CULTURA E SPETTACOLI- Pagina 258

La storia di Torino ghigliottinata

IL COMMENTO  di Pier Franco Quaglieni
Anatema! avrebbe detto Mario Soldati, leggendo le proposte dei censori della storia che vorrebbero eliminare i nomi di numerose vie cittadine di Torino.
Innanzi tutto anatema per chi vuole provocare un grave disagio a molti cittadini ed attività per il cambio di indirizzo su tutti i documenti che un cambio di via comporta. Con un’anagrafe non in grado di rilasciare in tempi accettabili la carta d’identità  appare una proposta volta ad evidenziare una arretratezza che ci rende una città da terzo mondo. Ma al di là della boutade, che senso ha eliminare via Tripoli o piazza Bengasi o piazza Massaua  che i torinesi pronunciano con l’accento sbagliato da sempre?  Significa voler mettere sotto il  tappeto la storia senza misurarsi con essa.
Sarebbe la stessa cosa pensare di cancellare corso Unione Sovietica, anche se  l’URSS non c’è più e Tripoli e Bengasi , Massaua ci sono . Il col. Gheddafi si sarebbe sentito ancora più antiitaliano ad apprendere che la capitale della Libia era stata cancellata dalla toponomastica torinese. Si sono dimenticati di cassare dalla toponomastica la Somalia che è stata anch’essa colonia italiana. Qui il colonialismo o il fascismo non c’entrano nulla . Già dopo il 25 aprile 1945  e il 2 giugno i nomi delle vie e dei corsi torinesi cambiarono a furor di popolo e molti Savoia e Gabriele D’Annunzio ne fecero le spese . Benedetto Croce in visita a Torino dopo la guerra protesto ‘ contro lo snaturamento della storia della Città in una lettera al direttore de “La Stampa “ Filippo Burzio che i censori non conoscono e che dovrebbero leggersi per capire che il giacobinismo applicato alla toponomastica è del tutto fuori luogo.
Potrebbero anche pensare di eliminare corso Lepanto, ad esempio, che evoca una battaglia vinta dai cristiani contro l’Islam. Magari ,andando a spulciare , potrebbero trovare nomi di vie che non corrispondono ai gusti dei censori odierni che io  non voglio neppure nominare. Le motivazioni addotte rivelano una totale assenza di quello che Omodeo definiva “il senso della storia“.
Addirittura vogliono eliminare le vie intitolate a due Medaglie d’oro al Valor Militare. Magari dovrebbero anche chiedere la revoca del conferimento della massima  decorazione  militare e  anche la degradazione  postuma di quei due ufficiali caduti al fronte  , uno dei quali , Giuseppe Galliano, venne selvaggiamente ucciso ad Adua nel 1896 ,suscitando l’esecrazione degli Italiani. Il col. Galliano era un militare che obbediva agli ordini e non può essere considerato colonialista e razzista da gente che non  sa nulla della vita militare da cui sarebbero stati dispensati.
Per non parlare dell’ ammiraglio Umberto Cagni noto soprattutto come esploratore per la spedizione al Polo Nord con il Duca degli Abruzzi, che per essere vissuto molti anni in Somalia dove scelse di farsi seppellire, dovrebbe essere il primo dei censurati. Al Duca è anche intitolato il Museo della Montagna a cui dovrebbero cambiare il nome , seguendo la furia iconoclasta dei nuovi crociati della cancel culture subalpina. Anche il Duca Amedeo d’Aosta viceré di Etiopia morto in prigionia a  Nairobi, dovrebbe subire la stessa sorte. E forse, andando a spulciare nel mio libro dedicato alle lapidi e alle vie di Torino edito dal Comune di Torino si potrebbero trovare altri nomi da mettere sotto la ghigliottina. Il buonsenso e la cultura della Presidente del Consiglio Comunale Maria Grazia Grippo e della Commissione Toponomastica sono certo che impediranno di far cadere nel ridicolo Torino.

Costantino Della Gherardesca incontra il pubblico

sabato 25 marzo dalle 16.30 nel negozio Sky di Torino in via Lagrange 32

Un ospite speciale animerà il negozio Flagship Sky di Torino: Costantino Della Gherardesca sarà il protagonista del Meet & Greet, aperto a tutti, presso lo store torinese di Sky.

A partire dalle 16:30 di sabato 25 marzo, il conduttore di “Pechino Express” e “Quattro matrimoni” sarà all’interno del negozio Sky di Via Giuseppe Luigi Lagrange 32F – a pochi passi da Piazza Carlo Felice e da Porta Nuova – per incontrare il pubblico: Costa racconterà i segreti dei due show, a partire dai dietro le quinte di “Pechino Express”, l’avventuroso show Sky Original – quest’anno in corsa lungo “La via delle Indie” – che proprio in questi mesi va tutti i giovedì sera su Sky e in streaming su NOW, e dagli aneddoti più particolari e divertenti delle sfide a colpi di abito da sposa e di confetti di “Quattro matrimoni”, che tornerà prossimamente sempre su Sky e NOW con un nuovo ciclo di episodi.

L’iniziativa proseguirà anche nei prossimi mesi e porterà altri talent in alcuni degli store con cui Sky è presente con dei punti vendita in tutta Italia. Spazi che offriranno sempre più la possibilità al pubblico di conoscere e vivere più a fondo i contenuti di Sky, attraverso i suoi protagonisti. I negozi Sky sono il posto in cui esplorare in modo semplice e divertente la varietà dell’offerta Sky, tra sport, cinema, show, serie tv e documentari, ma anche tecnologia e connettività performanti con Sky Glass e Sky Wifi, oltre che trovare assistenza specializzata per ogni esigenza.

