CULTURA E SPETTACOLI- Pagina 25

“Ritratti urbani”. In mostra alla “BI-Box Art Space” di Biella

Le opere pittoriche di Beatrice Scaramal e le “foto-reportages” di Damiano Andreotti

Da venerdì 31 gennaio a sabato 1° marzo

Biella

Oltre ogni stereotipo, oltre ogni “cliché”. Ritratti di donne e uomini (sono queste/i, donne e uomini?) che infrangono spazi di vita e palesano il buio. Il buio di un oggi che non osa e fatica a immaginare un domani. Che in più casi trasmette sofferenza e dolorosa rassegnazione. Un buio dove anche i segnali d’aiuto paiono inesorabilmente infrangersi  contro i muri, sempre più alti sempre più invalicabili, dell’indifferenza e della non pietà umana. Dove allo sbaglio sono negati il perdono e il riscatto. Sono trenta i “Ritratti urbani” posti in mostra, da venerdì 31 gennaio a sabato 1° marzo, alla “BI-Box Art Space” di via Italia, a Biella: dipinti in acrilico su tela firmati da Beatrice Scamal e fotografie dal “sapore di reportages” di Damiano Andreotti. Opere che non stanno, pur riconoscendolo, al gioco dei “grandi”, al dèjà vu, alla didascalica ripetizione di passi nel tempo ripetuti, ma che, totalmente in proprio, intendono raccontare, attraverso volti che ti trafiggono, storie di anime, funamboliche giravolte di sogni e speranze destinate spesso a fare i conti – i drammatici conti – con la realtà di spietate disillusioni. E allora, nei ritratti della Scaramal, ecco il colore liberarsi dalle regole scolastiche, farsi pienamente autonomo e aggredire, con gialli improvvisati, turchesi e mai imbarazzanti o provocatori rossi, lineamenti del volto che mantengono la netta e nitida fisicità del segno.

Biellese di origini, ma residente oggi a Torino (dove già nell’ottobre dell’anno appena trascorso aveva esposto i sui “Ritratti” all’“Antro” di San Salvario), Beatrice scopre appieno la sua “chiamata alle arti” durante gli anni del “lockdown” trascorsi a Firenze. Le opere oggi in mostra a Biella  nascono agli inizi del 2024 dai dialoghi tra la pittrice e alcune delle persone ospiti del “Drop In” di via Santa Caterina da Siena ad Alessandria, “porta aperta sulla strada” che accoglie e aiuta adulti e persone in difficoltà. “Ho sempre trovato stimolante – racconta l’artista – confrontarmi con persone provenienti da realtà diverse e lontane dalla mia. Al ‘Drop-In’ ho avuto l’opportunità di parlare con alcuni ragazzi che hanno affrontato situazioni difficili o problematiche legate alle dipendenze. È stata un’esperienza straordinaria e arricchente, alcuni dipinti di questa serie rappresentano le persone che frequentano il ‘Drop-In’, ma anche alcuni amici con cui ho deciso di ampliare il progetto. L’idea ora è quella di raccogliere più esperienze possibili, favorendo lo scambio culturale, abbattendo gli stereotipi e mettendo in luce tematiche che ci uniscono, anche se proveniamo da realtà lontane”. Il grande, prossimo obiettivo: “Raccogliere più testimonianze e storie possibili e raccontarle non solo attraverso la pittura ma anche nelle pagine di un libro”.

Sulla stessa linea dei “Ritratti” di Beatrice Scaramal, unite fra loro da un robusto e suggestivo fil rouge, si leggono i “Volti dal parchetto” del fotografo, anche lui biellese, Damiano Andreotti (dal 2019, nel team di fotografi di “Mondadori Portfolio”), progetto promosso dalle Associazioni di volontariato, cooperative ed enti ecclesiali del “Tavolo Carcere” di Biella, con il Patrocinio della “Garante per i diritti delle persone private della libertà personale” del Comune di Biella. Macchina fotografica a tracolla, quello di Andreotti è un “viaggio – reportage” alla scoperta di storie e di persone. Di volti come specchio di anime e di vite. “Il viaggio del fotografo – sottolinea Andreotti – è parte integrante del suo lavoro: è fondamentale raggiungere i soggetti nei luoghi a loro più familiari, le loro città, le loro case, per metterli a proprio agio; in questo caso il luogo è indicativo della loro condizione, che rende la loro quotidianità fisicamente e psicologicamente lontana dall’ordinario.

