, di guerra, il menestrello si descrive o, naturalmente, tesse le lodi di Bonifacio. Ad accompagnarlo c’era un altro veronese, Simone Cunico che ha filmato le varie fasi del viaggio. L’obiettivo è quello di realizzare un docu-film, che si accompagnerà al disco che Zenatti intende incidere. Per tutta la durata del viaggio il ‘Trovatore in transito’ è partito dalle diverse località al  mattino prestissimo, intorno alle 5.30, viaggiando il più possibile su strade bianche, ‘armato’ di zaino ed arpa, strumento con il quale ha poi ravvivato i vari incontri. “Questo progetto è stata un’occasione importante per stabilire, sulla base di un precedente storico che risale al Medioevo, quando il Monferrato era davvero uno stato europeo, un collegamento tra  la nostra zona ed il mondo Occitano e la Provenza. Su questo obiettivo occorrerà lavorare nel prossimo futuro” dichiara Massimo Iaretti, consigliere delegato alla Cultura e Turismo dell’Unione dei Comuni della Valcerrina.

Massimo Iaretti

 

 

 

Le installazioni realizzate dagli studenti del Passoni decoreranno l’Enoteca Rabezzana

Martedì 28 giugno, alle 18, l’Osteria Enoteca Rabezzana inaugurerà con un aperitivo musicale le installazioni artistiche che gli allievi dell’Istituto d’Arte Passoni hanno realizzato per i suoi locali.
Mercoledì 29 giugno, alle 21.30, avrà luogo la serata dedicata ai “Decades con Ottosottountetto”.
Gli Ottosottountetto costituiscono un gruppo vocale formatosi durante il lockdown, composto da amici che abitualmente facevano già parte di formazioni corali polifoniche.
Durante il lockdown hanno cantato ognuno sotto il proprio tetto un brano che hanno poi diffuso su piattaforme digitali.
Visto il consenso ottenuto, hanno poi deciso di riunirsi sotto lo stesso tetto per cantare un repertorio che, partendo dal pop italiano, sconfina nello spiritual e nei brani più classici del repertorio corale. Il gruppo ha, all’attivo, con le rispettive formazioni corali, un’intensa attività concertistica in Italia e all’estero.

MARA MARTELLOTTA

Osteria Rabezzana, via San Francesco d’Assisi 23/C, Torino
Tel 011543070 info@osteriarabezzana.it

Gli spari di Gavrilo e la scintilla che incendiò il ‘900

Se, come dicono, la memoria è fatta anche di lapidi, cippi, tombe e di luoghi-simbolo, uno di questi è senza alcun dubbio il ponte Latino di Sarajevo che attraversa da una riva all’altra, la Miljacka

Lì, al numero uno di Zelenih Beretki c’è il Muzej Sarajevo 1878-1918 , nelle cui sale si racconta la storia dell’impero asburgico e dell’influenza che esercitò in quest’angolo del mondo fino al suo esaurimento che coincise con la fine del primo conflitto mondiale. Il museo non si trova in un luogo qualsiasi, visto che lì davanti, a pochi metri,venne assassinato nella tarda mattinata del 28 Giugno 1914 Francesco Ferdinando, l’erede al trono imperiale. Tutto partì da lì e come la storia ci ha insegnato nulla è casuale a Sarajevo. Seguendo una certa logica e per diverso tempo nell’era della jugoslavia di Tito, il ponte Latino venne ribattezzato Principov most, in onore di Gavrilo

 