 

Giuseppe Calì, l’artista siciliano che fa il soldato

Palermitano, classe 1976 Giuseppe Calì è un artista a tutto tondo, ispirato e profondo.

Lascia la sua Sicilia, la sua famiglia e approda in Piemonte quando si arruola come volontario nell’Esercito Italiano. Questo distacco, seppur difficile e impegnativo, gli dà nuova linfa per proseguire la sua passione: l’arte; l’indipendenza economica gli permette di coltivare il suo sogno cominciato nella sua terra quando consegue il diploma all’Istituto d’Arte.

Calì, “Benny” per il nonno artista come lui, arriva a Fossano al I° Reggimento di Artiglieria, comincia la sua vita di gruppo e condivisione con i suoi compagni, ma anche di solitudine utile ad alimentare il suo talento e stimolare la sua creatività. E’ proprio alla Perotti di Fossano che Giuseppe sviluppa alcuni progetti: crea lo stemma della Caserma, dipinge un bellissimo murale di 5 metri ubicato presso il Circolo dell’edificio militare e dona un suggestivo ed emozionante dipinto: “La presa di posizione dell’artiglieria”.

Artista versatile e completo, a Calì, oramai benese di adozione, viene conferito il Premio Biennale Nobel dell’Arte presso l’Artexpò Gallery di Montecarlo ed espone le sue opere in importanti mostre come quella organizzata al Salone d’Onore del Comune di Cuneo.

Oltre a lavorare, tra divisa, colori e pennelli, Giuseppe Calì studia i suoi maestri di riferimento come Pollock, alterna il figurativo con un’arte innovativa “che non deve sottostare a regole esterne” e allarga la sua esperienza creando opere di spessore che si ispirano a diversi artisti contemporanei.

Insignito del titolo di Ambasciatore dell’arte nel mediterraneo, Calì crede fermamente che l’arte debba essere alla portata di tutti, non deve avere limiti culturali né cognitivi e considera la ricerca pittorica un continuo divenire, una evoluzione costante. Le sue opere sono pennellate traboccanti di colori ma anche di significato che rendono tangibile l’ impegno profondo e il valore che l’arte ha nella vita del pittore.

Un percorso ricco quello di Calì diviso tra la sua professione di militare e la sua arte, una vita intensa in cui si intersecano perfettamente regole e creatività, condivisione e introspezione, misura ed estro.

MARIA LA BARBERA

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Ana Roxanne, performance nell’ambito della mostra Buddha10

Martedì 21 marzo 2023 ore 18.30

MAO Museo d’Arte Orientale, Torino

 

Ana Roxanne, compositrice intersessuale filippino-americana, arriva al MAO Museo d’Arte Orientale per una performance – nell’ambito del public program della mostra Buddha10 – che mescola ispirazioni ambient, jazz, hindustani, corali ed elettroniche fuse in una magica esperienza extracorporea che riflette sulla fluidità di genere.

Ana Roxanne è nota per la sua miscela di musica jazz, corale, elettronica e Hindustani e per l’esplorazione di tematiche legate all’identità di genere. Lavora nella zona liminale fra elettronica sospesa, dream pop e cantautorato ambient. Le sue ispirazioni abbracciano il sacro (attraverso le tradizioni corali cattoliche con cui è cresciuta e il canto Hindustani classico che ha appreso a Uttarkhand, in India) e il profano (con l’ascolto di dive R&B degli anni ’80 e ’90); il tutto sintetizzato in un linguaggio sonoro unico e intuitivo, allo stesso tempo affascinante e arcano, curativo ed evocativo.

Il suo album di debutto “Because Of A Flower” (Kranky, 2020), composto nel corso di cinque anni, è influenzato dall’identità intersessuale dell’artista, sia a livello sonoro sia tematico. Da spoken word presi in prestito da libri di armonia tonale, a campioni di dialoghi di film fino a riferimenti alle arie per castrati, l’album è una visione interstiziale della musica ambient, un’alchimia di evanescenze e sussurri, estasi e dolore, evocata attraverso un fragile equilibrio di voce, basso, dinamiche e dimensione sonora.

 

Il calendario completo degli eventi sul sito.

Info e prenotazioni: eventiMAO@fondazionetorinomusei.it .

Costo: 15 € intero | 10 € ridotto studenti.

I biglietti sono disponibili presso la biglietteria del museo.

Torino, la linea micaelica e la Sacra di San Michele

Il toro rampante, la Mole Antonelliana e lo stemma della casa Savoia: questi sono forse i simboli più usati per identificare il Piemonte e il suo capoluogo principale. Dal 1994 però l’emblema dell’intera regione è un complesso monumentale situato vicino a Sant’Ambrogio di Torino: la Sacra di San Michele. Si tratta di un edificio religioso fondato intorno all’anno Mille che ha avuto il suo periodo di massima fioritura fra il 1100 e il 1500. Ancora oggi è una delle attrazioni più visitate di tutto il territorio grazie alla sua bellezza e alla sua posizione scenografica. È infatti situato sulla cima del monte Pirchiriano, a ben 960 metri d’altezza. La sua importanza storica e spirituale è principalmente collegata all’ordine dei benedettini e a quello dei padri rosminiani che hanno reso questo luogo una delle tappe più importanti della via Francigena. Dietro a questo complesso monastico è però racchiusa in un’ulteriore tradizione dedicata a una delle figure fondanti della cristianità. A due passi da Torino infatti passa la linea micaelica, una traiettoria immaginaria che unisce ben sette monasteri dall’Irlanda alla Terra Santa. Secondo la leggenda è stata creata da un colpo di spada inferto dal santo durante la lotta contro Satana.

torino linea micaelica san michele I Il Torinese

San Michele e le sue rappresentazioni

Il culto di San Michele Arcangelo infatti è particolarmente sentito in tutta Europa e anche in Israele. Ha infatti una lunga tradizione iconografica che lo rappresenta principalmente come un guerriero munito di spada. Infatti è colui che ha sedato la rivolta degli Angeli e ha contribuito alla Caduta di Lucifero: proprio per questo con il piede schiaccia un drago o un serpente. Allo stesso modo viene anche raffigurato con una bilancia. La tradizione cristiana infatti gli attribuisce anche un ruolo importante durante il Giorno dei Giudizio, ultimo momento in cui si consumerà la lotta fra Bene e Male. A lui spetta il compito di suonare la tromba per la risurrezione delle anime.