Li si estrapola dal contesto per lasciarli soli davanti a un fondo nero; in questo modo gli unici protagonisti dello scatto diventano la faccia, le mani e le storie che portano con sé”. Storie che hanno spesso conosciuto e fatto i conti con l’inferno. Di cui ancora oggi portano impressi nel corpo e nell’anima i larghi segni di brucianti ferite. Mai più, forse, rimarginabili.

Gianni Milani

“Ritratti urbani”

“BI-Box Art Space”, via Italia 38, Biella; tel. 349/7252121 o www.bi-boxartspace.com

Dal 31 gennaio al 1° marzo

Orari: giov. e ven. 15/19,30; sab. 10/12,30 e 15/19,30

 

Nelle foto: alcune immagini pittoriche di Beatrice Scaramal (“Ritratti urbani”) e alcune fotografie (“Volti dal parchetto”) di Damiano Andreotti

L’amore in ogni aspetto della vita, parola di Manuel Giacometti

Love is Key” sino al 30 marzo al Forte di Gavi

Venerdì 14 febbraio, giorno degli innamorati, s’inaugura alle 14,30 al Forte di Gavi “Love is Key – Innamorati al Forte di Gavi” (chissà dove andrà messo l’accento? per un amore già consolidato e per un invito a lasciarsi andare e iniziare una relazione?), mostra organizzata dalle Residenze reali sabaude, una personale dell’artista trevigiano Manuel Giacometti: pressoché cinquantenne, un incontro con i graffiti che gli consente di appassionarsi al mondo dell’arte, un percorso di concorsi e collettive, la scelta di eventi di Street Art nazionali ed esteri. Di lui dicono che “utilizza lo spray su qualsiasi tipo di superficie, realizzando opere dai tratti unici e distintivi che rendono ogni immagine un’esperienza capace di suscitare emozioni profonde nello spettatore.” Un serie di murales, una “sorta di soap opera artistica” vanno a formare, dando efficace vita e comunicabilità a “Love is Key”, un cuore rosso con la scritta bianca ormai riconoscibilissimo, inno ad un amore che è fondamentale in ogni aspetto della vita, forma d’arte che si è estesa anche a tele numerate, a gioielli e sculture.

Protagonisti delle opere di Giacometti sono “un bambino e una bambina che si trasformano in forma, dimensione e posizione”, per l’occasione inseriti all’interno della valorizzazione del territorio e della sua imponente fortezza, un contesto unico e affascinante che accomuna arte, storia ed emozioni. In occasione della mostra, dopo le parole di saluto, verrà inaugurata l’opera di live painting realizzata dall’artista nella struttura del forte e si proseguirà con la consegna del Premio Talento da parte del Lions Club di Gavi, per concludere con la visita guidata dallo stesso Giacometti. La mostra sarà visitabile sino a domenica 30 marzo (per consultazione del calendario, https://shorturl.at/09rlm).

e.rb.

“Una montagna di… segni”. Contest al Forte di Bard

Nell’ambito del progetto transfrontaliero TransiT – Transizione verso il Turismo Culturale Sostenibile, finanziato nel programma Interreg VI-A France – Italia Alcotra per la programmazione 2021-2027, il Forte di Bard organizza il contest internazionale di grafica e illustrazione Una montagna di… segni, rivolto a grafici, illustratori, artisti, designer, valdostani e non, che attraverso tecniche, modalità e approcci artistici molto differenti svilupperanno le loro creazioni su una specifica tematica.

L’iniziativa si articola in una serie di interventi chiave da realizzare in due anni, a ciascuno dei quali è stato designato un tema: I ghiacciai (2025), I pascoli e i pastori di montagna (2026). Il concorso si propone di sensibilizzare l’opinione pubblica sulle problematiche che coinvolgono gli ambienti montani e i ghiacciai attraverso la produzione di arti grafiche, illustrazioni, video e motion graphic, forme di espressione artistica sempre più diffuse nell’arte contemporanea e non usuali rispetto alla tematica ambientale montana. L’iniziativa fa parte di un progetto più ampio dedicato alla conservazione e alla valorizzazione del patrimonio naturale della montagna che si propone di ampliare l’offerta culturale e artistica attraverso mostre, residenze d’artista ed eventi con artisti sia internazionali che italiani da realizzarsi sia a Bard e nei Comuni francesi partner di Aussois e Avrieux.
Tutte le 45 opere finaliste (39 dell’Open Call e 6 della sezione master) saranno pubblicate in un catalogo cartaceo e confluiranno in una mostra allestita al Forte di Bard nel periodo luglio-settembre 2025.