Princip. Fu lui, diciannovenne studente e fervente nazionalista serbo, ad esplodere i due colpi mortali che posero fine alla vita del principe Franz Ferdinand e di sua moglie Sofia, innescando la scintilla che provocò, in breve, la prima guerra mondiale. Con un piccolo esercizio di fantasia basta mettersi sul ponte, all’incrocio con la Obala Kulina bana, la strada che costeggia la riva destra della Miljacka e immaginare il caos di quel giorno, con il corteo di auto che, dopo il primo attentato fallito, sbagliava strada così che il mezzo su cui viaggiava l’arciduca si trovò per caso a tiro della mano di Gavrilo che, impugnando una Browning calibro 7.65 di fabbricazione belga, lasciò partire gli spari che riscrissero la storia. Un colpo di fortuna per Gavrilo Princip; un destino amaro e tragico per Francesco Ferdinando. Ha scritto Paolo Rumiz su “La Repubblica”: “L’evento che farà la storia del secolo si consumerà in poco più di un’ora.Alle 11.30 il medico accerta la morte della coppia reale. I collegamenti telefonici con l’estero sono tagliati. Le campane di Sarajevo suonano a morto, la voce si diffonde, si espongono le bandiere abbrunate. L’esercito entra nei quartieri serbo-ortodossi, compie centinaia di arresti, cattolici e musulmani improvvisano vendette, un demone si impossessa della città, finché nel tardo pomeriggio scatta lo stato d’assedio e le strade si svuotano. Alla prime stelle Sarajevo è già una città fantasma. Il mondo scivola verso la catastrofe”.Nemmeno la scelta del 28 giugno fu casuale. Per gli ortodossi è il giorno del Vidovdan, quando si celebra San Vito. Per i serbi è festa nazionale. Ciò che accadde dopo è tristemente noto. L’attentato fece esplodere le tensioni e , in breve, l’intera storia europea subì una frattura. L’assassinio dei reali fornì il pretesto all’Austria per regolare i conti con la Serbia, eliminando alla radice la minaccia separatista che stava alla base delle rivendicazioni dei nazionalisti. Quando nelle cancellerie degli altri Stati europei si conobbe il testo dell’ultimatum in molti scuoterono la testa, immaginando le conseguenze nefaste di una guerra che stava “per cominciare”. A nessuno sfuggì un particolare agghiacciante: non si trattava di un conflitto locale, circoscritto. Il gioco delle alleanze ( da una parte quella franco-russa e dall’altra quella austro-tedesca) disegnò uno scenario che apparve subito agli occhi delle élites europee come l’annuncio di una catastrofe. Un mese dopo l’attentato tutto era compromesso:la Russia ordinava la mobilitazione del proprio esercito, la Germania dichiarava guerra alla Russia e alla Francia, convinta di potere avere rapidamente la meglio su entrambi i fronti. In breve, il vecchio continente, e di seguito il mondo intero, si trovarono invischiati nel fango delle trincee prima di contabilizzare lo spaventoso bilancio di un conflitto che vide impegnate ventotto nazioni divise in due grandi schieramenti. Da una parte la Triplice intesa e i suoi alleati, con Gran Bretagna, Francia, Russia, Italia e Stati Uniti, e dall’altra gli Imperi Centrali con Germania, Austria-Ungheria, Turchia e Bulgaria. Con un bilancio di milioni di morti, un disastro economico, sociale e culturale si spalancarono le porte all’avvento dei regimi totalitari che hanno insanguinato il Novecento. La responsabilità di quest’enormità , com’è ovvio, non può essere

 

gettata   sulle spalle di Princip e degli irredentisti slavi. Resta il fatto che, per i   serbi, l’attentato ordito dall’associazione Mlada Bosna (la Giovane Bosnia),il gruppo ultranazionalista e indipendentista che mirava all’unificazione di tutti gli “jugoslavi”, venne celebrato – dopo la seconda guerra mondiale – intitolando il ponte al giovane Gavrilo, la cui immagine venne sfruttata e rappresentata come quella di un eroe nazionale. Nel punto esatto in cui Princip esplose i due colpi mortali, venne posata una lapide di marmo con un epitaffio che, più o meno, si poteva tradurre così: “Da questo posto il 28 giugno 1914 Gavrilo Princip sparò per esprimere la propria protesta contro una tirannia secolare ed il perenne desiderio dei nostri popoli verso la libertà”. Poi, sparita la lapide e ridimensionato il significato nazionalista del gesto in un contesto storico più sobrio ed equilibrato, è stato inaugurato il museo che racconta la storia dell’attentato e dell’attentatore. Ma cosa accadde, a Gavrilo Princip, dopo quel giorno? Che fine fece? Una volta arrestato tentò per due volte il suicidio, con il cianuro e con la sua pistola. Nessuno dei due tentativi andò a buon fine. Non ancora ventenne, venne giudicato troppo giovane per poter subire la condanna a morte e pertanto la sua pena venne commutata in vent’anni di prigione. Rinchiuso nella Piccola fortezza di Terezìn (in tedesco Theresienstadt), sessanta chilometri a nord di Praga, Princip vi morì di tubercolosi, a 23 anni, il 28 aprile 1918. Tracciati sull’intonaco del muro della cella i suoi ultimi versi, apparvero come un sinistro presagio, una sorta di maledizione per l’Impero: “Emigreranno a Vienna i nostri spettri. E là si aggireranno nel Palazzo a incutere sgomento nei sovrani”. Sempre a Terezìn, alcuni decenni dopo, furono deportate decine di migliaia di ebrei dai nazisti. Fra i prigionieri ci furono all’incirca quindicimila bambini, compresi i neonati. La maggior parte di essi morì nel ‘44 nelle camere a gas di Auschwitz.Tornando a Sarajevo da allora, come si dice, ne è passata d’acqua sotto i ponti. Anche sotto le quattro arcate di pietra e gesso di quello che è tornato a chiamarsi con l’antico nome di ponte Latino. Comunque, piaccia o no, questo resta uno dei crocevia dove la storia ha subito uno scarto, un balzo netto e doloroso. Assume un significato del tutto particolare in una città come questa che è stata, durante l’assedio nella prima metà degli anni ’90,un crocevia di drammi e di speranze per quattro inverni. Un luogo dov’era una scommessa viverci a lume di candela, correndo agli incroci sotto il fuoco dei cecchini per andare a prendere l’acqua, rischiando la vita e trovando la morte mentre si era in fila per un pezzo di pane. Sotto il tiro continuo dei cecchini e il fischio delle granate. I caschi blu francesi hanno persino tenuto il conto dei cessate-il-fuoco in quegli anni. Il record venne stabilito il 13 giugno 1993: “Tredici secondi e 65 centesimi”. Una contabilità allucinante. Di quelle scritte che celebravano il gesto di Gavrilo Princip resta a malapena una indecifrabile impronta sul muro. La storia non si può cancellare ma la cattiva memoria sì, perché se il giovane attentatore di Franz Ferdinand era e in parte rimane un eroe per i serbi e per i nazionalisti serbo bosniaci, la nuova Bosnia che ha provato sulla sua pelle l’onda nera e il delirio dei nazionalismi preferirebbe dimenticarlo.

