CULTURA E SPETTACOLI- Pagina 28

Avviate le celebrazioni dell’ottantesimo della Repubblica partigiana dell’Ossola

Dal dieci settembre sono stati esposti sul balcone del municipio di Domodossola i drappi con i colori delle formazioni partigiane della val d’Ossola: verde per le divisioni Valdossola, Beltrami e Piave, rosso per la divisione Garibaldi e Redi e blu per la Valtoce. Sono stati srotolati nel corso di una cerimonia dal sindaco Lucio Pizzi che aveva al suo fianco i familiari dello storico Pierantonio Ragozza, recentemente scomparso. Un gesto simbolico di grande impatto che ha segnato l’avvio delle ricorrenze per gli ottant’anni della Repubblica partigiana dell’Ossola, la più nota e importante dei territori liberi durante la lotta di Liberazione in Italia. Il primo cittadino di Domodossola ha pronunciato parole molto chiare: “Vogliamo ricordare l’esperienza di autogoverno dei 40 giorni di libertà che valse una medaglia d’oro al valore militare, ribadendo che quei valori fondanti sono vivi più che mai. Per questo voglio riaffermare chiaramente lo spirito che ci ha guidati: noi siamo antifascisti, Domodossola e il territorio sono antifascisti, ci riconosciamo nel valore della Resistenza e non siamo disponibili ad accettare alcun tentativo di revisionismo”. Le iniziative sono proseguite mercoledì 11 alla Casa della Resistenza di Fondotoce con il convegno “Storia di un comandante che andò oltre i propri doveri, Attilio Moneta, colonnello tra i partigiani”. Tra i vari appuntamenti vi saranno giornate di studio, convegni, proiezioni video, libri, docufilm e concerti accanto all’inaugurazione del riallestimento della sala storica di Domodossola con l’intitolazione a Mario Bonfantini e alla consegna, il 4 ottobre alla scuola media Floreanini, del premio Repubblica partigiana dell’Ossola alla scrittrice Benedetta Tobagi. Il 6 ottobre è prevista la cerimonia ufficiale con relatore la storica Antonella Braga. Il 17 ottobre alle 20.45, alla Casa della Resistenza di Fondotoce si terrà la presentazione del documentario “La grande estate partigiana. Estate 1944: dalla formazione delle prime bande alle repubbliche partigiane, la storia di un’Italia che sceglie di resistere”. Il film è prodotto da Lutea e dall’associazione DomoMetraggi; saranno presenti il regista Marzio Bartolucci e l’autrice Arianna Giannini. Il 18 e 19 ottobre, sempre alla Casa della Resistenza, si svolge il convegno “Progetto e utopia. Repubbliche partigiane e zone libere nella resistenza italiana”. Venerdì 25 ottobre alle 17.30 la biblioteca Contini di Domodossola verrà presentata una nuova edizione de “Il paese del pane bianco” di Paolo Bologna con testimonianze sull’ospitalità svizzera ai bambini della repubblica dell’Ossola, a cura di Paolo Crosa Lenz. Nella stessa serata la presentazione del libro “Quarante jours de liberté. Histoire de la république d’Ossola” di Jean-Noël Wetterwald e del cortometraggio “I bambini del pane bianco” di Davide Casarotti. Sempre il 25 alle 21 in Collegiata si terrà un concerto con il civico corpo musicale di Domodossola.

La repubblica partigiana dell’Ossola

Nel periodo più buio della storia italiana, durante l’occupazione nazifascista dell’Italia del nord, la Repubblica partigiana dell’Ossola rappresentò il primo tentativo organizzato di rinascita democratica del paese. Per più di quaranta giorni, dal 10 settembre al 23 ottobre del 1944, oltre ottantamila cittadini furono i protagonisti del governo di quel vasto territorio all’estremo nord del Piemonte, al confine con la Svizzera, dandosi un ordinamento repubblicano e una legislazione che sarà in parte riproposta e rivalutata nella Costituzione italiana entrata in vigore il primo gennaio del 1948. La vicinanza con la Confederazione Elvetica consentì di seguire con interesse e attenzione le vicende di questo territorio libero anche da parte della stampa internazionale. Una storia, quella dei “quaranta giorni di libertà”, breve ma ricca di esperienze politico-sociali che trovarono poi un seguito ideale nei primi passi e nelle scelte della nuova Italia repubblicana. Nel territorio liberato dalle formazioni partigiane si trovavano 35 comuni con 85.000 abitanti. Nel giorno stesso dell’occupazione di Domodossola, il 10 settembre 1944, Dionigi Superti, comandante della divisione Val d’Ossola, insediò la giunta di governo. In breve tempo il nuovo governo diede prova dell’ampiezza dei settori sui quali intendeva intervenire. Non si limitò alla normale amministrazione, ma si mosse lungo linee profondamente innovatrici, riflettendo “una visione non municipale dei problemi”. Anche nella riorganizzazione del sistema giudiziario ogni provvedimento venne inserito in un progetto di ampio respiro che non solo rimosse la legislazione fascista ma affermò con chiarezza i principi democratici su cui intendeva fondarsi. In campo scolastico e pedagogico, grazie alla collaborazione di intellettuali antifascisti come Gianfranco Contini e Carlo Calcaterra, vennero sviluppati programmi molto avanzati, fondati su un ciclo iniziale di formazione comune a tutti e sulla successiva distinzione tra studi liceali e studi tecnico-professionali. In pratica vennero gettate le basi per molte riforme e anche la vita democratica fu molto intensa e partecipata. Molti progetti restarono sulla carta, data la brevità dell’esperienza maturata nella zona liberata. Sul finire dell’ottobre del 1944 la controffensiva di tedeschi e fascisti provocò la caduta della piccola repubblica dopo giorni di duri combattimenti. Alle 17.40 del 14 ottobre i fascisti entrarono in Domodossola e si trovarono di fronte una città semideserta, abbandonata da più della metà della popolazione. Molti per evitare rappresaglie fuggirono in Svizzera, varcando il confine. Proprio in quei giorni fu organizzata dal governo Provvisorio, e in modo particolare da Gisella Floreanini (nome di battaglia, Amelia Valli), commissario all’assistenza e ai rapporti con le organizzazioni di massa, un’importante operazione di salvataggio di 2500 bambini che, con alcuni treni, vennero inviati in Svizzera dove vennero accolti da centinaia di famiglie elvetiche che li nutrirono e accudirono come i propri figli. Le formazioni partigiane, invece, si divisero in tre spezzoni in val Divedro, in Val Formazza e in Valsesia. Molti ripararono oltre confine, altri continuarono la lotta armata. Quattro giorni dopo, lunedì 23 ottobre 1944, i “quaranta giorni di libertà” finivano anche se sarebbe per sempre restato, indelebile, il segno lasciato dalla “repubblica” dell’Ossola, certamente la più nota e prestigiosa delle 18 zone libere partigiane che ebbero vita tra estate e autunno 1944 in piena occupazione tedesca rappresentando, come disse il filologo e critico letterario Gianfranco Contini, nato a Domodossola, “un fatto civile di rara e non abbastanza sottolineata rilevanza”.

 Marco Travaglini

“(Iper)cose. Oltre i confini del reale”

 

Torna a Cuneo la “Summer School” del “Cespec” con, ospiti d’eccezione, Piergiorgio Odifreddi e lo scrittore Andrea Piva

Dal 17 al 21 settembre

Cuneo

Obiettivo di peso. Non c’è che dire. Cinque intensi giorni di seminari ed incontri pubblici dedicati all’esplorazione dell’“iper”, di ciò che oltrepassa e va ben oltre la semplice realtà. Dagli oggetti virtuali alle emozioni che travolgono il quotidiano ai sogni. E’ ciò su cui s’impegna a fare meditazione e discussione la XVII edizione della “Summer School 2024”del “Cespec”, il “Centro Studi sul Pensiero Contemporaneo”, associazione culturale (con sede a Cuneo, in Lungostura John Fitzgerald Kennedy, 5/F) che “raccoglie, intorno ad un progetto culturale comune, giovani, studiosi, laureati, dottorandi, ricercatori, studenti universitari di discipline umanistiche, insegnanti di ogni ordine e grado e cittadini per promuovere una riflessione di taglio interdisciplinare nei settori dell’etica applicata e pubblica”. L’edizione 2024 della “Summer School” – dal titolo che già la dice lunga “(Iper)cose. Oltre i confini del reale” – è la prima del “nuovo ciclo triennale” che intende indagare le nuove forme dell’esistere, esplorando una delle domande da un milione di dollari della filosofia d’ogni tempo e luogo: “cosa esiste, e come?”. Domandona! Su cui la “Summer” non mancherà di guidarci passo passo, attraverso i suoi molteplici incontri.