Il progetto è realizzato con la collaborazione tecnica di Alina Art Foundation, fondazione olandese al sostegno degli artisti e l’Associazione Inarttendu, spazio d’arte contemporanea con sede ad Aosta.
Le adesioni dovranno pervenire entro venerdì 4 aprile 2025.

La bellezza è imperfetta per Dante Ferretti. Al Circolo dei Lettori

Il  libro dedicato al suo grande maestro Pier Paolo Pasolini: presentazione mercoledì 12 febbraio 

Mercoledì 12 febbraio, alle ore 18.30, presso il Circolo dei Lettori di via Bogino 9, a Torino, verrà presentato il libro dedicato a Pier Paolo Pasolini “Bellezza imperfetta-Io e Pasolini” (Edizioni Pendragon), scritto da Dante Ferretti, il più noto scenografo italiano nel mondo e che ha lavorato con i più importanti registi del cinema, da Fellini a Scorsese, vincendo tre Premi Oscar. Il suo primo maestro fu Pier Paolo Pasolini, con il quale lavorò per 11 anni, tra il 1964 e il 1975, realizzando otto film, tra cui “Il Vangelo secondo Matteo”, “Uccellacci e uccellini”, “Medea”, “Salò o le 120 giornate di Sodoma”.

“Il Vangelo secondo Matteo” fu terminato il 2 novembre 1975, quando il cadavere martoriato del grande poeta e intellettuale fu trovato all’idroscalo di Ostia. Ripercorrendo il lungo tratto di carriera che ha condiviso con Pasolini, Ferretti mostra anche gli straordinari bozzetti delle scenografie che hanno dato forma all’immaginario filmico pasoliniano, confrontandoli con i fotogrammi degli stessi film. Con questo volume ci consegna un ritratto scanzonato e crepuscolare di un uomo che aveva lo straordinario dono di capire il suo tempo, insieme al sapore di un’epoca irripetibile del cinema italiano e internazionale. Davanti ai nostri occhi sfilano Federico Fellini, Elio Petri, Maria Callas, Martin Scorsese, Tim Burton e tanti altri. Le pagine del libro rivelano il volto inedito di un artista immenso, capace sul set e nella vita di investire le persone che gli erano accanto di un’energia umana e intellettuale tanto potente da cambiarle per sempre.

Mara Martellotta

Mondi… dell’altro mondo in mostra a “Palazzo Mazzetti” di Asti

Le opere del grande olandese Maurits Cornelis Escher, l’artista delle geometrie e dei mondi impossibili

Fino all’11 maggio 2025

Asti

Mondi e figure impossibili. A osservarle è, subito, “shock visivo”, da cui uscire indenni solo superando il concetto puramente artistico di immagini uniche, frutto di aliene visionarietà, per imbrigliare e tenere ben strette le corde di quell’“impossibile” su cui trovano modo di esistere “invenzioni fantasiose e paradossi magici, dal forte rigore scientifico”, architetture e cruciverba filosofico-matematici su cui sarà bene, ma non facile, riflettere “coniugando l’arte con l’universo infinito dei numeri, la scienza con la natura, la realtà con l’immaginazione”. Artista indubbiamente geniale, incisore e grafico fra i più interessanti e singolari del Novecento, all’olandese Maurits Cornelis (Mauk) Escher (Leeuwarden, 1898 – Laren, 1972), il settecentesco “Palazzo Mazzetti” (sede del “Museo Civico” dal 1940) di Asti, dedica una corposa retrospettiva in cui ben si riflettono i caratteri di un “fare arte”  (incisioni su legno, soprattutto, litografie e “mezzetinte”) che hanno reso Escher artista iconico per gli amanti dell’arte, ma anche per scienziati, matematici e fisici, fortemente attratti da quelle sue “tassellature” del piano e dello spazio e da quelle “distorsioni geometriche” e “poliedriche” appartenenti, in egual misura, a un ragionare scientifico e, insieme, artistico.