Marco Travaglini

Bardonecchia. Al Sommeiller, a 3009 metri di altitudine, il Centro della Cultura di Alta Quota

Partiranno nelle prossime settimane i lavori per la realizzazione del Centro della cultura di alta quota. Bivacco colle del Sommeiller a 3009 metri di altitudine.

L’intervento è stato presentato, nel corso di un incontro al Palazzo delle Feste di Bardonecchia, dal sindaco Chiara Rossetti e da Devis Guiguet del pool di progettisti locali, che curerà l’opera. ” Un progetto- ha detto il sindaco Chiara Rossetti- che abbiamo a cuore. Il Sommeiller è all’apice di una Valle a cui teniamo tanto e su cui stiamo investendo molto”. ” Si va nella direzione di vedere compiuto un sogno” ha aggiunto Francesco Avato, sindaco quando l’intervento, finanziato con fondi europei Alcotra, fu avviato. Ed eccolo il progetto,  spiegato da Denis Guiguet, : ” sarà un piccolo edificio prefabbricato di 100 metri quadrati,  realizzato con legno locale da aziende locali. Una struttura non gestita,  con più funzioni tra cui quella di Centro di documentazione della storia e del futuro della montagna”. La struttura,  che dovrebbe essere ultimata prima dell’inizio della stagione autunnale,  reinterpreta quella del precedente rifugio Ambin nella forma e con la stessa tonalità di colore rosso. È progettata per offrire 14 posti per dormire e sarà accessibile a tutti, anche alle persone con difficoltà motorie. ” La montagna è e deve essere di tutti – ha concluso Devis Guiguet- Il 2022 si può certamente definire l’anno della ripartenza del Sommeiller”.

La verità e la scienza, il presente e il passato sul palcoscenico dell’Astra

Presentata la stagione 2022/2023 del TPE Teatro Piemonte Europa


Un progetto artistico triennale, a firma di Andrea De Rosa, nuovo direttore del TPE Teatro Piemonte Europa, nominato nel dicembre scorso – classe 1967, ha calcato i palcoscenici della prosa, con Euripide e von Hofmannsthal, con Shakespeare e con Koltès, e dell’opera lirica, con Mozart e con Azio Corghi, con Donizetti e con Maderna, con “Fedra” ha vinto nel 2015 il Premio dell’Associazione Nazionale Critici di Teatro per il miglior spettacolo dell’anno, nel 2021 il Premio Hystrio alla regia -, progetto intimamente legato al proprio contenitore, a quel Teatro Astra che è casa e intima residenza sino al 2039, grazie alla convenzione rinnovata nel 2019 con la Città di Torino. Un progetto che pone le proprie radici e intercetta un insperato spazio in un presente che attraverso la pandemia e la guerra e la crisi non soltanto economica è piombato in coni d’ombra e in ampi angoli di minaccia. Con quel contorno di immagini e di parole e di resoconti che alimentano in noi, negli altri, nello spettatore un “evidente sensazione di confusione e stordimento” che prende sempre più piede. Si avverte la mancanza di un luogo di verità, una verità spinta verso i settori più personali o lontani, e il teatro può essere ancora (o illudiamoci con tutte le nostre forze che lo possa essere) quel rifugio, prevalentemente di fine giornata, dove sia possibile interrogarsi all’interno di una esperienza collettiva di conoscenza e di confronto.