A cominciare dai due appuntamenti clou di quest’anno: la lezione pubblica inaugurale “Lo zoo del matematico: numeri reali, iperreali e immaginari di martedì 17 settembre, alle 21, presso il “Salone d’Onore” del Comune di Cuneo (via Roma, 28) che avrà per relatorePiergiorgio Odifreddi (Università di Torino), noto per la sua intensa attività culturale nel campo della divulgazione scientifica e nel dibattito sul rapporto tra scienza e fede (moderatore Sergio Carletto, vicepresidente Cespec) e l’incontro serale di giovedì 19 settembre, alle 21, presso il “Rondò dei Talenti” (via Luigi Gallo, 1) con lo scrittore e sceneggiatore salernitano Andrea Piva, che dialogherà con il pubblico a partire dal suo ultimo romanzo “La ragazza eterna”(Bompiani, 2024), selezionato per il “Premio Strega”.

La partecipazione agli incontri è libera e vale come attività di formazione per i docenti. Il programma completo della “Summer 2024” è disponibile sul sito www.cespec.it  e sulla pagina “Facebook”, dove saranno pubblicate le relazioni di tutte le sessioni. Oltre alle due serate pubbliche con Odifreddi e Piva, il programma prevede sei sessioni seminariali, in calendario da martedì 17 a venerdì 20 settembre. In agenda, non mancherà anche il tradizionale workshop con gli studenti, programmato per giovedì 19 settembre, alle 10, presso il “Rondò dei Talenti”, organizzato intorno a due opere recenti del “filosofo del linguaggio” Felice Cimatti (Università di Calabria), invitato a rispondere alle domande dei 25 studenti accreditati ai lavori della “Summer” e provenienti da tutta Italia.

Sabato 21 settembre, alle 10, giornata conclusiva dei lavori: presso il Liceo “Pellico-Peano” (corso Giolitti, 11), sono in programma una serie di lezioni “dialogate” con gli studenti alla presenza di Alessandro De Cesaris(Université de Fribourg/Collège des Bernardins) e Jacopo Bodini (Université de Lyon 3 Jean Moulin).

Commenta Angela Michelis, presidente del “Cespec”: “Lo scorso anno abbiamo concluso un triennio di studi sul ‘corpo’ riflettendo sui cambiamenti che i nostri tempi comportano e in questa edizione amplieremo l’indagine affrontando le modalità del percepire e intendere ciò che chiamiamo ‘cose’. Le cose sono tali perché ci paiono individuabili e reali … eppure, il nostro mondo è molto più complesso della realtà che possiamo conoscere con i sensi, anche in campo fisico. I nostri vissuti e desideri, inoltre, trasformano l’esperienza delle cose in atmosfere e tonalità emotive, vibrazioni che cambiano la nostra percezione interiore ed esteriore dello spazio e del tempo e in tali processi lo sviluppo dei ‘media tecnologici’ non è più certamente un fattore neutrale”. A noi scoprire o, anche solo, parzialmente intuire la nostra giusta dimensione di vita e di rapporto con gli altri e con le ‘cose’ e le emozioni che ci ruotano intorno.

Gianni Milani

Nelle foto:

–       Dall’alto in basso: Piergiorgio Odifreddi e lo scrittore Andrea Piva

–       Angela Michelis, presidente del “Cespec”

 

La vita alla corte di Napoleone alla Palazzina di Caccia di Stupinigi

Domenica 15 settembre

Stupinigi con Saint Cloud, tra le residenze più amate da Napoleone e dalla sua famiglia. In occasione del ritorno alla Palazzina di Caccia della carrozza di Napoleone restaurata, è in programma domenica 15 settembre un viaggio nel periodo napoleonico per “Life, istantanee di vita di corte”, l’evento di Living History che rievoca la vita quotidiana di un momento storico particolare, dando la possibilità ai visitatori di assistere ad uno spaccato di vita ricostruito il più fedelmente possibile.

Il capolavoro di Filippo Juvarra, voluto dai Savoia, è stato il luogo di svago della corte imperiale e, sebbene per un tempo brevissimo, di Paolina Borghese Bonaparte, la bella e irrequieta sorella di Napoleone, venuta a Torino con il marito, il principe Camillo, governatore del Piemonte.

Dopo 200 anni, tornano personaggi e simboli che hanno popolato la Palazzina di Stupinigi, quando era residenza ufficiale di Napoleone con dame vestite di impalpabili sete, preziosi gioielli e prestanti ufficiali a mostrare il gusto e la raffinatezza della corte imperiale.

INFO

Palazzina di Caccia di Stupinigi

Piazza Principe Amedeo 7, Stupinigi – Nichelino (TO)

Domenica 15 settembre 2024

Life, istantanee di vita di corte

L’evento è in programma tutto il giorno. Alle ore 15.45 visita Focus sul tema, in cui interagire con i figuranti

Costo della visita: 5 euro + biglietto di ingresso

Biglietto di ingresso: intero 12 euro; ridotto 8 euro

Gratuito: minori di 6 anni e possessori di Abbonamento Musei Torino Piemonte e Royal Card

Info: 011 6200634 stupinigi@biglietteria.ordinemauriziano.it

www.ordinemauriziano.it

Giorni e orari di apertura Palazzina di Caccia di Stupinigi: da martedì a venerdì 10-17,30 (ultimo ingresso ore 17); sabato, domenica e festivi 10-18,30 (ultimo ingresso ore 18).

La cultura lucana nel mondo: storie di uomini, donne e territorio

Dopo New York, Buenos Aires e Montevideo, la mostra internazionale “Basilicatë, una celebrazione della cultura lucana nel mondo” approda per due settimane a Torino. Dal 16 al 30 settembre 2024 è infatti ospitata negli spazi espositivi del Polo del ‘900 (Palazzo San Celso, corso Valdocco 4/a) e può essere visitata dal martedì alla domenica, dalle ore 10 alle 18.

La mostra Basilicatë è parte di un progetto sulla cultura lucana nel mondo con focus sull’ Argentina, gli Stati Uniti d’America e l’Uruguay. Promosso dalla Federazione dei Circoli e Associazioni dei Lucani in Piemonte, con il sostegno della Regione Basilicata e il coordinamento scientifico del Centro dei Lucani nel Mondo Nino Calice della Regione Basilicata, tra il 2023 e il 2024 ha documentato l’integrazione della cultura lucana nei Paesi che hanno accolto gli emigrati lucani oltreoceano. Alla realizzazione del progetto hanno collaborato le comunità lucane di New York, Buenos Aires e Montevideo, producendo un autoritratto collettivo dei lucani all’estero.

Oltre alle quattro mostre internazionali allestite a New York, Buenos Aires, Montevideo e Torino, nell’ambito dell’iniziativa sono stati organizzati convegni, laboratori in Italia e nel mondo e realizzata una pubblicazione di approfondimento in tre lingue che sarà presentata a Genova, al Museo Nazionale dell’Emigrazione Italiana, il prossimo 9 ottobre insieme al racconto del viaggio di Basilicatë. Il nome del progetto Basilicatë, trasformando il nome della Regione in un plurale con la dieresi Ë del dialetto, esprime le variazioni che si producono nella tradizione culturale ad opera dei migranti (tradizione intesa nella duplice accezione etimologica latina di “trasmissione” e “tradimento”). Tali variazioni continuano a mantenere una riconoscibilità dei modelli d’origine, ma inevitabilmente, in ragione degli scambi con le culture dei luoghi d’approdo, moltiplicano le forme della stessa identità culturale. Non solo una Basilicata, dunque, ma tante quante sono le forme con cui viene celebrata nel mondo.

La cura del progetto è stata affidata dalla Federazione dei Circoli e Associazioni dei Lucani in Piemonte al gruppo di ricerca Architecture of Shame che si avvale del supporto per l’immagine coordinata della società di comunicazione Ego 55 e di numerose collaborazioni di studiosi, attivisti, registi e professionisti lucani e internazionali. Il processo di ricerca ha previsto una serie di attività performative e di dialogo costruite su quattro temi focali che descrivono le caratteristiche della cultura lucana all’estero: il linguaggio, la cucina e la gestualità, gli spazi domestici e i riti religiosi nello spazio pubblico.

Lo scopo ultimo di Basilicatë è quello di realizzare un autoritratto collettivo che possa essere un documento sul dialogo fra la cultura della comunità lucana e quella dei Paesi che l’hanno accolta. I lavori oggetto della mostra saranno acquisiti dal Centro dei Lucani nel Mondo Nino Calice di Lagopesole / Museo dell’Emigrazione Lucana con sede in Basilicata, dove diventeranno materiali a disposizione di ricercatori e appassionati della cultura del territorio.