Torino linea micaelica vista I Il Torinese

Torino, la linea micaelica nella Città Metropolitana

Il punto più settentrionale si trova in Irlanda a Skellig Michael, un isolotto al largo di Kerry. Poche persone all’anno possono accedere a questo luogo che conserva ancora intatta la bellezza selvaggia e primordiale del monastero. Fondato nel 588, stupisce ancora per il suo eccellente stato di conservazione che lo ha reso patrimonio UNESCO. Successivamente in Inghilterra -precisamente in Cornovaglia- è presente Saint Michael Castle. Il sito più famoso invece è Mont Saint Michel, nel nord della Francia, che attrae miriadi di turisti per la sua baia frequentemente soggetta a maree. In alcuni periodi è possibile raggiungere la chiesa a piedi, in altri è necessario il battello. In Italia ci sono due importanti punti della linea micaelica: il primo è la Sacra San Michele, luogo che ha ispirato parzialmente l’ambientazione de “Il nome della rosa” di Umberto Eco.

Il secondo invece è Monte Sant’Angelo in Puglia. Quest’ultima presenta una delle grotte sacre più suggestive al mondo. In Grecia -a Rodi- c’è invece il monastero ortodosso di San Michele Arcangelo, uno dei punti di maggiore attrazione dell’intera baia di Panormitis. Infine l’ultimo è il monastero di Stella Maris, situato sul Monte Carmelo ad Haifa. Questo complesso è anche anche legato alla vicenda del profeta Elia narrata nell’Antico Testamento.

Leggi anche – Torino magica: i luoghi e le energie della città

Francesca Pozzo

Manomanouche, Gipsy Jazz all’Osteria Rabezzana

Osteria Rabezzana, via San Francesco d’Assisi 23/c, Torino

Mercoledì 22 marzo, ore 21.30

Il progetto Manomanouche nasce nel 2001 dall’incontro di musicisti di differente estrazione, con una consolidata esperienza professionale e con l’intento di far conoscere ad un pubblico più vasto la cultura e la tradizione musicale degli zingari Manouches. Collaborano con il progetto diversi artisti a livello nazionale ed europeo. Nell’arco di soli tre anni Manomanouche diventa una realtà di riferimento nel panorama Gypsy Jazz: un caso unico per la qualità della ricerca, dell’arrangiamento e per la valenza personale ed emotiva che questo progetto ha per i suoi musicisti. La loro intensa attività concertistica li porta ad assumere e consolidare uno stile sempre più personale, ricco di contaminazioni diverse ma senza mai dimenticare l’essenza, lo spirito che li caratterizza e dal quale traggono ispirazione. La proposta artistica dei Manomanouche è quindi caratterizzata da un personale ed originale lavoro di ricerca del suono, degli strumenti e dell’approccio caratteristici dello Swing Manouche. Una musica basata sull’improvvisazione, aperta alle contaminazioni e derivante principalmente dalla fusione dello swing, del folklore tzigano e della melodia italiana. Il progetto Manomanouche propone un repertorio di arrangiamenti di brani del noto chitarrista e compositore Django Reinhardt, alcuni standards, valzer gipsy-musette e diversi brani originali, completamente realizzati con strumenti acustici.

Formazione

Nunzio Barbieri, chitarra

Luca Enipeo, chitarra

Pierre Steeve Jino Touche, contrabbasso

Francesco Django Barbieri, clarinetto

Ora di inizio: 21.30

Ingresso:

15 euro (con calice di vino e dolce) – 10 euro (prezzo riservato a chi cena)

Possibilità di cenare prima del concerto con il menù alla carta

Info e prenotazioni

Web: www.osteriarabezzana.it

Tel: 011.543070 – E-mail: info@osteriarabezzana.it

“Ma tu non ritornerai, mai, mai”

Music Tales, la rubrica musicale 

“Ma tu non ritornerai, mai, mai

Te ne vai (te ne vai), te ne vai (te ne vai), perché?

Tu sei un uomo, un uomo vero, un vero uomo e non ti piegherai, mai

Oh, come ti vorrei, ti vorrei qui con me”

Classe 1940, la signora compie 83 anni quest’anno e canta sempre in maniera impeccabile, perchè una volta, per essere artista, dovevi studiare, dovevi romperti le ossa oltre che l’anima.

Cantante dotata di grinta e passionalità, dal registro vocale di contralto e in grado di spaziare tra vari generi musicali, dalla musica melodica (anche impegnata), passando per la musica pop e le canzoni dedicate ai bambini, nel 1970 è stata definita da Alighiero Noschese come il pollice della canzone italiana, ossia una delle personalità musicali italiane più importanti, insieme a Mina, Ornella Vanoni, Orietta Berti, Patty Pravo e Milva.

Mi perdoni Noschese e pure gli idolatori di Mina ma, per me, Zanicchi la supera di gran lunga.