Un progetto che si confronterà dunque con la mancanza di certezze e con la ricerca della verità, un confronto che, per la stagione che si estenderà sino al maggio 2023, si intitolerà “Buchi neri” e guarderà alla verità scientifica, uno dei punti e delle visioni più importanti di questi ultimi mesi che hanno accompagnato la vita privata e pubblica di noi tutti. Materia per molti tratti imperscrutabile, dai contorni oscuri, labili, confusi, quasi reclamizzata con buoni tratti di personalismo, una materia capace di confondersi a volte con quella stessa che è all’origine di ogni fatto teatrale: ecco perché De Rosa “ha chiesto ai registi e ai drammaturghi di confrontarsi con questa chiara e specifica direzione artistica, chiedendo loro di farsi parte attiva, di contribuire con le loro creazioni a un programma che, almeno nelle sue principali produzioni, cercherà di dare un contributo di riflessione e di approfondimento, oltre che artistico, su questo tema”.

Primo spettacolo della stagione, dal 12 al 20 novembre, “Processo a Galileo”, con Luca Lazzareschi e Milvia Marigliano, uno sguardo nuovo al di là del dramma brechtiano sul grande scienziato, dovuto alla regia a quattro mani di Carmelo Rifici e Andrea De Rosa, cui seguirà “Costellazioni” scritto da Nick Payne, per la regia di Raphael Tobia Vogel e l’interpretazione di Elena Lietti, in cui uno dei risvolti più bizzarri della fisica quantistica, secondo il quale potrebbero esistere infiniti universi, viene applicato ad un rapporto di coppia. Ancora “”Frankenstein”, tratto dal romanzo di Mary Shelley, riletto da Filippo Andreatta intorno al tema, intravisto e anticipato, della manipolazione del corpo e delle leggi della natura; “Principia”, con cui Alessio Maria Romano opererà su un linguaggio scientifico composto attraverso danza e suono, spazio e luce, al di là dei confini della logica, tuttavia con chiari riferimenti alla nostra realtà di ogni giorno. Chiudono le produzioni del TPE “Nottuari”, tra misteri e marionette inquietanti che trovano le proprie radici nei racconti horror e filosofici di Thomas Ligotti, e “La tecnologia del silenzio”, un testo affascinante sulla carta in cui Giorgina Pi pone la domanda se “le democrazie non abbiano strumentalizzato la scienza come pratica di sottomissione”. Titoli tutti che a molti potrebbero risuonare poco “teatrabili” e che avranno necessità, confortante e decisamente curiosa, di una serie di incontri con scrittori, divulgatori, scienziati e filosofi che si occupano di questi argomenti: decisamente un terreno nuovo su di un palcoscenico, ma altresì un terreno di fattiva discussione.

Nel corso della stagione verranno ripresi titoli che già hanno avuto un grande successo, “L’angelo di Kobane” di Henry Taylor con Anna Della Rosa, “Festen”, tratto dall’omonimo film di Thomas Vinterberg, Gran Premio della Giuria a Cannes, regia di Marco Lorenzi con Danilo Nigrelli e Irene Ivaldi, “Ciara. La donna gigante” di David Harrower, regia di Elena Serra e interpretazione di Roberta Caronia, “Brevi interviste con uomini schifosi” di David Wallace, interpretato da Lino Misella e Paolo Mazzarelli e regia di Daniel Veronese, argentino, classe 1955, capace di ricostruire sul palcoscenico mostri maschili con il loro falso rapporto con le donne, la violenza, il desiderio di possesso, le gelosie che sfociano nel delitto.

Tra le ospitalità, tra gli altri, Filippo Nigro in “Le cose per cui vale la pena vivere”, un testo di Duncan Macmillan e Jonny Donahoe, “La Gilda” di Giovanni Testori con Laura Marinoni nelle serate 20 e 21 dicembre, Umberto Orsini nelle “Memorie di Ivan Karamazov” da Dostoevskij (17 – 22 gennaio 2023), Fanny& Alexander che propongono “Storia di un’amicizia” da “L’amica geniale” di Elena Ferrante, Maddalena Crippa attrice e Peter Stein regista del “Compleanno” di Pinter e “Favola” con la Piccola Compagnia della Magnolia. Appuntamento per gli appassionati di cinema, e non soltanto, da non perdere, una serata in compagnia di Paolo Sorrentino (la data è in via di definizione), un’occasione in cui verranno proiettati i monologhi presenti nei suoi film, esplorando lo speciale rapporto tra il suo cinema e il teatro.