Il progetto Basilicatë rinvigorisce infine la rete internazionale di comunità lucane nel mondo, molte delle quali particolarmente attive nella diffusione della cultura e dei valori della Basilicata. Attraverso il metodo di Basilicatë i legami esistenti vengono valorizzati in virtù della loro “attualità”, della capacità di evolversi e dialogare, nella convinzione che cultura e tradizioni sono riferimenti dinamici e soggetti vivi. I lucani del mondo hanno desiderio che si parli di loro e non solo dei loro nonni. Esigenza valida anche in Basilicata, dov’è utile sapere che una Regione, seppur così piccola e scarsamente popolata abbia un’influenza culturale molto più grande di quanto non si immagini. Nel filo che si sta intrecciando grazie a Basilicatë corre un legame emozionante, utile alla narrazione generale dell’emigrazione italiana e alla diffusione dell’accoglienza come valore d’evoluzione e di pace.

Basilicata, Terra e Visione: la Regione Basilicata propone due giorni di talk, masterclass ed eventi a Mercato Centrale Torino

Il 14 e il 15 settembre la Regione Basilicata e i suoi GAL – Gruppi di Azione Locale – portano a Mercato Centrale Torino, pochi giorni prima di Terra Madre Salone del Gusto, un evento culturale dedicato al racconto di un territorio unico, della sua cultura e delle sue eccellenze, inserito nel palinsesto degli eventi “Road to Terra Madre”.

Sarà un momento di scoperta di una terra meravigliosa e ricca, ma soprattutto di riflessione su un modello antico che si fa sempre più contemporaneo per la sua naturale capacità di inserirsi nelle questioni di attualità.

Una due giorni di talk, masterclass, concerti ed eventi con la Regione Basilicata tra identità rurale e contemporaneità – aspettando Terra Madre.

 

Domenica 15 settembre al Mercato centrale

ore 11:00 – in Spazio Fare
Talk ” Matera, dalla vergogna all’orgoglio. Una straordinaria storia di successo

 

con il benvenuto di Alberto Cirio (Presidente della Giunta Regionale Piemonte) e la partecipazione di Carmine Cicala (Assessore all’Agricoltura Regione Basilicata), Angelo Zizzamia (Gal Start 2020), Pietro Laureano (Architetto, Urbanista e consulente UNESCO per gli ecosistemi in pericolo), Salvatore Adduce (già Sindaco di Matera), Raffaello De Ruggieri (già Sindaco di Matera), Paolo Verri (Direttore della Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, già Direttore della Fondazione Matera Capitale)

Con la partecipazione straordinaria di Franco Arminio (poeta e paesologo)

Conduce Anna Prandoni (Direttore de Linkiesta Gastronomika)

 

 

Il Museo Ettore Fico festeggia i suoi dieci anni con “Sogni”

Dopo la chiusura per la pausa estiva , il Museo Ettore Fico riapre con una mostra collettiva dal titolo “Sogni”, aperta dal 12 settembre al 15 dicembre prossimi, e festeggia i suoi primi dieci anni di attività.

La mostra prende spunto dalla riflessione per cui tutti noi abbiamo dei ricordi e avvertiamo la necessità di conservare quelli dell’infanzia, in un luogo segreto e intimo. Spesso si tratta di un’infanzia vissuta, immaginata, desiderata e mai avuta. Gli artisti riflettono in modo psicoanalitico su questo delicato momento della vita che può rappresentare un passaggio vitale e crudele, o dolce e importante.

Dal ricordo scatenante della madeleine proustiana parte la riflessione sul mondo meraviglioso dei ricordi dell’infanzia e della fanciullezza, in una sorta di desiderio mai sopito di continuare in quello stato di grazia, desiderio che alberga negli artisti invitati che lo hanno idealizzato e ne hanno fatto il perno della loro ricerca.

Il curatore della mostra, nonché direttore del Mef, Andrea Busto, ha scelto per questa rassegna una serie di artisti internazionali giovani ma quotati, tra cui Odonchimeg Davaadorj e i francesi Edi Dubien e Julia Haumont.

Dubien, che è stato invitato alla Biennale di Lione, ha realizzato acquerelli e ceramiche legate alla storia della sua infanzia, negata da quel corpo femminile mai accettato e infine mutato in uno maschile con un’operazione di cambio di genere.

All’infanzia si rifanno i lavori di un’altra artista francese Julia Haumont, che desidera perpetuare una situazione di “fanciulla in fiore” in cui sta per sbocciare quella sensualità intrigante, perversa e incosciente da Lolita. Le sue sculture sono in ceramica, si accompagnano ad incisioni e a composizioni tessili astratte che utilizzano perline, paillettes e ricami amati quando era bambina.

L’ultima artista in mostra è Giusy Pirrotta, che ha realizzato installazioni simili a set cinematografici, con tessuti, carta da parati, ceramica, video, fotografie.

Giusy Pirrotta inserisce il suo mondo nelle radici personali e profonde della tradizione e anche delle pratiche ancestrali in cui la fantasia dei bambini può dare spazio ai sogni e ai desideri, anche quelli peggiori, sotto forma di incubi.

L’affresco globale che scaturisce da questa mostra è quello di un’infanzia interrotta in cui ognuno vorrebbe ritrovare silenzio e serenità, lontananza e alienazione da questo mondo che turba profondamente le coscienze.

 

Mara Martellotta

Torino e i suoi teatri. Dal Rinascimento ai giorni nostri

/

Torino e i suoi teatri

1 Storia del Teatro: il mondo antico
2 Storia del Teatro: il Medioevo e i teatri itineranti
3 Storia del Teatro: dal Rinascimento ai giorni nostri
4 I teatri torinesi: Teatro Gobetti
5 I teatri torinesi :Teatro Carignano
6 I teatri torinesi :Teatro Colosseo
7 I teatri torinesi :Teatro Alfieri
8 I teatri torinesi :Teatro Macario
9 Il fascino dell’Opera lirica
10 Il Teatro Regio.

Storia del Teatro: dal Rinascimento ai giorni nostri

Cari lettori, eccoci arrivati alla conclusione di questa brevissima storia del teatro. Quello che tenterò di fare, con la medesima disposizione d’animo che ho mantenuto fino ad ora, è di raccontare nel pezzo di oggi ciò che avviene dall’epoca rinascimentale al Novecento; nello scritto che – spero -vi apprestate a leggere sfiorerò il teatro erudito, accennerò al teatro elisabettiano, poi al melodramma, fino ad arrivare a D’Annunzio per poi concludere con autori decisamente recenti come Ronconi. Mi auguro di guidarvi il più chiaramente possibile in questo dedalo di informazioni, nomi, titolazioni ed avvenimenti, affinché sia possibile arrivare con una certa prontezza alle prossime letture, specifiche della storia dei teatri torinesi.

Ora, come si suol dire, “bando alle ciance!”, il discorso è lungo e complesso, sarà meglio iniziare. L’età d’oro per il teatro moderno è senza dubbio il Rinascimento, termine con cui si intende un “rinascere” dell’uomo, del suo impegno sociale e culturale, nozione riferibile a tutta la civiltà italiana dei secoli XV e XVI. Nel più generale contesto della “rinascita del mondo antico”, il teatro viene riscoperto nella sua globalità, e ne vengono presi in considerazione l’aspetto letterario, architettonico, scenografico e scenico.
Per quel che riguarda l’ambito letterario, i dotti si interessano alla riscoperta, alla pubblicazione e all’imitazione delle opere degli antichi: a tal proposito ricordiamo gli studi di Lovato Lovati (1241-1309) e Nicolò di Trevert ( 1259-1329) su Seneca tragico e l’impegno di Nicolò da Cusa che nel 1425 porta alla luce nove commedie di Plauto (il grande autore latino del II secolo a.C., di cui ci sono giunte ventuno commedie). Analogamente si assiste alla ricostruzione dell’antico edificio teatrale, sulla base dell’esame archeologico dei resti monumentali. In questo contesto è doveroso ricordare Leon Battista Alberti, impegnato non solo nell’empirica ricerca archeologica, ma anche nell’analisi serrata del trattato latino “De architectura”, scritto nel 15 a.C. da Marco Vitruvio Pollione, il cui quarto libro è quasi interamente dedicato all’edificazione dei teatri. Alberti propone uno schema teatrale assai preciso nel suo “De re aedificatoria”, (“Sull’edilizia”), ove sostiene che la struttura teatrale necessita di una gradinata (cavea), conclusa da una loggia aperta interiormente e chiusa dietro, di un palcoscenico e di un’area mediana (orchestra), attorno alla quale si organizzano gli altri elementi. Nel XVI secolo si va delineando una trattatistica dedicata all’analisi degli scritti di Aristotele, in particolar modo della “Poetica”, testo in cui viene esaminata la struttura della tragedia. Proprio grazie a questi studi viene normata, in Italia e in Francia, una produzione drammaturgica basata sull’uso delle tre unità aristoteliche di tempo, luogo, azione. I personaggi sono tutti coinvolti in un unico problema e agiscono all’interno di un solo ambiente per un periodo di tempo fittizio che non supera le ventiquattro ore. In seguito, però, la struttura e i personaggi mutano, come accade ne “La mandragola” di Niccolò Machiavelli, considerata il capolavoro del Cinquecento. Siamo ormai di fronte alla “commedia erudita” o “regolare”, come per esempio “La Cassaria”, scritta nel 1508 da Ludovico Ariosto. Proprio in coincidenza della rappresentazione di tale commedia si hanno le prime notizie dell’innovativa forma di allestimento tipica del Rinascimento, ossia la scenografia prospettica.