 “Mi sento spesso più vicino ai matematici che ai miei colleghi artisti”, affermava del resto lo stesso Escher, aggiungendo ironicamente: “Non una volta mi diedero a scuola una sufficienza in matematica … La cosa buffa è che, a quanto pare, io utilizzo teorie matematiche senza saperlo”. Sarà! Ma nella magia di “Relatività”, litografia del ’53, tutto sarebbe buio assoluto in quell’incessante saliscendi di figure umane – imprigionate in un interno fantascientifico – e molto simili a dannati e affaticati peccatori inseriti in un dantesco (non ben precisato) girone infernale, se l’occhio non riuscisse a fondere l’“unitarietà” del mondo architettonico ed umano rappresentato, con la percezione di più mondi distinti, rappresentati dall’artista a sfida della “concettualità” da secoli “sedimentata nella psiche umana”.

Ad Asti, attraverso l’esposizione di oltre 100 opere, approfondimenti didattici, video e “sale immersive”, la mostra, realizzata dalla “Fondazione Asti Musei” e curata da Federico Giudiceandrea, racconta l’intero percorso artistico di Escher, dagli inizi – sotto la guida magistrale del grafico Samuel Jessurum de Mesquita – ai viaggi in Italia (tantissimi e fondamentali, a cavallo delle due guerre, così come lo studio dell’“Alhambra” a Granada e di quelle sue “piastrellature moresche”, fascinose e capaci di composizioni moltiplicabili all’infinito), fino alle varie tecniche artistiche che lo videro impegnato per tutta la vita e che lo hanno reso un artista dalla cifra stilistica davvero unica e inconfondibile.

Tra tassellature, metamorfosi, strutture spaziali e geometriche fino alle opere che dagli anni ’50 ne hanno accresciuto la popolarità tanto da poter parlare oggi di una vera e propria “Eschermania” (con rimbalzi ispirativi che saltellano dal cinema alla fumettistica, dalla letteratura alla musica, con cover che vanno da “Le Cosmicomiche” di Calvino alla celebre “On the Run” dei Pink Floyd) in mostra vengono presentati i lavori più noti dell’artista olandese come “Mano con sfera riflettente” (1935, dove l’artista ricorre all’aiuto di specchi convessi per raddoppiare la “realtà ambigua e illusoria” del dipinto con “autoritratto”), “Vincolo d’unione” (1956, con volti nascosti o pronti ad unirsi fra ingombranti e bizzarre “bucce” serpentine), “Metamorfosi II” (1939, in cui la parola “metamorphose” si trasfigura in figure geometriche, api, insetti e perfino in una scacchiera, per poi ritornare al punto di partenza) e quel mirabile “Giorno e Notte” (1938, dove una “tassellazione bidimensionale” raffigurante anatre bianche e nere in volo“degenera in una fantastica visione dall’alto dei campi coltivati olandesi”). Paradossi visionari, irripetibili e straordinari “di un artista – commenta Antonio Lepore, presidente della ‘Fondazione Asti Musei’ – che ha saputo esplorare con la propria genialità e con il supporto esclusivamente della propria maestria grafica e delle proprie competenze matematiche quegli universi impossibili che oggi appaiono più vicini grazie agli algoritmi e all‘intelligenza artificiale, icone ammalianti delle infinite possibilità di interazione tra arte e scienza”.

Gianni Milani

“ESCHER”

Palazzo Mazzetti, corso Vittorio Alfieri 357, Asti; tel. 0141/530403 o www.museidiasti.com

Fino all’11 maggio 2025

Orari: lun. – dom. 10/19

Nelle foto: Mauritis Cornelis Escher “Relatività”, litografia, 1953; “Mano con sfera riflettente”, litografia, 1935; “Vincolo d’unione”, litografia, 1956; “Giorno e notte”, xilografia, 1938