Soprannominata l’Aquila di Ligonchio, fa parte del quintetto delle grandi voci femminili italiane degli anni sessanta e settanta, con Mina, la tigre di Cremona, Milva, la pantera di Goro, Patty Pravo, la Civetta di Venezia, e Orietta Berti, l’usignolo di Cavriago; si è esibita in alcuni dei più importanti teatri internazionali, come il Madison Square Garden di New York, l’Olympia di Parigi, il Teatro dell’opera di Sydney e il Teatro Colón di Buenos Aires, è entrata nelle classifiche discografiche di svariati paesi e ha tenuto lunghe tournée in quasi tutto il mondo: Stati Uniti d’America, Canada,Australia, Francia, Spagna, Turchia, Argentina, Cile, Brasile, Giappone, Grecia, Unione Sovietica, Bulgaria, Malta, Romania e Cecoslovacchia.

Per lei hanno scritto, tra gli altri, Cristiano Malgioglio, Franco Califano, Paolo Conte, Lucio Battisti, Carla Vistarini, Roberto Vecchioni, Mogol, Umberto Balsamo, Umberto Bindi, Shel Shapiro, Giuni Russo, Donatella Rettore, Zucchero Fornaciari, Pino Donaggio, Mario Rosini, Mariella Nava, Tiziano Ferro, gli Avion Travel e Sal Da Vinci.

Su undici partecipazioni al Festival di Sanremo è riuscita a vincere tre volte (1967, 1969, 1974), diventando la cantante donna ad aver vinto più volte la manifestazione canora.

Nel 1967 Iva Zanicchi si sposa con Tonino Ansoldi, un produttore; dalla loro unione nasce la figlia Michela. Dopo la rottura del matrimonio con il marito, Iva conosce Fausto Pinna, il suo compagno considerato da lei come un marito.

“Noi non litighiamo mai, le uniche litigate vere le facciamo in cucina. Lui è sardo, e per 20 anni mi ha fatto mangiare sardo, ma io sono emiliana. Siamo poi arrivati ad un compromesso: cuciniamo un pò sardo e un pò emiliano” ha detto la Zanicchi a Domenica Live.

In passato, quando girava il mondo per esibirsi, Iva Zanicchi aveva raccolto molti ammiratori, come lei stessa ha raccontato a la Repubblica delle donne, Iva Zanicchi ha ricevuto delle avances da Frank Sinatra che la invitò nella sua suite.

Come lei stessa ha raccontato ha rifiutato la proposta.

Un’altra curiosità risale al 1979, quando Iva Zanicchi ha posato ‘senza veli’ sulla copertina di Playboy. “Bé senza andiamoci piano. Avevo le calze color carne, sopra un paio nere, e una pelliccia che mi copriva. Abile Frontoni, il fotografo: “Dai abbassa un altro pochino”. E pochino alla volta s’è visto il seno“. Ha raccontato la cantante al Corriere della Sera. Iva ha riconosciuto di essersi pentita e ha tentato di acquistare tutte le copie in circolazione.

Una grande Iva, per me troppo sottovalutata.

“Non importa cosa pensano gli “altri” di te! Potrebbero sopravvalutarti o sottovalutarti! Fino a quando non scopriranno il tuo vero valore, il tuo successo dipende principalmente da cosa tu pensi di te stesso e se credi in te stesso. Puoi farcela anche se nessun altro ci crede; ma non ce la farai mai se non credi in te stesso.”

Buon ascolto di un blues italiano egregiamente interpretato

Chiara De Carlo

https://www.youtube.com/watch?v=vWz_PVYbXmo&ab_channel=EmaP

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Decennale dell’orchestra Polledro, secondo concerto della stagione martedì 28 marzo

Presso  il Teatro torinese Vittoria

 

L’Orchestra Polledro prosegue i festeggiamenti per i primi dieci anni di attività 2012-2022 con il secondo concerto della stagione 2022/23.

Martedì 28 marzo prossimo al teatro Vittoria, in via Gramsci 4, alle 20.30 sul podio il maestro Federico Bisio e oboe solista il maestro Carlo Romano, già primo oboe dell’orchestra Nazionale della RAI.

Il programma prevede la Sinfonia in do maggiore di Marianna Martinez, vissuta negli anni 1744-1812, il Concerto per oboe e orchestra in Sol maggiore di Paul Wranitzky, solista il maestro Carlo Romano, e la Sinfonia in re maggiore op. 3 n.1 B 126 di Ignaz Pleyel, direttore il maestro Federico Bisio.

Marianna Martinez, nata a Vienna il 4 maggio 1744, quinta figlia del maestro di cerimonie della nunziatura apostolica, il napoletano Nicolò, crebbe all’interno di una famiglia agiata che conobbe un’ascesa sociale alla corte degli Asburgo. Se a Vienna una donna apparteneva ai ceti alti, era prassi che si dedicasse ai rapporti sociali e a patrocinare le arti. La famiglia Martinez viveva in un edificio nella Michaelerplatz e, come era frequente prima dell’invenzione degli ascensori, i piani dei palazzi corrispondevano alla classe sociale dei loro abitanti.

Questa convenzione sociale consentì a Marianna di avere uno spazio vitale tale da dedicarsi alla musica con impegno e dedizione. Protetta e seguita nei suoi studi dal celebre vicino di casa Pietro Trapassi detto il Metastasio, poeta cesareo, poté vantare tra i suoi insegnanti il giovane Franz Joseph Haydn e, in particolare, l’anziano maestro italiano Nicolò Porpora, insegnante di canto e compositore molto noto. In un attico freddo e umido, viveva un giovane compositore, Joseph Haydn, che stava tentando di intraprendere la carriera di musicista.

Questa felicissima combinazione fece sì che Marianna potesse diventare, in un breve periodo, la donna compositrice più prolifica della città. Divenuta nel 1773 Accademica Filarmonica onoraria della prestigiosa Accademia Filarmonica di Bologna, per la quale scrisse un Dixit Dominus, la Martinez vide consolidato il suo ruolo nel mondo musicale viennese, grazie a un catalogo di opere comprendenti musica sacra, una Messa e un oratorio.