Il Seicento è invece il secolo del melodramma, forma scenica particolarmente apprezzata negli ambienti aristocratici e di corte, che dall’Italia si diffonde in tutt’Europa. In questo periodo attori, cantanti, scenografi e autori sono la componente fondamentale delle feste, soprattutto in Austria e in Germania. Da elemento complementare e secondario, gli intermezzi diventano il vero momento centrale dello spettacolo, l’azione scenica non è più subordinata alle parole, al contrario tutto è giocato sulla visione di un movimento sempre più grandioso e complesso. Il melodramma moderno nasce dalla volontà di un gruppo di dotti fiorentini raccolti nella Camera dei Bardi, desiderosi di recuperare nella loro integrità le forme della tragedia greca, il cui testo si riteneva venisse interamente cantato. Tipici elementi del melodramma cortigiano sono il frequente cambio di scena, che può addirittura diventare frenetico sul finale della rappresentazione, e l’impiego di meccanismi con lo scopo di suscitare meraviglia e ammirazione nel pubblico, per i trucchi che vengono eseguiti sul palco. Sarà tuttavia nel secolo seguente che la scenografia a tema architettonico toccherà il suo culmine, in particolare grazie all’opera della famiglia Galli Bibiena. Rimaniamo ancora al Seicento, di cui tipiche sono le “masques”, spettacoli diffusi principalmente in Inghilterra, incentrati sul personaggio del monarca che trionfa, si tratta di allegorie in cui il Bene, il Bello ed il Buono, sconfiggono il Male. Dato l’ambito anglofono, menzioniamo l’insuperabile Shakespeare (1564-1616), uno degli autori più noti a livello mondiale e principale esponente del teatro elisabettiano; la sua opera poetica e drammaturgica costituisce una parte fondamentale della letteratura occidentale ed è oggi ancora studiata e rappresentata come insuperabile punto di riferimento. Con l’espressione “teatro elisabettiano” si indica in realtà un periodo storico, che va dal 1558 al 1625, e segna la fase di massimo splendore del teatro britannico. Alcuni studiosi tendono a distinguere la produzione postuma al 1603, parlando di teatro dell’età giacobina, che in effetti presenta caratteristiche differenti. È opportuno ricordare e sottolineare che sotto la regina Elisabetta I esistevano anche spettacoli economici, il dramma era considerato un’espressione unitaria rivolto a tutte le classi sociali, di conseguenza la corte assisteva – in luoghi e in tempi diversi – alle medesime rappresentazioni a cui il popolo presenziava nei teatri pubblici. Dopo la morte della sovrana illuminata i teatri privati tornano ad avere il monopolio della cultura e le rappresentazioni si orientano verso i gusti di un pubblico di ceto alto.


Certamente Shakespeare sovrasta per fama e bravura praticamente tutti gli altri nomi che fanno parte della storia del teatro, ma trovo ingiusto non rammentarne almeno altri due: Christopher Marlowe (1564-1593) e Thomas Kyd (1558-1594). In Francia i massimi esponenti sono Molière (1622-1673) per la commedia e Jean Racine (1639-1699) per la tragedia.
Molière (pseudonimo di Jean-Baptiste Poquelin) è un acuto osservatore dei meccanismi sociali e psicologici che definiscono la società; il suo spirito critico e anticonformista, influenzato da Rabelais e Michel de Montaigne ma anche dal pensiero libertino, lo porta a realizzare opere uniche, brillanti e pungenti. Per Molière, artista di franca e serena risata, il compito della commedia è quello “di correggere gli uomini divertendoli, presentando i vizi e i difetti in modo anche esagerato”. Anche Racine porta avanti una fredda critica al mondo e alle condizioni dell’uomo, la sua visione si concretizza in personaggi che sono antieroi a tutti gli effetti: governati da passioni primitive, incapaci di volontà e travolti dai propri dissidi interiori. Racine si è formato nell’ambito giansenistico dominato dalla drammatica e severa coscienza della finitezza e inadeguatezza dell’uomo, della sua impossibilità di realizzarsi moralmente senza l’intervento imperscrutabile della grazia divina. In Spagna troviamo invece Pedro Calderón de la Barca (1600-1681) con le sue vette poetiche immerse nella realtà, nel sogno e nella finzione.
Non si può né concludere il paragrafo sul Seicento, né proporre una seppur breve storia del teatro, senza soffermarsi almeno per un poco sulla commedia dell’arte. I fenomeni che vanno sotto tale dicitura nascono nella seconda metà del Cinquecento, in piena epoca rinascimentale. Base essenziale della commedia dell’arte è l’abilità tecnica, la capacità di movimento degli attori, l’uso di un ricco e costante repertorio di situazioni comiche; lo schematismo delle figure e dei tipi viene portato all’estremo, si creano personaggi fissi, e tale fissità è resa più colorita dalla trasformazione di queste figure in vere e proprie “maschere”. La commedia dell’arte è quella commedia affidata ad attori professionisti che offrono i loro spettacoli a un pubblico vario, vivendo del proprio mestiere; la prima compagnia di comici di mestiere si forma a Padova nel 1545, e ad essa ne seguono moltissime. In questi spettacoli gli attori non imparano a memoria la loro parte ma la improvvisavano. Si tratta comunque di una tecnica recitativa, “l’improvvisazione non si improvvisa”, al contrario prevede che il teatrante si prepari non “la” parte ma “per” la parte.
Prima di essere definita tale, le rappresentazioni della commedia dell’arte venivano indicate come “Commedia degli Zanni” o “Commedia all’Italiana”. Il termine “Zanni” deriva dal nome di figure di servi nelle prime commedie cinquecentesche, “Zan”, forma veneta per “Giovanni”, da cui “Zanni”. Le caratteristiche di questa tipologia di teatro sono due: l’improvvisazione e l’utilizzo di maschere.

Tali maschere finiscono poi per identificarsi con dei personaggi specifici, veri e propri “tipi fissi”, figure comiche che si ritrovano sempre uguali da una commedia all’altra, con lo stesso formulario di gesti e di linguaggio. I personaggi che si vengono via via creando sono assai numerosi, ma vanno tuttavia inscritti in strutture drammaturgiche rigide e che rispondono a canoni ben definiti, succede dunque che esse vengano raggruppate in poche categorie funzionali: due vecchi e due servi, poi confluiti rispettivamente nelle figure di Pantalone, del Dottore bolognese, Arlecchino e Brighella. Questi ultimi derivano in realtà da un unico personaggio, Zanni, il facchino bergamasco che compare fin dalle prime commedie.
Per circa due secoli tale tipologia di spettacolo rappresenta il Teatro “tout court” in tutta Europa, la sua influenza è chiara, soprattutto se si hanno presenti alcuni personaggi non italiani, come ad esempio Punch, versione inglese di Pulcinella, o Pierrot, Pedrolino o Petruška, tutti derivanti da Arlecchino. Nel Settecento si assiste ad alcuni importanti cambiamenti: lo sviluppo teorico della recitazione e della funzione dell’arte teatrale per la società. Il maggiore studioso dell’epoca è Diderot, filosofo illuminista autore di testi teatrali che si inseriscono nel nuovo filone del dramma borghese; egli pone i fondamenti dottrinali della “tragédie domestique” anche detta “genre serieux”. In Francia si sviluppa infatti una nuova tipologia di opera, definita “dramma”. Il “dramma” tuttavia trova la sua massima definizione sul piano teorico in Germania, grazie all’opera di Gotthold Ephraim Lessing (1728-1781). Sempre in Germania nasce in questo periodo l’innovativa figura del “Dramaturg”, ossia una persona che svolge l’importante ruolo di proporre il repertorio, di allestire i testi per la scena, di rielaborarli o di produrli egli stesso.
In Italia i grandi nomi sono Pietro Metastasio (1698-1782) per il melodramma, per la commedia Carlo Goldoni (1707-1793). Metastasio esalta l’importanza del libretto, a discapito della musica e del canto, semplifica il linguaggio poetico e migliora la caratterizzazione dei personaggi. Da grande uomo di teatro, Metastasio affida al proprio testo poetico una fortissima carica scenico-musicale, senza preoccuparsi dell’organicità di tutti gli aspetti dello spettacolo. Goldoni è uno dei drammaturghi più prolifici, la sua intera opera offre una più che diversificata serie di situazioni che si svolgono attraverso un “quotidiano parlare” e si basano su un’attenta rappresentazione del reale. Goldoni critica gli schemi della commedia dell’arte, la banalità delle sue convenzioni, la comicità volgare e plebea. La “riforma” del teatro goldoniano afferma la preminenza del testo scritto sulla caoticità dell’improvvisazione; il suo elemento determinante è il richiamo alla “natura”, che impone un continuo confronto con la realtà quotidiana. I libri su cui l’artista si è formato sono il “mondo” e il “teatro”, il primo di questi gli ha mostrato i “caratteri naturali” degli uomini, il secondo gli ha insegnato la tecnica della scena e del comico, e i modi per tradurla in comunicazione pubblica.
Dopo Goldoni e il suo “teatro” che attinge dal “mondo”, dopo il fascino e la ricchezza dell’opera del più grande commediografo del nostro Settecento illuminista, eccoci arrivati all’Ottocento.
Discorrendo per sommi capi, possiamo dividere il secolo a metà: nella prima metà si diffonde il dramma romantico, collegato agli ideali dello “Sturm und Drang”, tipicamente esaltati in Germania, da autori come Johann Wolfgang von Goethe e Friedrich Schiller; nella seconda metà invece predomina il dramma borghese, vicino agli ideali veristi e del naturalismo, che trovano in Verga e in Hugo i massimi esponenti.
Agli ideali romantici si rifanno anche autori come Manzoni, con l’ “Adelchi” e Silvio Pellico con la sua “Francesca di Rimini”.
L’Ottocento è però anche il secolo degli artisti anticonformisti, ben esemplificati dalla figura di Oscar Wilde, che nel suo “society drama” porta in scena i sentimenti di chi non vuole sentirsi parte della società.