Giulia di Barolo, la progressista della beneficenza e della compassione

Una straordinaria figura del nostro ‘800

Nata nel 1786 a Maulevrièr, in Francia, Juliette Françoise Victurnie Colbert discendente di una importante famiglia che aveva visto il padre Ministro delle Finanze del Re Luigi XIV, in seguito alla Rivoluzione Francese, dopo aver perso beni e parenti, si trasferi’ in Germania e in Olanda. Nel 1804, quando Napoleone Bonaparte si incorono’ imperatore dei francesi, Jiuliette, tornata in patria, divenne una delle dame di compagnia dell’imperatrice ed e’ proprio in questo rinnovato contesto che conobbe il suo futuro marito: il marchese Carlo Tancredi Falletti di Barolo appartenente ad una delle più importanti famiglie aristocratiche del Piemonte. Nonostante fu un matrimonio combinato, come si usava ai tempi, la loro unione si trasformo’ in un sodalizio molto forte dovuto sia alle loro affinita’ d’interessi, di cultura e ad una spiccata sensibilita’ per le questioni sociali, ma anche alla reciproca compensazione caratteriale, “più ardente, generosa e volitiva, intransigente nelle idee per temperamento e tradizione” lei ,” meno espansivo, più liberale e facilmente remissivo, ma non meno ricco di sentimento e di bontàlui.

Dopo il matrimonio si stabilirono nella Torino dei Savoia, ma anche di Cavour e di D’Azeglio, a Palazzo Barolo in via delle Orfane, dove iniziarono le loro attivita’ benefiche in una citta’ che soffriva molto di poverta’, vagabondaggio, criminalita’ e dove le carceri affollate versavano in terribili condizioni di igiene e invibilita’. Tutto comincio’ durante una passeggiata domenicale quando Jiuliette, oramai Giulia, incrocio’ una processione che portava il viatico ad un carcerato che ribellandosi disse che non voleva conforto, ma piuttosto del cibo. Giulia volle subito visitare le carceri, quelle maschili prima, le femminili dopo, che trovo’ in uno stato disumano. Questo terribile scenario la convinse subito a voler fare qualcosa e chiese al Re di poter insegnare loro a leggere e il catechismo, ma soprattutto di restituirgli una dignita’ oramai persa. Ci riusci’ e cosi’ comincio’ il suo percorso di supporto alle carcerate che divento’ un vero e proprio impegno istituzionale quando divento’ sovraintendente delle prigioni di Torino. Come prima cosa fece trasferire le “forzate” nelle Torri Palatine, un luogo piu’ luninoso e salutare, ma la cosa piu’ importante, per cui mise tutto il suo impegno, fu la riforma per le carceri piemontesi che si ispirava a quelle inglesi e danesi. Riusci’ a far commutare le pene in lavoro, accorcio’ i processi e trasformo’ le leggi discutendone prima con le detenute. Nacquero cosi’ dei “refugium peccatorum” dove si poteva lavorare, guadagnare, ma sopra ogni cosa era possibile essere reinserite all’interno della societa’. Dopo questi epocali cambiamenti che impattarono sul tessuto sociale i coniugi di Barolo crearono scuole e asili nido che affidarono alle suore di Sant’Anna, ma anche orfanotrofi, dove passava a dare la sua benedizione anche Don Bosco che collaboro’ molto con Giulia, e l’Ospedaletto per i bambini disabili. Per essere sicura che il suo impegno si protraesse anche quando non ci fosse stata piu’ istitui’ l’Opera Pia Barolo e fece costruire la chiesa di Santa Giulia, nel quartiere Vanchiglia, dove riposa dal 1899. Le sue iniziative, le sue idee, i progetti, ma anche i suoi pensieri sono raccolti in un diario da cui si evince la personalita’ di Giulia di Barolo, una donna straordinaria, romantica, generosa, una eroina di tutti i tempi.

E’ possibile rivivere la storia dei marchesi di Barolo visitando il Palazzo omonimo a Torino che fu il piu’ famoso salotto del Risorgimento di Torino e dove venne ospitato Silvio Pellico.