Elio Rabbione

Nelle immagini, il direttore Andrea De Rosa; Luca Lazzareschi e Milvia Marigliano in “Processo a Galileo”; scene tratte da “Costellazioni”, “Festen” e “Interviste con uomini schifosi”

L’isola del libro

Rubrica settimanale a cura di Laura Goria

Gabriele Tergit “Gli Effinger” -Einaudi- euro 24,00

E’ monumentale, ma scorrevole e appassionante, questo romanzo della scrittrice e giornalista Gabriele Tergit (1894-1982), pseudonimo di Elise Hirschmann. Divenne famosa per i suoi reportage di cronaca giudiziaria, ma quando i nazisti salirono al potere nel 1933 e le SA fecero irruzione in casa sua, dovette interrompere la sua attività. Scappò con la figlia piccola ed il marito architetto dapprima in Cecoslovacchia, poi in Palestina e infine a Londra dove concluse la sua vita. Quando il testo fu pubblicato, nel 1951 in Germania, non riscosse successo, mentre oggi è considerato il suo capolavoro.

Gli Effinger” è una saga berlinese che copre l’arco di quattro generazioni e narra le vicende –tra successi e cadute- di due famiglie di ebrei tedeschi.

Gli Effinger radicati in provincia; i Goldschmidt esponenti della Berlino più raffinata, dinamica e industrializzata.

I primi puntano al riscatto sociale; capostipite è l’orologiaio Mathias, i suoi figli Paul e Karl si traferiscono dal paesino di Kraghsheim nella cosmopolita Berlino dove, ambiziosi, tenaci e abili, faranno fortuna.

Invece i Goldschmidt poggiano il loro potere sulla gestione oculata del denaro e il controllo del patrimonio.

Le due famiglie si incrociano grazie al matrimonio dei rispettivi rampolli Karl e Annette. Il romanzo racconta le vite di queste dinastie nell’arco di 70 anni, dal 1878 al 1948, dai tempi d’oro di Bismark a quelli tragici del nazismo e della persecuzione antisemita. E il romanzo è abitato da una carrellata di personaggi favolosi, alle prese con passioni, ambizioni e contrasti tra le generazioni dei padri -e dei loro valori- messi in discussione dai figli.

Dapprima la narrazione si concentra sul giovane Paul Effinger che nel 1884 apre nella periferia berlinese una piccola fabbrica di viti. In pochi anni amplia il raggio di azione avviando con successo una fabbrica di motori e poi, con l’aiuto del fratello Karl costruirà automobili, pensando a «la macchina del popolo».

Il successo economico spalanca le porte anche a quello sociale ed il romanzo regala puntuali descrizioni di interni di raffinate dimore, riti dell’alta società, l’edonismo e le feste, il clima dell’affascinante metropoli weimariana tra guizzi culturali e progresso.

Poi la storia cambia con il sopraggiungere repentino di periodi bui e pericolosi. Il nazismo spazzerà via i tempi sereni, ed ecco i tracolli economici, la confisca della ditta dei Goldschimdt, la deportazione e la tragica fine di Paul e di altri familiari. Tutto magistralmente raccontato in un crescendo di tensione che fa di questo romanzo un grande affresco privato, ma anche potentemente storico.

 

Anne Pauly “Prima che mi sfugga” -L’Orma Editore- euro 16,00

Come si affronta la morte di un padre con il quale si è avuto un rapporto parecchio conflittuale? Sicuramente aiuta la sottile e intelligente ironia con cui Anne Pauly ci racconta come ha vissuto quella del suo genitore. L’autrice, nata nel 1974 nella banlieu di Parigi, con questo libro ha vinto svariati premi ed è stata selezionata tra gli esordienti che concorrono al Goncourt.

La morte del padre è l’occasione per raccontare -con disincanto e una schiettezza feroce- il passato travagliato di una famiglia difficile. La narratrice-protagonista ha la capacità sopraffina di guardare attraverso la lente dell’ironia e così noi lettori ci sorprendiamo a sorridere mentre leggiamo pagine che dal dolore puro sconfinano nell’esilarante. Un clamoroso esempio è la descrizione di lei e il fratello alle prese con costi e servizi delle pompe funebri e il funerale da organizzare.

Dunque, se pensate che sia un libro triste perché al centro c’è la morte -oltre al disagio profondo di una famiglia altamente disfunzionale- non è così.