In linea di massima, durante il XIX secolo, tutto è incentrato sul nuovo gusto di rappresentare Shakespeare, dilatando tutte quelle parti che si prestano ad azioni di massa.
In Inghilterra il teatro ottocentesco è caratterizzato da un’estrema povertà di testi drammatici, le opere di questo periodo sono in realtà semplici occasioni per fare spettacolo, si tratta di testi classificati in base al genere d’appartenenza, non importano più gli autori o il contenuto. Così accanto al “gotich drama”, incentrato su storie di fantasmi, troviamo addirittura il “dog drama” dove i protagonisti altri non sono che cani ammaestrati. Lo spettacolo non è più il momento comunicativo del testo, ma il testo diventa mera funzione dello spettacolo, fino ad arrivare allo “spoken dramas”, una sceneggiatura in pura e semplice prosa. È opportuno ricordare che una comune serata teatrale inglese durava in realtà circa cinque ore; tuttavia, dopo la prima parte della recita, il costo dell’ingresso veniva dimezzato e ciò comportava che lo spettacolo stesso si modificasse per trasformarsi in una serie di pantomime, balletti o altre tipologie di intrattenimento.
Diversa è la situazione a Parigi, dove nei primi anni dell’Ottocento si assiste ad un enorme sviluppo dell’apparato spettacolare dei melodrammi, soprattutto da un punto di vista specialistico. Molti tecnici infatti criticano l’impianto scenografico all’italiana e propongono una struttura scenica più complessa, con elementi tridimensionali praticabili e l’apertura di spazi utili alla sperimentazione scenografica e illuminotecnica. Importantissime in tal senso sono le innovazioni di Louis Jacques Daguerre, il quale, attraverso il sapiente uso di macchinari specifici, propone stupefacenti scene paesistiche in movimento, con fenomeni naturali, o scenari cittadini in cui è esaltato il fervore della vita animata. Daguerre chiama questa tipologia di spettacolarizzazione “diorama”, studi che saranno alla base delle ormai prossime scoperte fotografiche. A partire dalla metà del secolo i gusti cambiano e iniziano a diffondersi spettacoli le cui tematiche spesso rappresentano inquietanti realtà, vicende opprimenti, ambientate in una Parigi tenebrosa e formicolante di quella stessa umanità di cui il pubblico è parte integrante.
Il Realismo si impone sul Romanticismo, sul palco le scene ricalcano ambientazioni quotidiane, ma filtrate attraverso una lente che ne accentua le tinte, rendendole lontane e quasi surreali. Il nuovo repertorio si basa sulla rivisitazione del dramma borghese, che assume come luogo privilegiato il salotto, dove si svolge la vita sociale.
La contro-risposta al teatro verista di fine Ottocento è data dalle forme spettacolari che si diffondono a partire dagli inizi del Novecento, fenomeni che possono rientrare nella denominazione “teatro contemporaneo”. Con tale definizione si intendono le rappresentazioni teatrali che si sviluppano nel corso del XX secolo, segnate da una comune ricerca di superamento della semplice figurazione della realtà; in seguito, con l’avvento del cinema e della televisione, si giunge a un’ulteriore linea di demarcazione tra il quotidiano e la verità teatrale, resa possibile dagli strumenti propri del teatro, quali la suggestione, l’affabulazione e il gioco immaginifico che si instaura tra attore e pubblico. Si parla anche di “teatro di narrazione”, quando gli spettacoli si fanno particolarmente vicini agli antichi modelli dei cantastorie e nel contempo prendono notevolmente le distanze dal teatro verista ottocentesco.

La più grande rivoluzione del Novecento – dal punto di vista della storia del teatro – è la centralità dell’interprete. Da teatro della parola si passa al teatro dell’azione, del gesto, della “performance” interpretativa dell’attore, come sostiene il celebre teorico Konstantin Sergeevič Stanislavskij. Tale approccio metodologico porta, nel 1931, alla nascita del Group Theatre, che rimarrà attivo per circa una decina d’anni; il gruppo fondatore finisce per sciogliersi, ma la ricerca prosegue e personalità come Stella Adler, Lee Strasberg e Sanford Meisner continuano a portare avanti gli ideali dei primordi. Strasberg dirigerà poi dagli anni Cinquanta agli Ottanta l’ Actor’s Studio, forse la migliore fra le scuole di recitazione di tutti i tempi, in cui si sono formati anche Marlon Brando, Al Pacino, Robert De Niro. L’affermarsi delle avanguardie storiche apre la via alla sperimentazione di nuove forme di teatro, come il “teatro della crudeltà” di Antonin Artaud, la drammaturgia “epica” di Bertolt Brecht, e, successivamente, il teatro dell’assurdo di Samuel Beckett e Eugène Ionesco.
Da non dimenticare anche il dramma psicologico di Pirandello, che domina le scene del teatro italiano e non solo. I caratteri dei suoi personaggi si scompongono in uno scontro tra le forme paradossali e distorte che ciascuno di essi è costretto ad assumere: la rappresentazione teatrale rivela come ogni essere umano sia insidiato dalla duplicità, dalle maschere, da ciò che lo sguardo degli altri proietta su di lui. I personaggi scavano nelle pieghe dei loro rapporti con un cerebralismo incontenibile.
Altro nome da annoverare è Gabriele D’Annunzio, uno dei massimi esponenti del Decadentismo, il quale utilizza nelle sue tragedie, dal mondano gusto liberty, un linguaggio aulico e forbito, invaso dall’onda della parola preziosissima. Una importante considerazione va rivolta ad Achille Camapanile, geniale anticipatore del teatro dell’assurdo.
In Germania spiccano nomi come Vladimir Majakovskij e Erwin Piscator direttore del Teatro Proletario di Berlino e Ernst Toller il principale esponente teatrale dell’espressionismo tedesco.
Due parole sono dovute al rapporto tra il regime dittatoriale e il teatro. Gli studiosi concordano nel ritenere che non esista un “teatro fascista”, ma di fatto il fascismo “intuì subito l’importanza (o la pericolosità) del palcoscenico” (Biondi), soprattutto per ottenere il consenso dell’opinione pubblica borghese, quello stesso ceto medio a cui piaceva assistere alla commedia di costume, chiamata poi “delle rose scarlatte”. Altra tipologia di spettacolo che in quel periodo riscuote notevole successo è quello di Aldo De Benedetti, detto teatro “dei telefoni bianchi”, poiché in scena vi era sempre un telefono bianco, simbolo di adesione alla modernità; si tratta di rappresentazioni stereotipate, dalle trame abbastanza banali, tutte giocate sul classico triangolo amoroso, il cui fine è solamente quello di intrattenere e far divertire – “panem et circenses” direbbe qualcuno.