MARIA LA BARBERA

“The Brutalist”, un lungo percorso per un grande attore

PIANETA CINEMA a cura di Elio Rabbione

Làszlò Tòth non è mai esistito, non ha mai fatto parte della Storia. Brady Corbet – una delle voci autoriali del mondo del cinema più tenute d’occhio, un passato d’attore che collabora con registi del calibro di Michael Haneke e Lars von Trier, di Ruben Östlund e Olivier Assayas e Noah Baumbach, e che passa nel 2015 con “L’infanzia del capo” dietro la macchina da presa – ne ha fatto un personaggio inserito nel turbinio delle vicende tragiche, private e pubbliche, e quelle legate all’architettura, del Novecento, una “immagine”, con una sceneggiatura, firmata con la moglie Mona Fastvold, ricavando (anche) momenti e pagine dalla “Fonte meravigliosa” di Ayn Rand – ne trasse il film omonimo King Vidor nel ’49, Gary Cooper protagonista che adombrava Frank Lloyd Wright – e dalle figure degli architetti legati alla corrente del Brutalismo, non ultimo Marcel Breuer, che metteva le radici nel Bauhaus (l’abitazione del regista Erwin Piscator a Berlino), che guardava agli edifici e agli arredamenti d’ambiente, autore in seguito dell’Università del Massachusetts e del Whitney Museum di New York, più volte collaboratore di Gropius: corrente nata in Inghilterra nel ’54 con al centro il “cemento a vista” (“béton brut”) di Le Corbusier, una architettura che, nel far posto, al di là dell’estetica, più spesso alla rudezza dei materiali impiegati, ha la volontà di “stabilire dei rapporti emozionanti”. Ha dato vita a “The Brutalist”, Brady Corbet, già vincitore a Venezia del Leone d’argento-Premio speciale per la regia e per ora opzionato con dieci candidature ai prossimi Oscar.

Làszlò Tòth, ebreo ungherese – in una lunghissima storia di tre ore e 35 minuti, suddivisa in due capitoli e un epilogo -, ha potuto abbandonare le morti e la disperazione di Buchenwald, è stato separato dalla moglie Erzsébet, ha potuto raggiungere Filadelfia (il suo primo sguardo sugli States è una Statua della Libertà capovolta e gli appelli di Ellis Island) e trovare ospitalità nella casa di un cugino che sta costruendo una illuminata fortuna. Riescono entrambi a trovare l’occasione giusta quando inaspettatamente arriva il rampollo Van Buren a esprimere il desiderio che siano loro a dare una nuova veste allo studiolo del padre Harrison, nella casa di famiglia. Il padre è assente, e il ragazzo con la sorella vuole preparare per lui una sorpresa. Non sarà ben accetta, la nuova luce e le librerie a scomparsa al ritorno non avranno il successo sperato, con urla e la negazione del pattuito e la cacciata dall’Eden. Il nuovo approccio con l’american dream s’oscura ancor più con menzogne e avvilimenti quando Audrey, la moglie cattolica del padrone di casa, lo convince d’essere stata insidiata da Tòth.

Ma Harrison ha avuto modo nel giro di pochi anni di rivedere le proprie posizioni, il suo studiolo è stato il punto d’interesse della buona e ricca società e ha conosciuto meglio il passato di un uomo che oggi vive in un dormitorio e spala carbone per sopravvivere. C’è un nuovo e inaspettato incarico per lui, la costruzione sulla collina di un centro che raggruppi differenti ambienti, per quanti vorranno servirsene, dedicato alla memoria della madre scomparsa. Incessante, torrentizia, frammentata di sottostorie, serpeggiante di piccoli personaggi, di contorno che non hanno sviluppo, e momenti e anfratti narrativi che non poche volte la ostacolano, di dialoghi che spesso faticano a cercare un chiaro svolgimento e una foce – tra l’artista e il mentore, soprattutto -, cenni non sempre chiariti, la sceneggiatura si fa faticosa e affaticata, certo all’interno di una grandiosità di pensiero, di costruzione e di realizzazione che non oscura affatto l’impresa possente di Corbet. Credo che la troppa carne al fuoco abbia nuociuto alla concretezza dell’idea e splendore del racconto, innegabili: lo si vede soprattutto nella seconda parte, dal titolo “Il nocciolo duro della bellezza”, con il ritorno di Erzsébet e della nipote rimasta orfana e ammutolita, con le interruzioni del lavoro, con le traversie progettuali dove qualcuno tenta d’inserirsi con brutali correzioni e con quelle di coppia che non calmano gli animi e non li rasserenano, con la piaga della droga di cui Làszlò cade vittima, della ricerca del marmo di Carrara per la monumentalità di un altare, che fa correre in Italia l’artista ormai non più considerato dal mecenate “una compagnia intellettualmente stimolante” ma una vittima ad intermittenza di parole e comportamenti xenofobi (“tu qui sei soltanto tollerato”, aggiungerà il giovane Van Buren), brutalizzata sessualmente tra la notte delle cave.