Dei suoi lavori di più ampia scala ricordiamo la Sinfonia in Do maggiore, di straordinaria vivacità, per un organico di oboi e due corni.

Composta in tre movimenti secondo lo schema dell’Ouverture, il primo e quello finale sono contrassegnati come Allegro Spiritoso e Allegro con spirito, incarnando la vivacità e la grazia dell’autrice.

Il manoscritto rivela il rigore dell’autrice e l’orgoglio che ne traeva.

Marianna dimostrò di avere un buon talento per la composizione, quindi iniziò a prendere lezioni con Johann Adolf Hasse e con il compositore della corte imperiale Giuseppe Bonno.

Ricevette un’ottima educazione, di molto superiore a quella che veniva offerta a donne della sua classe sociale.

Era madrelingua italiana e tedesca e, in una lettera autobiografica scritta a Padre Martini, riferiva di avere una buona conoscenza della lingua francese.

Il programma prevede anche il concerto per oboe e Orchestra in Sol maggiore, di Paul Wranitzky, solista il maestro Carlo Romano e la Sinfonia in Re maggiore op.3 n.1 B. 126 di Ignaz Pleyel.

Pleyel nasce a Ruppersthal in Austria, figlio di Martin, maestro di scuola, e studiò musica prima presso il compositore Johann Baptist Vanhal e, a partire dal 1772, fu allievo di Joseph Haydn ad Eisenstadt.

Trasferitosi in Francia dove assunse il nome francese di Ignace, lavorò a partire dal 1797 come editore musicale e a lui si deve la prima edizione dei quartetti per archi del suo maestro Haydn.

In seguito divenne uno dei maggiori e più famosi costruttori di pianoforti francesi del XIX secolo, facendo concorrenza anche ad altri grandi artigiani quali Sebastien Erard.

La Sinfonia in Re maggiore fu composta quando il maestro Haydn era già impegnato nella prima delle sue tre Sinfonie di Parigi.

Pubblicata per la prima volta nello stesso anno, esiste in varie copie manoscritte nelle biblioteche dall’Italia alla Svezia.

A differenza di Haydn che, a partire dalla metà del Settecento, aggiunse i fagotti e poi i flauti agli strumenti orchestrali richiesti per le sue Sinfonie, nella Sinfonia in re maggiore nel 1785, quando il suo maestro Haydn era impegnato nella prima delle tre Sinfonie di Parigi Pleyel rimase fedele alla strumentazione con archi, oboi e corni, che era la forma consolidata sin dalla metà del Settecento.

Fu pubblicata per la prima volta nello stesso anno e esiste in copie manoscritte nelle biblioteche dall’Italia alla Svezia.

A differenza di Haydn che, a partire dalla metà degli anni Settanta del Settecento, aggiunse i fagotti e poi i flauti agli strumenti orchestrali richiesti per le sue Sinfonie, nella Sinfonia in re maggiore e nella maggior parte delle sue Sinfonie Pleyel rimase fedele alla strumentazione standard con archi, oboi e corni che era la forma consolidata sin dalla metà del Settecento.

Questa Sinfonia rivela già una fantasia formale e una perfezione nel trattamento delle tecniche compositive sinfoniche tali da rendere comprensibile la popolarità di cui godono le sue Sinfonie presso il pubblico contemporaneo.

Il primo movimento, Allegro assai, inizia senza un’introduzione lenta; il suo tema principale si sviluppa in due sequenze fino a un possente tutti orchestrale.

Questo tema principale è seguito da due temi sussidiari nella tonalità dominante di La maggiore, il secondo dei quali si espande con un tono in scherzando.

Un ulteriore tutti dell’Orchestra con una reminiscenza del tema principale e una formulazione cadenzale che si dissolve nel piano del primo e del secondo violino, concludono la presentazione del tema nell’esposizione del movimento.

La sezione di sviluppo inizia con un forte all’unisono degli archi e conduce il movimento iniziale del tema principale nelle tonalità più lontane, in discesa cromatica.

Passaggi poco specifici dal punto di vista tematico enfatizzano il processo di modulazione, avventurandosi fino alle regioni di fa maggiore e fa diesis minore, per poi esaurirsi in un esteso pedale sul fa diesis.

La ricapitolazione del tema principale inizia nella tonalità sottodominante di sol maggiore e la sua brusca interruzione da parte di una serie di cadenze per quinte su larga scala porta al ritorno finale della tonalità principale di re maggiore.

Dal punto di vista tematico la ripresa inizia con il secondo tema sussidiario e, nelle misure successive, guida il tema principale nel basso verso un climax dinamico analogo al primo orchestrale.

Il secondo movimento riserva anch’esso delle sorprese con i suoi elementi formali insoliti.

Un tema iniziale di ampio respiro narrativo e una sezione minore carica di emozione sono seguiti da un Allegro 3/8 che ristabilisce la tonalità principale in sol maggiore del tema in scherzando.

Il tema del minuetto (Minuetto, Allegretto) si presenta con una frase iniziale musicale rustica che ricorda un Landler e una conseguente frase che sfuma verso il piano, molto simile al modello di Haydn. Il trio con due violini solisti si contrappone al minuetto nel tono e nel carattere della melodia.

Il tema del finale, Rondò Allegro, ricorda il tema principale del quarto movimento della Sinfonia n. 39 di Mozart. Il tema del ritornello che si sente tre volte nel corso del movimento è contrastato da due episodi.

Il primo ha un tema leggero nella tonalità dominante in la maggiore, il secondo entra con l’incedere emotivo di un episodio minore e poi, nella tonalità parallela in fa maggiore, ritorna al tema leggero del primo episodio.