Quello che non è riuscito ad ottenere il fascismo, ossia un teatro di massa, riesce a raggiungerlo il teatro di varietà che, con le scene pompose, le musiche irruenti, le ballerine ammiccanti e le irriverenti battute dei comici, ottiene la partecipazione del grande pubblico. Caratteristica del varietà è la sua nota estemporanea, il copione si adatta all’attualità e agli avvenimenti politici, rendendo impossibile un controllo censorio sull’agire degli attori; non solo, il varietà comporta il trionfo dell’uso del dialetto, come ben esemplificano le farse di De Filippo.
Nel secondo dopoguerra arrivano nuovi stimoli a pungolare l’evoluzione del teatro. Gli anni Sessanta e Settanta sono le decadi della filosofia hippie, dell’avvicinamento a certe discipline del mondo orientale per far riemerge la natura istintiva dell’uomo, intrappolata e resa dormiente dalla moltitudine di regole che disciplinano la vita in società. Il nuovo sentire si riflette nel teatro, l’esibizione davanti al pubblico non è più solo un semplice spettacolo teatrale ma un’occasione di crescita personale. Il nuovo approccio si fa evidente in diverse realtà, basti pensare all’Odin Teatret di Eugenio Barba, al teatro povero di Jerzy Grotowski, al teatro fisico del Living Theatre di Julian Beck e Judith Malina. Le avanguardie italiane non sono altro che una sfilza di grandi nomi, ciascuno meritevole di un inchino nel mentre che li si legge: Eduardo De Filippo e Dario Fo, Carmelo Bene (uno dei principali esponenti del teatro sperimentale), Leo De Berardinis, o ancora Luchino Visconti, (più noto forse in ambito prettamente cinematografico). Ovviamente anche il resto del mondo ha i suoi nomi da giocare, in Germania troviamo ad esempio Rainer Werner Fassbinder, in Francia Jean Genet e in Svizzera Friedrich Dürrenmatt (1921-1990). Degno di nota è ancora il polacco Tadeusz Kantor (1915-1990) pittore, scenografo e regista teatrale tra i maggiori teorici del teatro del Novecento. Il suo spettacolo “La classe morta” (1977) è tra le opere fondamentali della storia del teatro.
Molte altre figure meriterebbero di essere annoverate, così come numerosissime altre correnti, avanguardie e sperimentazioni, ma dato che sto scrivendo un articolo e non un saggio, mi trovo costretta, seppur con cuore pesante, a fare una selezione. Eccoci dunque arrivati al termine della nostra riassuntiva storia del teatro e con l’usuale speranza di avervi allietato e incuriosito mi accingo a salutarvi. Prima però mi tolgo un piccolo sfizio personale, perché desidero ricordare due personaggi tra i miei preferiti del Novecento in ambito teatrale. Il primo è Luca Ronconi, un grande innovatore, il suo modo di fare teatro e regia non ha termini di paragone. È un attore che è anche regista e ciò comporta un’attenzione tutta nuova sulla messa in scena. Per Ronconi il teatro implica la definizione di spazio, ma uno spazio completamente nuovo, che assume le forme degli stati d’animo dei personaggi delle storie rappresentate. Molto spesso si tratta di spazi tormentati, pregni di elementi simbolici che gli spettatori colti dovrebbero intendere – soprattutto dopo aver letto un esaustivo commento dal carattere didascalico di quello che si è andati a vedere – Altra peculiarità del teatro ronconiano è il tempo: ciò che avviene sul palcoscenico non ha ordine cronologico, le azioni si sovrappongono e si succedono come in una straniante dimensione onirica in cui lo spazio-tempo non esiste. Il regista pare lanciare un’ancora di salvezza agli spettatori utilizzando molto spesso delle didascalie, ma noi -pubblico attento – sappiamo che non ci si deve mai fidare troppo degli artisti contemporanei. Tali didascalie, infatti, altro non sono che parole chiave per aiutarci a capire la messa in scena, ma, diciamo la verità, per comprendere appieno uno spettacolo di Ronconi serve qualcosa di più che qualche termine sparso qua e là.

Il secondo personaggio che vorrei indicarvi è il visionario regista lituano Eimuntas Nekrošius, i cui spettacoli sono tanto affascinanti quanto intellettualmente complessi. Spiegare la poetica di Nekrošius è davvero complicato, la difficoltà è la medesima di cui parla Kafka ne “Un digiunatore”: “Si provi a spiegare a qualcuno l’arte del digiuno! Chi non la conosce, non può neanche averne l’idea”. Il regista lituano dimostra come sia possibile attingere dalla tradizione e al contempo rileggerla alla luce di nuove prospettive critiche ed estetiche. La messinscena è un organismo vivente che racconta storie, muove i personaggi come fossero burattini e determina l’avvio di meccanismi passionali che sfuggono al naturalismo psicologico e non è mai intaccato “dal morbo dell’autoriflessività che si è impadronito totalmente del teatro occidentale” (Valentini). Le opere di Nekrošius sono un’estrema sintesi di opposti, astratto e concreto, tragico e comico, descrizione e narrazione, uniti dalla fusione dialettica dei contrari in una caratterizzazione dinamica che richiama alla memoria l’idea del “montaggio delle attrazioni” teorizzata da Ejzenštein.
Se non avete mai visto uno spettacolo di Nekrošius, probabilmente non avrete capito granché di ciò che ho appena detto, ma l’ho fatto apposta, per invitarvi ad andare su youtube, digitare il suo nome e lasciarvi perdere nel suo mondo onirico e allucinato, così tanto lontano dalla nostra visione spocchiosamente eurocentrica. Un ultimo consiglio, se non sapete da dove iniziare cercate una registrazione del suo “Makbetas”, che marcia inesorabile verso la morte mentre il mantello gli diviene pesante, e nel contempo basculano sul palco delle enormi travi di legno, simbologie di metronomi che scandiscono l’azione che precipita e il destino che si compie. Con quest’ultimo consiglio enigmatico vi saluto davvero, cari lettori, e vi invito a trascorrere un po’ del vostro tempo libero in compagnia di personaggi bislacchi, al limite dell’umana comprensione, che, come i matti, sproloquiano la verità, mentre il resto del mondo finge di non udirli.

Alessia Cagnotto

La Fontana del Parco della Tesoriera e il suo fantasma

Oltre Torino. Storie, miti, leggende del Torinese dimenticato

Torino e lacqua

***

8. La Fontana del Parco della Tesoriera e il suo fantasma

Quando visitiamo una città tendiamo facilmente a focalizzarci sui quartieri centrali, perché in genere più ricchi di musei e attivitàculturali, ma così facendo corriamo il rischio di perdere le attrazioni che si trovano spostate in altri luoghi della città. Se siamo a Torino e vogliamo fare ad esempio una passeggiata in un parco, certo il primo che salta alla mente è lo splendido e rigoglioso  parco del Valentino, il vero polmone della nostra cittàche, tuttavia, offre anche altre zone verdi. Tra queste, è bene ricordarlo, vi è un ampio giardino carico di fiori e di tenera fauna cittadina, come scoiattoli e varie specie di uccelli di piccola taglia: si tratta del bellissimo ed elegante Parco della Tesoriera, il vasto parco aperto al pubblico che circonda la settecentesca Villa Sartirana, sita lungo corso Francia, nei pressi di piazza Rivoli, nella circoscrizione 4, tra corso Monte Grappa, via Borgosesia e via Asinari di Bernezzo.

La villa venne costruita per il consigliere e tesoriere generale dello stato sabaudo, Aymo  Ferrero di Cocconato (Racconigi 1663-Torino 1718) sui terreni che egli aveva acquistato nel 1713. Larchitetto a cui venne affidato lincarico delledificazione fu Jacopo Maggi, che si ispirò a Guarino Guarini. Il parco in cui sorge la fontana è anche conosciuto con il nome di Giardin dëlDiav, perché un tempo si vociferava che apparisse, su cavalli incitati al galoppo trainanti una grossa carrozza, un cavaliere nero, nientemeno che  il fantasma del tesoriere del re, Aymo Ferrero di Cocconato.

Allinterno del grande giardino si staglia, netta, la splendida costruzione, circondata da un prato verde alla francese, al cui centro, di fronte alla villa, spicca una fontana centrale. La struttura della vasca è ovaleggiante, con tre zampilli centrali più alti; lungo una parte del perimetro della vasca partono altri piccoli getti a cannella che movimentano piacevolmente il disegno dellacqua e danno rilievo artistico e ornamentale al semplice bacino contenitivo.