C’è tutto questo e moltissimo altro ancora nello riempimento forzato della storia, sino alla celebrazione dell’artista malato che è al centro della Biennale del 1980, dove riecheggia ancora quella sua frase secondo la quale “conta la destinazione, non il viaggio”. Grandioso e opulento già in quella decisione di voler girare – il direttore della fotografia è un oscarizzabile Lol Crawley, al suo terzo appuntamento con Corbet – in VistaVision, 70 mm, che non si vedeva più da “I due volti della vendetta” per la regia di Marlon Brando, prova a tratti geniale ma altresì pronta a cadere e ad arenarsi, scivolosa e colpevole d’inciampo, pure vecchio cinema americano che s’inchina al piacere di raccontare, portatrice di lotta tra l’arte e la sottomissione di un “capitale” corrotto. Corbet aggiunge immagini a immagini, riesce a mostrarci in eccesso i palazzi veneziani confrontati con la ruvidità proposta da Tòth (le differenze vanno sottolineate, va bene, ma una guida turistica mi pare eccessiva). Sopra ogni cosa il talento indiscusso di Adrien Brody, già Oscar per “Il pianista” quando non era che ventinovenne, mansueto e rivoltoso, febbricitante ed eroe dei propri spazi, rivoluzionario, indistruttibile, amoroso e caustico, pronto a tenere in mano la sua seconda statuetta, sono pronto a credere con buona pace del pur bravissimo e giovane Chalamet. Senza dimenticare, in un film di simile portata e invenzione, l’apporto più che significativo – vero capolavoro, questo – della sezione scenografica, dovuta al genio di Judy Becker e Patricia Cuccia, appassionate, incredibili collaboratrici.

Ritorna al Teatro Carignano Valerio Binasco con i suoi “Sei Personaggi in cerca d’autore”

 

Al Teatro  Carignano martedì 11 febbraio, alle ore 19.30, tornerà in scena la pièce “Sei personaggi in cerca d’autore”, per la regia e l’interpretazione di Valerio Binasco., insieme a una compagine di valenti attori tra cui Jurij Ferrini.

Lo spettacolo, prodotto dal teatro Stabile  di Torino, Teatro Nazionale, verrà replicato  al teatro Carignano fino al 23 febbraio prossimo e poi rappresentato in tournée fino al 17 aprile 2025.

Il debutto dei “Sei personaggi in cerca d’autore” fu piuttosto travagliato. Avvenne al teatro Valle di Roma il 9 maggio del 1921. La iniziale accoglienza polemica di pubblico e di critica ha lasciato spazio a un successo internazionale ancora oggi immutato  e meritato. Dopo “Il piacere dell’onestà “ Valerio Binasco torna ad affrontare uno dei capolavori di Luigi Pirandello, il testo che meglio di ogni altro ha saputo contrapporre le contraddizioni della scena, del teatro e della vita,  l’incontro-scontro tra parole e regia, interpretazione e vita reale. 

Nella storia di questa famiglia spezzata Binasco ritrova gli elementi che caratterizzano la propria poetica; arte e vita, umanità e maschere si fondono in un nucleo di interrogativi e riflessioni sul valore della rappresentazione e della nostra identità.

Nelle sue regie più recenti Binasco ha evidenziato la dissoluzione della famiglia e le implicazioni che questo fallimento riflette sulla struttura sociale, mettendo in relazione la tradizione nordica dell’ultimo secolo ( Strindberg, Fosse), con la drammaturgia del Premio Nobel siciliano.

Con questa vicenda, apparentemente scontata, di una famiglia dilaniata, Binasco intercetta i fili sottili e fragili che reggono i rapporti umani,  rimandando alla vera sostanza dell’essere umano, e così  a quella dell’attore che, da millenni, cerca di rappresentare la essenza più intima della collettività. 

Arte e vita,  essere umano e attore sono gli elementi al centro di una crisi d’identità che li attanaglia, messi in crisi da una società  e da un’industria culturale sempre più legata al denaro. Quello di Pirandello era un  mondo piccolo borghese, che sposa molte delle ambientazioni registiche di Valerio Binasco, direttore del teatro Stabile di Torino. Siamo di fronte ad un testo che ha segnato in Italia l’inizio del teatro contemporaneo e che continua a mantenere intatto il confitto tra sostanza e ruolo sociale.

Biglietteria, teatro Carignano, piazza Carignano 6.