Il maestro Carlo Romano nasce a Roma nel 1954 e compie gli studi presso il Conservatorio di Santa Cecilia, studiando pianoforte, armonia e diplomandosi in oboe con il massimo dei voti nella prestigiosa scuola di Giuseppe Tommasini.

Il maestro Federico Bisio ha seguito un doppio percorso di studi, sia universitario sia frequentando i corsi di Composizione sperimentale presso il Conservatorio Giuseppe Verdi di Milano.

 

Mara Martellotta

 

Un pretesto di nome Shakespeare

Riccardo III” al Carignano, sino al 26 marzo, per la regia di Kriszta Székely

Sembrano passati secoli, e non soltanto decenni, da quando Vittorio Gassman nell’altro “Riccardo III” proposto dallo Stabile torinese nel 1967 per la regia di Ronconi rimaneva imprigionato tra le sagome lignee di Ceroli e barattava il proprio regno per un cavallo, da quando i responsabili dell’allestimento si rendevano conto a pochI giorni dal debutto d’aver inciuccato le misure e il peso dell’armatura del protagonista ed erano costretti a rivedere la data della prima. Secoli se si confronta lo stesso titolo che abbiamo visto poche sere fa sul palcoscenico del Carignano, ancora lo Stabile di Torino – Teatro Nazionale a produrlo con lo Stabile di Bolzano e con Emilia Romagna Teatro, nell’adattamento di Ármin Szabò-Székely (una riscrittura vera e propria) e per la regia di Kriszta Székely, da un pugno di stagioni artista associata.

La regista, già lo avevamo capito a malincuore con lo sguardo moderno che buttò sullo “Zio Vania” cecoviano, non ha proprio in animo di “rispettare” il tracciato che la storia teatrale ha segnato da sempre, le piace uscirne, saggiare nuovi sentieri e nuovi approdi, l’attualizzazione pare che sia un abito da indossare ogni giorno, senza se e senza ma. Padronissima. Raccontarci delle case di York e di Lancaster e della Guerra delle Due Rose come se fosse un conflitto di oggi, di cui giorno dopo giorno leggiamo nei giornali e vediamo le immagini sanguinose e inimmaginabili sullo schermo di casa, padronissima. Tratteggiare con colori sulfurei la resistibile ascesa di Riccardo, centrare il dramma sulla sua volontà ad essere “malvagio”, il suo disegno condotto tra un sottile ragionamento e una perfida follia al fine di cancellare attorno a sé quanti lo hanno a parole e a gesti appoggiato nella salita al trono, “loro sanno cosa stanno facendo e io mi sono sollevato dalla responsabilità”, facendo piazza pulita di fratelli e nipoti, di cortigiani e di consorti (una corte dove eccellono le prove di Francesco Bolo Rossino, marionettistico Edoardo, Nicola Pannelli che è Stanley, un campione a metà di moralità e giustizia, Elisabetta Mazzullo che è la regina Elisabetta, chiamata a sostituire Richmond nella tirata finale, pronta ad “arricchire l’avvenire con la pace dal volto sereno”, non foss’altro che per dare un nuovo spazio all’altra metà del cielo) – in obbedienza alla protezione e alla committenza di Elisabetta I Shakespeare quasi si sentiva in obbligo di rendere al futuro un ritratto quantomai ingrato del sovrano, casa Tudor doveva farci la sua bella figura se messa a confronto con un simile mostro: e sarebbe ora che la Storia e gli studi, più di quanto non si sia già fatto, prendessero le redini per rendere maggiore giustizia a quelle povere ossa ritrovate una decina di anni fa sotto lo spazio di un parcheggio nella città di Leicester e sepolte prontamente in chiesa -, padronissima.

La sfida (e/o il vezzo) è quella di seguire strade nuove e non appena seduto in poltrona, sbirciando nella scena di Botond Devich che mostra uno chalet di montagna (che è anche, oltre una sala riunioni, forse un luogo di religione e il lungo tavolo l’altare del sacrificio), tra anonime appliques e caminetto, tra televisori che rimandano le breaking news e una vetrata che lascia immaginare uno splendido panorama, tra sacchi di plastica neri che conterranno di lì a poco i tanti cadaveri, uno sopra l’altro, trasportati in scena dalle segrete della Torre dalle braccia robuste del giovane Catesby (Nicola Lorusso), che ha saggiato le dinamiche del potere, che ne è stato usato, che come un cane segue il suo padrone e che sarà l’ultimo ad abbandonarlo, tra spot che illuminano e telecamere che riprendono facce e fatti, con ricostruzioni filmate come di rado si sono viste, sai già cosa aspettarti. Come sai già che trasportati dalle parole del Bardo a quelle di oggi, si dovrà inevitabilmente cambiare musica, si dovranno ascoltare dialoghi dove inciampare in termini come pistola e conferenza stampa, in inflazione, in sciare e piste da sci, in stronzo e merda e vaffanculo, in pc e cellulari; entrerà in scena mamma Cecilia (Manuela Kustermann, con cui si respira una rispettata aria di saggezza e antica teatralità) in tuta rossa e moon boot di ritorno dalle piste, avremo un nudo integrale maschile che è per noi tutti acqua fresca: ma avremo anche Riccardo che lascia scivolar via “l’inverno del nostro scontento è mutato in splendida estate” com se fosse al bar davanti ad un caffè e butta al niente la tragicità del “mio regno per un cavallo” con un isterico zompettio di un bambinetto cui in un segnale di precoce bullismo qualcuno nell’ora di ricreazione ha rubato la merenda.