La Tesoriera è un esempio di villa suburbana settecentesca  erispetta fedelmente le linee strutturali dei più noti palazzi barocchi torinesi. Realizzata ex novo e non su fondamenta preesistenti, essa presenta la copertura del primo piano con eleganti volte in muratura. Il  progetto si concretizzò nel 1713 quando AymeFerrero di Borgaro e signore di Cocconato, tesoriere e generale dei redditi del Duca, fece edificare una cascina e acquistò i beni circostanti. Logica la connessione tra la professione del suo fondatore e la denominazione Tesoriera. La villa fu inaugurata dal duca di Savoia  Vittorio Amedeo nel 1715.  Gli avvenimenti storici  segnarono il lento decadimento artistico della villa  che solo nel 1844, sotto la guida di Ferdinando Arborio Gattinara Duca di Sartirana Marchese di Breme, entomologo e politico italiano, subì sostanziali mutamenti e conobbe per un breve periodo fasto e splendore. Allora, la villa era chiamata con il suo vero nome, Sartirana, e vantava una biblioteca di circa 1500 volumi di storia naturale e botanica, oltre ad una collezione ornitologica con rarissimi esemplari di uccelli esotici e arredi. A metà Ottocento la Tesoriera era un delizioso giardino botanico con camelie, rododendri, azalee, melograni, conifere e querce.  Nel 1934 la Villa fu acquistata da Amedeo duca dAosta che affidòallarchitetto Giovanni Ricci il compito di apportare delle modifiche nellala ovest .

La ricchezza botanica venne compromessa durante la seconda guerra mondiale, e in seguito, nel 1962, con la vendita dellarea  passata dallamministrazione  dei Duchi dAosta  allIstituto Sociale dei Gesuiti, che abbatterono molti alberi secolari. Nel 1976 varie manifestazioni di protesta e raccolta firme dei cittadini portarono il comune di Torino ad espropriare il parco e poi ad acquistare la villa. Dopo gli importanti restauri del 2009-2011 che hanno restituito la villa al suo antico splendore, la Tesoriera oggi accoglie la biblioteca musicale Andrea della Corte (dedicata al critico musicale e musicologo) ed è sede rappresentativa comunale. Nel parco vi è un ricco patrimonio di alberi, arbusti e fiori, con specie tipicamente italiane e altre che si sono acclimatate, come la quercia rossa. Ci sono anche esemplari di noce nero, faggio, frassino, tiglio acro, olmo, tasso bagolaro e magnolia. Una particolare pianta della Tesoriera, unica a Torino, ci parla dei climi mediterranei: a destra, lungo il viale che parte quasi dallingresso di corso Francia, si può scorgere il tronco inclinato di una quercia da sughero. Vicino allingresso, il gigantesco platano di quasi otto metri di circonferenza, forse piantato nel 1715, è lalbero più vecchio della città.

Alessia Cagnotto

 

Le storie spesso iniziano là dove la Storia finisce

Il fil rouge di questa serie di articoli su Torino vuole essere lacquaLacqua in tutte le sue accezioni e con i suoi significati altrilacqua come elemento essenziale per la sopravvivenza del pianeta e di tutto lecosistema ma anche come simbolo di purificazione e come immagine magico-esoterica.

1. Torino e i suoi fiumi

2. La Fontana dei Dodici Mesi tra mito e storia

3. La Fontana Angelica tra bellezza e magia

4. La Fontana dellAiuola Balbo e il Risorgimento

5. La Fontana Nereide e lantichità ritrovata

6. La Fontana del Monumento al Traforo del Frejus: angeli o diavoli?

7. La Fontana Luminosa di Italia 61 in ricordo dellUnità dItalia

8. La Fontana del Parco della Tesoriera e il suo fantasma

9. La Fontana Igloo: Mario Merz interpreta lacqua

10. Il Toret  piccolo, verde simbolo di Torino

“Suoni d’Africa” con la fascinosa magia di antichi strumenti

Si chiude a “Casa Lajolo” la rassegna musicale “La notte, di luci e di note”

Venerdì 13 settembre, ore 20,30

Piossasco (Torino)

Prima protagonista la “kora”. Accompagnata dal ritmo composito delle “cas cas”. E, insieme, altri antichi (poco conosciuti o sconosciuti) strumenti che magicamente regalano suoni e melodie ripescate nel tempo e capaci di riproporre l’avvincente atmosfera delle antiche e profonde, spesso storicamente “calpestate”, terre d’Africa. Sarà il giardino illuminato di “Casa Lajolo” a Piossasco a fare da cornice, venerdì 13 settembre, alle 20,30, a “Suoni d’Africa”, appuntamento di chiusura della rassegna “La notte, di luci e di note” pensata per permettere di vivere, anche di sera, la settecentesca dimora storica gestita da “Fondazione Casa Lajolo” e il suo magnifico giardino a tre gradoni.

Elena Russo e Carla Azzaro le giovani musiciste protagoniste della serata. Torinese, la prima si esibirà alla “kora” (arpa tradizionale africana, suonata dai “griot” – bardi o cantastorie – dell’etnia Mandinka diffusa in Senegal, Gambia, Guinea e Mali), mentre la ragusana Azzaro sarà impegnata alle percussioni africane studiate con due grandi delle “nere” sonorità, Masserigne Fall e Lorenzo Gasperoni.

La promessa degli organizzatori é quella di una serata intensa e carica di emozioni, in cui lasciarsi rapire da note insolite, singolari, cifre poetiche di universi lontani dove perdersi e smarrire i confini di spazio e tempo.

“Suoni d’Africa” condurrà, infatti, “in un’esplorazione – si sottolinea – della musica tradizionale africana, un mondo dove le zucche si trasformano in tamburi e dove  ritmi e melodie si intrecciano e svelano i misteri delle ‘cas cas’ e dei ‘caxixi’, della ‘calebasse’ e della ‘kora’”: antichi strumenti ancora assai diffusi in tutta l’Africa occidentale, costruiti a mano o con semplici utensili, usando materiali messi a disposizione dalla natura. “Ne nascono composizioni ed esecuzioni spontanee che costituiscono il richiamo, la cornice e spesso anche l’essenza di feste e celebrazioni e che si prestano naturalmente a fare da sfondo e alternativamente a essere protagoniste di una serata”.

Importante è ancora sottolineare che tutti i concerti organizzati nell’ambito della rassegna “La notte, di luci e di note” nascono  in occasione dell’inaugurazione del nuovo “sistema di illuminotecnica”, realizzato grazie al bando “PNRR-Parchi” indirizzato a giardini storici e finanziato dai “Fondi Next Generation EU”, grazie ai quali è stata resa possibile la valorizzazione dei  punti più suggestivi del Giardino di “Casa Lajolo”, organizzato “a stanze” e ricco di scenari sempre nuovi.

Le luci richiamano l’attenzione sugli alberi secolari, come il cedro e il pino, giocano con muretti e aiuole, invitando a muoversi tra il piazzale in ghiaia con la collezione di agrumi in vasi, il giardino all’italiana delineato da cordonature e sculture in bosso e affiancato da un boschetto all’inglese delimitato da sette “Taxus baccata”, e poi più in giù, a guardare verso ulivi e alberi da frutto, aprendosi all’ orto-giardino e al frutteto.

Nel biglietto (20 euro, under 25 pagano 15 euro), dopo un calice di vino di benvenuto della “Cantina L’Autin” di Pinerolo, la possibilità di visitare e passeggiare nel giardino illuminato. Acquistando due biglietti (nella stessa data) il terzo è al 50 per cento. Informazioni e prenotazioni dei concerti: info@casalajolo.it.

Per ulteriori info: “Casa Lajolo”, via San Vito 23, Piossasco (Torino); tel. 333/3270586 o www.casalajolo.it

g.m.

Nelle foto: “Casa Lajolo” in notturna, Elena Russo e Carla Azzaro

La cultura dietro l’angolo: feste di fine estate

Riprendono dopo la pausa estiva gli appuntamenti de La cultura dietro l’angolo, che dallo scorso maggio porta la cultura in tutta la città. Obiettivo della manifestazione, giunta alla sua terza edizione, è la costruzione di relazioni di comunità e per questo, più che ai grandi numeri, mira alla cura e alla valorizzazione di ogni persona coinvolta. Il primo appuntamento di settembre saranno le feste di fine estate, giovedì 12 e venerdì 13 settembre, tra concerti, spettacoli teatrali, performance artistiche, giochi e molto altro nei dieci presidi territoriali.

LE FESTE DI FINE ESTATE

Ognuna delle dieci feste nasce dalla co-progettazione di un ente culturale e di un presidio territoriale e sarà un’occasione per promuovere e far scoprire alla cittadinanza tutti gli eventi e le opportunità del ricco programma dell’edizione 2024 , che conta oltre 240 attività culturali diffuse in tutto il territorio cittadino.