La protagonista e il fratello corrono al capezzale del padre morente, Jean Pierre, al quale sono legati anche da ricordi sgradevoli. Era stato un ubriacone che per nonnulla menava la madre, inseguendola con un coltello e accusandola di fare la scema con il prete. Invece la donna (morta anni prima) era stata una povera e santa vittima che aveva cercato un’oasi di pace nelle attività della parrocchia, pur non essendo particolarmente credente.

Mentre decidono bara, imbottitura e cuscino di fiori con cui accompagnare il genitore al cimitero e alle soglie dell’ultimo viaggio terreno, si affastellano scene indimenticabili del menage familiare devastato dalla violenza paterna.

Emerge la figura di un uomo cresciuto nella miseria di una famiglia di origine poverissima; disprezzato socialmente per la pericolosa abitudine ad alzare il gomito, capace di scatenare una furia devastante, un padre padrone che è stato un fardello più che un modello da emulare.

Mettendo mano nelle cose che gli appartenevano –libri e scartoffie varie, gamba di plastica ed altro- come sempre accade a chi sopravvive a un morto, Anne ricompone la storia di un fallimento esistenziale e le sue derive.

Tutto ammantato di una veste tragicomica che rende il romanzo una lettura profonda, anche dolorosa, ma intelligente, acuta e piacevolissima. Una storia intima ma anche universale.

 

Valeria Parrella “La fortuna” -Feltrinelli- euro 16,00

Perché Pompei ci affascina così tanto ancora oggi, 2000 anni dopo la colata di lava incandescente che ha cristallizzato la vita quotidiana di allora in statue di morte?

E’ quello che si è chiesta la scrittrice napoletana, figlia della direttrice di un laboratorio di botanica applicato all’archeologia che aveva lavorato negli scavi. Così, Valeria Parrella fin da piccola è diventata una profonda conoscitrice di quel luogo, dove si aggirava in attesa che la madre finisse di lavorare.

Durante la pandemia ha avuto l’idea di questo libro, “La fortuna”, che in latino si traduce con “sorte” e può essere sia buona che pessima. E’ la storia di Lucio, un ragazzino di Pompei che lì è cresciuto quando era un luogo ameno, verdeggiante e brulicante di vita, ignaro della tragedia che si sarebbe abbattuta su strade, case, intere famiglie.

Lucio, è nato a Pompei durante un terremoto che ha squassato la terra e provocato crolli anche ad Ercolano e Stabia. Appartenente alla nobiltà romana dell’epoca, cresce in una famiglia ricca e serena, poi viene mandato a scuola a Roma, da Quintiliano, e sogna di poter condurre una nave tutta sua.

E’ proprio Lucio a fare la cronaca della sua vita fìno all’eruzione del Vesuvio nel 79. Narra il sogno di navigare e scegliere il proprio destino, mentre invece per nascita è destinato a diventare senatore. Poi c’è la sua crescita sentimentale, in cui scopre la sua sessualità fluida. E’ attratto dall’amica d’infanzia Lavinia e da altre fanciulle; ma anche dallo schiavo Aulo conosciuto a Roma e con il quale avrà una lunga relazione.

Poi c’è il mare, che Lucio 17enne solca seguendo l’ammiraglia di Plinio il Vecchio proprio il giorno dell’eruzione; inaspettata, poiché non si sapeva che il monte in realtà fosse un vulcano, sul punto di eruttare il ventre della terra incandescente.

Lucio si trova di fronte una gigantesca nuvola, il mare riempito di pietre, le mappe stravolte e i marinai impazziti dalla paura scatenata da quel gigantesco fenomeno sconosciuto che inabissa le nave e semina la morte a Pompei.

Il giovane protagonista pensa ai suoi affetti che ancora vivono a Pompei e al fatto che ci siano solo due modi di vivere. Avere sempre paura, rischiare il meno possibile e rintanarsi al sicuro; oppure guardare verso la paura e attraversarla, ricordandoci che non siamo dei, ma solo uomini…e morire è il nostro destino. Lucio è convinto che «..ogni paura sia un piccolo gioco con la morte». E nelle pagine della Parrella ci sono la vita e i pensieri più profondi del personaggio al cospetto della tragedia.

 

De Bellis &Fiorillo “Il diritto dei lupi” -Einaudi- euro 22,00

In questo romanzo scritto da un informatico e un biologo, troviamo una commistione di generi che oscillano tra noir, legal thriller e giallo classico, sullo sfondo dell’Urbe dell’80 a.C. dove procedono due tipi di indagini che avvolgono nel mistero la città eterna.