Se circolano follia e ragionamento, mancano la costruita regalità e la tragicità del sovrano. E se la seduzione s’incolla ancora addosso come una sanguisuga al corpo e alla mente della regina Anna, un brano di teatro che Lisa Lendaro rende al meglio, non mi pare che arrivi a simpatiche zaffate quella stessa seduzione che dovrebbe inebriare l’intero pubblico. Si avverte il “Grande Meccanismo” decifrato da Jan Kott, regge tragicamente bene l’equazione con i tanti dittatorelli di oggi, ma la seduzione sembra essere altra cosa. Sottolinea il responsabile della nuova drammaturgia: “Volevamo far capire che Riccardo non è una creatura rinascimentale di fantasia, che essere malvagio era ed è una questione di scelta, ergo dovremmo guardarci intorno con cautela, perché chiunque potrebbe fare quella scelta, sebbene inizialmente non sia aiutato da titoli nobiliari ed eserciti, ma dalla corruzione, dai media e dalle fake news. I mezzi possono essere cambiati, le intenzioni e le reazioni umane no, e la guerra e la morte sono ancora il risultato finale.” Uno sguardo sulla nuova umanità quindi, dove attorno al malvagio circolano i tradimenti, il sangue, le complicità, le paure, il desiderio che porta ad un comune punto finale.

Tutto questo per cercare di trasmettere la personale convinzione che dell’opera di Shakespeare sia rimasto ben poco. Anzi dimentichiamola. C’è un altro sguardo, un’altra preoccupazione. Se allora il pubblico vorrà pensare, cancellato il tratto della regalità, tabula rasa, ad un capitano d’industria della nostra epoca, ad un cinico signore che non bada ai mezzi e alle misure per raggiungere quella poltrona messa (troppo) in alto, a un politico, certo, ancora lui, che con le armi più strane raggiunge quei fini che si è prefisso, allora la riscrittura firmata da Szabò-Székely è una felicissima quanto intelligente parabola che non poggia tanto sul mantenimento dei nomi originali, Buckingham, Clarence, Rivers, Hastings, ma piuttosto su precisi “paradigmi della tragedia”, universali. Che allargano i limiti di un palazzo e di un regno per raggiungere tempi e spazi ben più ampi. E allora ogni tassello si ricompone con efficacia nel proprio spazio. Ma quel sovrano, no, per luinon c’è più posto. Fermo restando, in onor di onestà, che in locandina è correttamente stampato “da Shakespeare”: e con quel cambio di preposizione abbiamo il preteso per muoverci come vogliamo. Székely è inaspettata: “Non sarò mica io Riccardo III?” Quel capitano d’industria, quel cinico signore, quel politico, quell’io, Paolo Pierobon li rende con la perfezione che gli conosciamo da tempo, cranio rasato e pizzetto e mano sinistra guantata sempre in tasca in esterno, malvagità e calcolo, ferocia e finzione in petto, tratteggiati con grande bravura. Si replica sino a domenica 26 marzo.

Elio Rabbione

Le foto di scena sono di Luigi De Palma

L’isola del libro

Rubrica settimanale a cura di Laura Goria

 

Alice Helliot Dark “Fellowship Point” -NNE- euro 22,00

Questo splendido libro della scrittrice americana (nata a Filadelfia nel 1955) prende il titolo da un promontorio panoramico sulla costa del Maine. Un paradiso che è il buen retiro in cui sorgono le case di campagna delle famiglie discendenti dai primi coloni quaccheri.

La storia è ambientata a inizio anni Duemila e Fellowship è dove trascorrono da sempre le vacanze le due agiate protagoniste della Philadelphia bene: vispe ottantenni, vicine di cottage, amiche da una vita, nonostante le differenze caratteriali e le scelte esistenziali.

Agnes Lee è convintamente single ed eremitica, battagliera, intellettualmente brillante, scrittrice di successo di libri per bambini. Ma sotto pseudonimo è anche autrice di fortunati romanzi che, tra l’ironico e il trasgressivo, raccontano la vita delle ricche ragazze di Filadelfia. E’ insofferente verso gli stereotipi, si veste come le pare e combatte un tumore al seno facendosi forza con il suo cinismo.

La sua amica del cuore è Polly Wister, moglie e madre sottomessa ai doveri familiari, molto più affettiva che cerebrale. Dopo 60 anni di matrimonio e tre figli, all’inizio del romanzo è praticamente sprofondata nel ruolo di badante dell’anziano marito, un pomposo ex professore universitario. Poi le cose cambieranno, anche in modo drastico.

Pur essendo diverse la loro amicizia è di quelle che hanno retto tutta la vita ed ora si alleano per combattere le proposte di speculatori edilizi che vogliono comprare le loro proprietà e costruire un porticciolo turistico che stravolgerebbe del tutto Fellowship Point. Purtroppo non tutti gli altri residenti la pensano come loro, e persino i figli di Polly si schierano contro la madre, attratti dalla prospettiva del guadagno.

La trama alterna capitoli del passato a quelli del presente, ripercorre episodi importanti relativi al passato delle protagoniste.

Ma il romanzo va ben oltre. Perché quando Agnes in biblioteca trova dei documenti sul bisnonno William Lee, di fatto si trasforma in una saga che attraversa due secoli di storia del luogo. All’epoca del suo arrivo come colono si rivelò uomo illuminato e rispettoso degli indiani che vivevano lì dalla notte dei tempi; intendeva includerli nei nuovi insediamenti pacificamente e con pari diritti.

Gli antenati di Agnese e Polly e gli altri primi colonizzatori di questa parte di costa del Maine avevano creato un’Associazione che era un vincolo d’onore per impedire la vendita dei loro insediamenti ai forestieri. Patto che aveva resistito per oltre 150 anni….

Ora quell’accordo sta per saltare di fronte all’avanzare degli speculatori e questo finisce per creare dissapori nella comunità e persino tra Agnes e Polly.