Giovedì 12 settembre 2024

Dalle 16:30 la Biblioteca civica Don Milani ospiterà Spiriti della Luna, una lettura teatrale di Lucilla Giagnoni a cura di TPE – Teatro Piemonte Europa; dalle 17 Più Spazioquattro ospiterà Gold Show, uno spettacolo teatrale di e con Giorgia Goldini, a cura di Fondazione TRG; dalle 17 la Casa del Quartiere di San Salvario ospiterà un laboratorio tra scatti di polaroid e le suggestioni del concerto di Shuai Kanno, a cura di Gallerie d’Italia; dalle 17 il Centro Interculturale ospiterà il laboratorio Di foglia in foglia, ispirato al tema del paesaggio e ai lavori dell’artista Stefano Arienti, a cura di GAM – Galleria d’Arte Moderna; dalle 17 la Biblioteca civica Calvino ospiterà Tubology – La scienza del tubo, uno spettacolo bizzarro e sorprendente, a cura di CentroScienza Onlus.

Venerdì 13 settembre 2024

Dalle 17 Beeozanam ospiterà il laboratorio Storie egizie a colori, a cura del Museo Egizio; dalle 17 Fabbrica delle E / Binaria ospiterà lo spettacolo Tubology – La scienza del tubo, a cura di CentroScienza Onlus; dalle 17 i Bagni pubblici di Via Agliè ospiteranno Dante Giullare, incontro spettacolare di e con Matthias Martelli, a cura del Teatro Stabile di Torino; dalle 17:30 la Casa nel Parco ospiterà il concerto di Kosobate Quartet a cura di Unione Musicale; dalle 18:30 Officine Caos – Casa del Quartiere Vallette ospiterà la lettura teatrale Se ci sei batti un colpo con Irene Ivaldi, a cura di TPE – Teatro Piemonte Europa.

LA CONNESSIONE CON MITO PER LA CITTÀ

Con la terza edizione, La cultura dietro l’angolo rafforza la sinergia con MITO per la Città – la rassegna che affianca la programmazione principale di MITO SettembreMusica con l’aspirazione di coinvolgere anche chi, per varie ragioni o impedimenti, non potrebbe partecipare al festival -, portando piccoli concerti e interventi musicali secondo il seguente calendario.

Giovedì 12 settembre h 17, Biblioteca civica Don Milani: Three Bones, trio di tromboni

Giovedì 12 settembre h 18, Casa del Quartiere di San Salvario: Shuai Kanno, pianoforte

Venerdì 13 settembre h 18, Beeozanam: Psyché, quartetto di flauti

Sabato 14 settembre h 18, Bagni Pubblici via Aglié: Psyché, quartetto di flauti

Martedì 17 settembre h 17, Casa del Quartiere Vallette: TrentaDuo, duo di contrabbassi

Mercoledì 18 settembre h 17, Biblioteca civica Calvino: Psyché, quartetto di flauti

Giovedì 19 settembre h 17, Centro Interculturale: Shuai Kanno, pianoforte

PROSEGUE IL PROGRAMMA DELLA TERZA EDIZIONE

Riprende da settembre il programma principale degli appuntamenti de La cultura dietro l’angolo, che proseguirà fino a dicembre con un ricco calendario di appuntamenti gratuiti di musica, teatro, scienza, arte, storia e fotografia, consultabile sul sito www.laculturadietrolangolo.it.

La card

Per partecipare alle attività de La cultura dietro l’angolo basterà recarsi in uno dei dieci presidi territoriali, dove verrà rilasciata una tessera, che permette anche di accedere gratuitamente o a prezzi scontati a preziose proposte e occasioni culturali. La card consente infatti di visitare gratuitamente le collezioni permanenti del Museo Egizio, della GAM e delle Gallerie d’Italia fino alla fine dell’anno e di usufruire di riduzioni sul prezzo dei biglietti per concerti, spettacoli e incontri delle stagioni di Unione Musicale, TPE, Fondazione TRG, Teatro Stabile di Torino e Associazione CentroScienza Onlus. I biglietti, in numero limitato per ciascuno spettacolo, sono acquistabili esclusivamente recandosi nei diversi presidi territoriali muniti di card.

I partner

La cultura dietro l’angolo è un progetto della Fondazione Compagnia di San Paolo e della Città di Torino, in collaborazione con la Fondazione per la Cultura Torino. L’iniziativa è sviluppata con la Fondazione Ufficio Pio, Arci Torino, la Rete Case del Quartiere, la Rete di Torino Solidale. La realizzazione del programma 2024 è resa possibile grazie alla sinergia, all’impegno collettivo e allo scambio di competenze tra queste realtà e tutti i soggetti coinvolti nella co-programmazione e nella co-progettazione, che per quest’anno sono: Associazione CentroScienza Onlus, Museo Egizio, Unione Musicale, Fondazione TRG, TPE – Teatro Piemonte Europa, GAM – Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea di Torino, Gallerie d’Italia – Torino di Intesa Sanpaolo, Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale, coordinati dall’Associazione Abbonamento Musei, in collaborazione con dieci presidi civici territoriali: Casa nel Parco nella Circoscrizione 2; Fabbrica delle E/Binaria nella Circoscrizione 3; Più SpazioQuattro nella Circoscrizione 4; Officine CAOS – Casa del Quartiere Vallette e Beeozanam nella Circoscrizione 5; Bagni Pubblici di via Agliè, Biblioteca civica “Don Lorenzo Milani” e Centro Interculturale della Città di Torino nella Circoscrizione 6; Biblioteca civica “Italo Calvino” nella Circoscrizione 7; Casa del Quartiere di San Salvario nella Circoscrizione 8. Il programma si avvale, inoltre, del prezioso contributo di altri presidi della Rete Torino Solidale, come Cascina Roccafranca, Gruppo Abele e la Consulta per le Persone in Difficoltà.

(foto archivio)

Il museo di anatomia umana Luigi Rolando

Tra i reperti i calchi del cranio di  Napoleone Bonaparte e Raffaello Sanzio

Situato a pochi passi dal Parco Valentino, in zona San Salvario a Torino, il Museo di Anatomia Umana offre una interessante collezione di riproduzioni del corpo umano in carta pesta, cera, ma anche reperti originali, grazie a diverse e generose  donazioni. L’area espositiva si sviluppa in una stanza unica ampia e  lunga dove si respira l’aria ottocentesca del positivismo torinese e di una scienza che tra meta’ e fine del 1800 trova il suo apice anche attraverso le prime esposizioni che avvengono nel Palazzo dei Regi Musei (oggi Museo Egizio e Accademia delle Scienze). A fine secolo le collezioni, ulteriormente arricchite, vengono spostate presso l’Ospedale Maggiore di San Giovanni Battista per essere trasferite definitivamente nella sede attuale in via Massimo D’azeglio 52. Luigi Rolando docente di Anatomia presso l’universita’ di Torino viene coinvolto nell’attivita’ del museo grazie anche alle sue competenze di ceroplastica che trasmettera’ai tecnici modellatori che si occuperanno per il museo delle riproduzioni di alcuni organi del corpo umano.


I percorsi espositivi
, oltre all’ anatomia umana, affrontano temi come la criminologia, la biodiversità, le differenti culture del mondo, la storia della scienza e la vita degli scienziati torinesi nell’Ottocento, un approccio multidisciplinare molto utile alla comprensione da parte di chi non conosce la materia e un ottimo approfondimento per chi, invece, e’ piu’ avvezzo a questi argomenti scientifici.

Il museo ripropone volutamente l’atmosfera di quel passatostorico con teche, vetrine e mobili originali, che, seppur limitanti e vecchie a livello espositivo, regalano una suggestione affascinante del mondo scientifico ottocentesco, a tratti cupo. Il materiale e’molto interessante e istruttivo, ma per la particolarita’ dei temi  trattati e soprattutto per l’approccio che vede una fedele ricostruzione dei vari organi del corpo umano potrebbe risultareun po’ inquietante, quindi e’ meglio prepararsi.

 

Alcune collezioni, non ancora restaurate, come quella strumentaria medica, sono incluse in futuri progetti  espositivi; al momento sono in vetrina esempi anatomici in cera, da poco riqualificati,  preparati a secco e in liquido, la raccolta craniologica e quella frenologica con calchi in gesso di crani di personaggi famosi come Raffaello Sanzio, Napoleone Bonaparte, il Principe di Talleyrand, il Conte di Cavour, Goffredo Mameli, Vincenzo Bellini, oltre a criminali famosi, come Giorgio Orsolanodetto “la iena di San Giorgio”.

Molto apprezzabile l’impegno di creare dei servizi educativi per gli studenti di ogni eta’, dall’infanzia alle scuole superiori, con laboratori e visite guidate specifiche e adattate con l’obiettivo di ampliare la conoscenza e approfondire questa materia, a moltissimi ignota.

Torino si conferma la citta’ dei musei, preziosi, differenti, utili e arricchenti. Una citta’ che offre ai suoi cittadini e a chi la visita un tesoro formidabile di arte, storia e cultura.

MARIA LA BARBERA

https://www.museoanatomia.unito.it/info/biglietti-orari/