Lo sfondo è storico, ambientato negli anni in cui Roma era una metropoli violenta, dove vizi e denaro si amalgamavano e sangue e potere viaggiavano di pari passo.

Nella Suburra irrompono 4 sicari assassini e compiono una strage nel lupanare in cui si stava facendo un festino. Tra i cadaveri lasciati nel bordello di lusso nel cuore malfamato dell’Urbe, c’è anche quello di un aspirante senatore. Chi ha ordinato questa carneficina? I sospetti cadono sul proprietario del locale, unico superstite che però non si trova.

Negli stessi giorni la potente matrona Cecilia Metella chiede al giovane Cicerone di prendere sotto la sua ala il suo protetto Sesto Rocio, accusato di parricidio per ereditare le immense ricchezze del genitore.

Le due vicende si riveleranno collegate; man mano che si procede nella lettura entriamo in un periodo storico denso di guerre di potere, risse e agguati, ma anche questioni sentimentali in cui le donne giocheranno un ruolo di primo piano. E Cicerone si accorgerà che in pericolo c’è il futuro della Repubblica e non solo …..

Arjan Shehaj in mostra alla galleria Raffaella De Chirico

 Le opere dell’artista albanese 

 

La galleria d’arte Raffaella De Chirico Contemporary Art, accanto alla mostra dedicata all’artista Bruno Marrapodi, apertasi il 9 giugno scorso a Milano in via Farini, propone a Torino un’esposizione di Arjan Shehaj dal titolo “Patos”, nella sua sede di via Barbaroux 16, dove inaugurerà il 23 giugno prossimo.
Di origine peripatetica, la parola greca “pathos” indica quel senso di passione e di concitazione tipico della tragedia. Tuttavia l’evoluzione moderna e contemporanea del termine ha rivolto l’accento soprattutto sulla capacità da parte di un’opera d’arte di suscitare emozione e compartecipazione estetica nello spettatore.
Si tratta di un risultato frutto di una commistione irripetibile di sentimenti, legati al senso primigenio della parola “pathos”, quello che fa riferimento alla sofferenza. Questo effetto vorticoso e al tempo stesso cangiante permane in un luogo liminale che si interpone tra opera e spettatore, in un groviglio indefinito e diafano che coinvolge tutti gli elementi in un gioco. L’artista in questione, Patos, proviene da una città natale, un comune albanese situato nella prefettura di Fier, ricettacolo di influssi tragici apportati dalla parola sovrastante, di cui è diventata matrice indiscussa.
L’investigazione artistica di Arjan Shehaj è costituita dalla ricerca della struttura dell’essere, dell’essenza quasi evanescente e spoglia di ogni cosa. Per ‘essere’ egli intende la linea bidirezionale che intercorre tra realtà e percezione umana. Il tratto è impercettibile e smisurato, al di fuori di qualunque caratterizzazione spaziale. Sembra che Shehaj si prenda beffa dello spazio e del tempo, in quanto le sue opere appaiono scivolare su queste coordinate, che sono capaci di attraversare con estremo agio e in maniera cadenzata. Si tratta di nodi sfuggenti ad una collocazione spazio temporale, in grado, però, di rendere possibile quel pathos liminale e complesso, frutto di sangue estratto dalla reale essenza della realtà e dalla leggerezza dell’esistere.
Le opere dell’artista sono create da una ragione intuitiva, emancipata dalla forza di gravità terrestre, con una vocazione allegoricamente olografica e antropometrica, incentrate su forme pure, irriflesse e libere a base geometrica, che si presentano quali basi reticolari encefaliche e labirintiche, in grado di sprigionare una conturbante energia, la cui potenza, propria della materia informe, permette agli elementi medesimi di assumere una realtà formale con grande forza e vigore.
Arjan Shehaj, nato nel 1989 nel Comune di Patos, il cui nome deriva da quello dell’antico villaggio vicino a cui è sorto, situato nell’Albania Sud Occidentale, è attivo a Milano, dove ha conseguito la laurea Triennale in pittura con Laude presso l’Accademia di Belle Arti di Brera e nel 2015 la laurea magistrale presso la medesima Accademia, con lode.