Ma il romanzo abbraccia un orizzonte ben più ampio in cui si amalgamano altri personaggi, come l’editor Maud di cui scopriamo la vita, poi in ordine sparso: affetti, amicizia, editoria, affari, vantaggi ma anche magagne della terza età, e qualche mistero dei tempi passati.

 

 

Rebecca Kauffman “La famiglia Shaw” .BigSur- euro 17,50

L’ultimo romanzo della brillante scrittrice americana Rebecca Kauffman è ambientato nella Virginia rurale tra inizi Novecento e fine anni Cinquanta, e racconta la storia della famiglia Shaw. In scena c’è la complessa rete di rapporti affettivi di 7 tra fratelli e sorelle, cresciuti in una fattoria e accomunati dalla tragedia della morte precoce della madre.

In un alternarsi tra passato e presente la Kaufmann penetra nell’animo dei vari personaggi e porta a galla tutta una serie di incomprensioni, parole dette o taciute, ricordi, nostalgie, incomprensioni, segreti, diverbi e partenze.

Gli Shaw sono la coppia formata da Jim e Marie e i loro figli: Wendy, Sam, Jack, Maeve, Lane, Henry e Bette. Il capofamiglia Jim è profondamento legato alla sua fattoria, contadino gran lavoratore che non si sottrae alla fatica.

Marie combatte da tempo contro la depressione e nel 1933 viene trovata morta nel suo letto; forse suicida, oppure stroncata senza volere da un dosaggio sbagliato dei farmaci. All’epoca i figli sono ancora tutti troppo giovani, e a trovarla esangue è la maggiore Wendy; quella che poi resterà ancorata alla casa, alla famiglia e al padre, senza mai desiderare un futuro diverso e altrove.

Intorno al trauma di questa perdita la Kauffmann orchestra il romanzo che, sullo sfondo della Grande Depressione e della Seconda Guerra Mondiale, ripercorre i differenti modi dei fratelli di far fronte al dolore.

Racconta il loro sentire, i loro rapporti, le motivazioni delle loro scelte future, il loro diventare adulti dopo la morte anche del padre; la crescita e l’evoluzione verso l’età adulta, tra chi resta e chi invece spicca il volo verso altri lidi….tutti in qualche modo scandagliati a fondo nell’anima.

 

Andrea De Carlo “Io, Jack e Dio” -La nave di Teseo” -euro 20,00

E’ una storia di affetto, amicizia, fede, un legame che resiste alla lontananza e allo scivolare del tempo, per cui i due protagonisti non possono fare a meno l’uno dell’altra. Il romanzo è orchestrato intorno a un uomo e una donna che da giovani condividevano le estati dai nonni sulla costa adriatica a Lungamira. Un legame che alternava periodi di frequentazione a quelli della lontananza, durante i quali mantenevano una fitta corrispondenza; lei dall’Italia e lui dall’Inghilterra. Poi si erano allontanati, persi, ed ora si sono ritrovati.

A raccontare in prima persona è Mila, che dopo un black –out di 7 anni rivede Jack. Lei è smarrita, la vita l’ha ferita e si ritrova sola; Jack invece le sue piaghe le ha lenite incontrando la fede.

Ora vive in una comunità di frati che hanno fondato un ordine minore; 8 spiriti puri e radicali che vogliono instaurare un rapporto migliore con Dio.

Jack si era allontanato quando una profonda crisi esistenziale l’aveva portato a rompere i ponti con il resto del mondo, e una ricerca interiore l’aveva condotto su un cammino di fede al seguito di un frate. E quell’affetto per Mila, che poteva diventare storia di passione e amore, resta invece sospeso un passo prima.

Quando i due si rivedono -tra recriminazioni, riconciliazioni e dissertazioni religiose- tra loro ora c’è Dio, con tutto quello che ne consegue.

Ancora una volta De Carlo ci conduce nelle spire dei sentimenti complicati e contraddittori tra un uomo e una donna. Questa volta nelle sue pagine compare anche una ricerca spirituale con infinite riflessioni sulla Bibbia e i Vangeli, alla scoperta di come l’umanità cerchi da sempre di spiegarsi l’universo. Dunque un romanzo tra grande storia di amicizia e d’amore e fede.

 

 

Kavita Bedford “Amici e ombre” -Edizioni e/o- euro 18,00

Questo è il libro di esordio della giornalista e scrittrice indoaustraliana Kavita Bedford che vive e insegna a Sydney, ed è proprio in questa città che ambienta la storia di un gruppo di amici trentenni.

Sono coinquilini e dividono un appartamento a Sydney, ma anche una solida e quasi indefinibile alleanza nell’affrontare quanto la vita riserva loro, e quello che sognano. Sono un gruppo di amici assai diversi tra loro, che decidono di trasferirsi e affittare insieme un appartamento nel centro di Sydney, poi ognuno di loro si avventura all’esterno.

E’ il ritratto della vita urbana di un pool di millenial dall’altra parte del mondo, e alle prese con una realtà diversa da quelle che conosciamo. Si destreggiano tra ambizioni, ricerca di realizzazione e successo, ma anche con i limiti della precarietà in una realtà urbana dal futuro a tratti incerto e periglioso.

Voce narrante e protagonista è quella di una giovane donna che resta anonima, in lutto per la morte del padre, sospesa tra teneri e struggenti ricordi e il presente in cui si fa dolorosa la sua assenza.

Un romanzo breve in cui si racconta la battaglia di un pool di amici tra carriera, appuntamenti, famiglia e ricerca di una loro collocazione sullo scacchiere della vita. Anche un libro che ci apre un potente spiraglio sulla vita australiana che suscita sempre un notevole fascino su noi europei.