Mara Martellotta

“Bellezza tra le righe” Quando la letteratura incontra la bellezza nelle dimore storiche

Da domenica 26 giugno a domenica 23 ottobre

E’ dedicata alla “libertà” – “Libertà: di luoghi, di azioni e di pensieri”– l’edizione 2022 di “Bellezza tra le righe”, la rassegna organizzata da “Fondazione Casa Lajolo” e “Fondazione Cosso” con il contributo della Regione Piemonte. Rassegna che  torna, per il terzo anno, in due luoghi davvero speciali: il giardino di “Casa Lajolo”, a Piossasco (via San Vito, 23), e quello del “Castello di Miradolo”, a San Secondo di Pinerolo (via Cardonata, 2). Un’occasione diversa per vivere due dimore storiche del Piemonte. Tra antichi vialetti e alberi secolari, “la volontà – dicono gli organizzatori – è quella di condurre il pubblico in luoghi di pace e rara bellezza, proponendo delle conversazioni con scrittori, giornalisti, architetti, registi, docenti universitari, filosofi e manager culturali”. Voci del tempo presente, coniugate e intrecciate e confrontate fra loro per dialogare su temi di stringente attualità: gli incontri sono in programma tra domenica 26 giugno e domenica 23 ottobre“La libertà, al centro di quest’edizione – proseguono gli organizzatori – è intesa nel senso più ampio e l’obiettivo è guardarla e indagarla volgendosi verso la concretezza della terra e delle montagne del territorio circostante, ma anche verso il pensiero e le modalità di comunicarlo”. Così, domenica 26 giugno, data di inizio, sono previsti due appuntamenti quasi in contemporanea nelle due dimore storiche: a Piossasco arriva Luca Crippa (ore 18) con il suo ultimissimo romanzo “La bambina di Kiev”, che, scritto a quattro mani con Maurizio Onnis, intreccia sapientemente, alla dimensione narrativa, importanti testimonianze e resoconti d’attualità di profughi e vittime della guerra in Ucraina; a Miradolo (ore 21,15), in un appuntamento in collaborazione con “Piemonte Movie”, inserito all’interno della rassegna “CineVillaggio” del “Cinema delle Valli” di Villar Perosa, è in programma una serata omaggio a Gianni Celati, scrittore, professore, traduttore, critico e documentarista scomparso nel gennaio scorso, che, con grande libertà, ha sempre raccontato il territorio in cui viviamo. Protagonisti il regista Davide Ferrario e Franco Prono, docente di “Storia del Cinema Italiano” presso il DAMS dell’Ateneo torinese..

A luglio poi la libertà diventa quella rigenerante che nasce prendendosi cura del verde: ne parla l’architetta paesaggista Monica Botta nel suo ultimo libro “Caro giardino, prenditi cura di me” (è ospite il 31 luglioore 18 a Piossasco) mentre, ad agosto, sempre a Piossasco (ore 18), tocca allo scrittore torinese Enrico Camanni dipingere quella libertà che diventa presenza vitale per chi ama la montagna e come racconta il suo ultimo libro “La discesa infinita. Un mistero per Nanni Settembrini”, edito da “Mondadori”.

Due gli incontri settembrini.  Domenica 18 settembre a Miradolo (ore 15) arriva un’altra scrittrice torinese, la blogger Enrica Tesio, con il suo ultimo “Tutta la stanchezza del mondo”, un diario privato di fatiche collettive con una domanda di fondo: ma nella vita quotidiana la libertà di essere stanchi esiste ancora? Domenica 25 settembre a “Casa Lajolo” (ore 17Paolo Verri presenta, invece, il suo libro “Il paradosso urbano”, sulle metamorfosi emblematiche di “Nove città in cerca di futuro”.

L’agenda di ottobre, infine prevede un incontro a Miradolo (1 ottobreore 15) con Matteo Saudino, autore di “Ribellarsi con filosofia. Scopri con i grandi filosofi il coraggio di pensare”, e con Daniele Zovi, sempre a Miradolo (23 ottobre, ore 15), e il suo “In bosco. Leggere la natura su un sentiero di montagna”.

Dichiara Alberto De Vecchi Lajolo, presidente della “Fondazione Casa Lajolo”“Abbiamo cercato di guardare con fiducia al futuro con l’edizione del 2020 e rivendicato l’importanza della gentilezza verso le persone e le cose nel 2021. Di fronte a un iniziale allontanamento da un incubo sanitario se ne manifesta subito un altro di carattere umanitario, per questo motivo è venuto naturale scegliere il tema della ‘libertà’ come ‘fil rouge’ dell’edizione 2022 della rassegna per interrogarci sui modi di affrontare le limitazione della libertà stessa, apprezzando le opportunità che la vita ci offre quotidianamente, per continuare a goderne”.

Per ulteriori info su ingressi e programma: “Castello di Miradolo”, San Secondo di Pinerolo (Torino), via Cardonata 2, tel. 0121/502761 o www.fondazionecosso.it – “Casa  Lajolo”, via San Vito 23, Piossasco (Torino); tel. 333/3270586 o www.casalajolo.it

g.m.