TTel0115169555 e mail biglietteria@teatrostabiletorino.it

Mara Martellotta 

Torino e l’Età dell’Innocenza: La Scomparsa delle Farfalle

Torino tra le righe

Torino è una città che ha ispirato numerosi autori, e tra questi spicca Fabio Geda, scrittore ed educatore torinese che, con il suo romanzo La scomparsa delle farfalle (Einaudi, 2023), ci riporta a un’epoca di crescita e trasformazioni, tra amicizie profonde e il passaggio dall’adolescenza all’età adulta.
Fabio Geda, nato a Torino nel 1972, ha lavorato per anni nei servizi sociali, un’esperienza che ha profondamente influenzato la sua narrativa. Il suo esordio letterario avviene nel 2007 con Per il resto del viaggio ho sparato agli indiani, che racconta di un ragazzino rumeno che attraversa l’Europa alla ricerca del nonno, artista di strada, e del padre, carcerato in Romania. Tradotto in francese, tedesco e rumeno, il libro ha riscosso grande successo ed è stato selezionato per la fase finale del Premio Strega, venendo giudicato come Miglior Esordio dalla redazione di Radio Tre Fahrenheit. A seguire, il grande successo di Nel mare ci sono i coccodrilli (2010), la vera storia di Enaiatollah Akbari, giovane fuggito dall’Afghanistan. Con oltre 400.000 copie vendute in Italia e traduzioni in 28 paesi, questo libro ha portato Geda alla notorietà, permettendogli di proseguire un percorso letterario incentrato sulle tematiche dell’infanzia, dell’adolescenza e dell’identità.
Sempre di giovani sfortunati parla La bellezza nonostante (Transeuropa, 2011), con un audioracconto su un maestro che ha insegnato per trent’anni al carcere minorile “Ferrante Aporti” di Torino, cercando di portare, dietro quelle sbarre, non solo cultura ma anche speranza. Sempre nel 2011, con L’estate alla fine del secolo, Geda affianca al tema dell’infanzia quello della vecchiaia, dell’incontro intergenerazionale e della memoria.
Seguono nel 2014 Se la vita che salvi è la tuaItadakimasuBerlin – un progetto a quattro mani con Marco Magnone, composto da sei libri pubblicati con cadenza semestrale. Nel 2017 esce il romanzo Anime scalze, nel 2019 Una domenica, nel 2020 Storia di un figlio, il seguito di Nel mare ci sono i coccodrilli. Nel 2024 pubblica Song of Myself, un viaggio nella varianza di genere, un reportage narrativo nato dalla collaborazione con l’ambulatorio sulla varianza di genere dell’ospedale infantile Regina Margherita di Torino.
La scomparsa delle farfalle è un romanzo che parla di amicizia, memoria e cambiamento. La storia segue quattro amici – Andrea, Valerio, Cora e Anna – dai quindici ai ventidue anni nella Torino degli anni Novanta. Un racconto che si sviluppa su due piani temporali: il presente, nel 2002, in cui Andrea si trova coinvolto in un’alluvione e rischia la vita, e il passato, a partire dal 1995, anno in cui si trasferisce a Torino e incontra i suoi inseparabili compagni di viaggio.
Il libro è un viaggio nelle emozioni e nelle esperienze che segnano la crescita: il dolore di Cora per la perdita del fratello, le difficoltà di Anna con un padre autoritario, la vita quotidiana di Valerio tra le mura della trattoria della madre e il senso di incompletezza di Andrea, legato all’assenza del padre. La loro amicizia è scandita da momenti di avventura e di scoperta, tra cui una notte trascorsa in una serra piena di farfalle, un’esperienza che resterà impressa nei loro cuori.
Fabio Geda riesce a creare un’atmosfera che avvolge il lettore, riportandolo agli anni dell’adolescenza, ai sogni, alle paure e a quel senso di appartenenza che solo certe amicizie riescono a dare. Il romanzo ci pone una domanda essenziale: cosa succede all’amicizia quando si cresce? I legami resistono, si trasformano o svaniscono nel tempo?
Personalmente, La scomparsa delle farfalle mi ha colpito profondamente. Leggendolo, mi sono ritrovata catapultata negli anni del liceo, tra le risate, le incertezze e quella sensazione di libertà mista a insicurezza che caratterizza l’adolescenza. Ho sentito una connessione con Andrea e i suoi amici, con il loro desiderio di esplorare il mondo e al tempo stesso di restare legati a ciò che conoscevano. È un libro che lascia il segno, che fa riflettere su quanto siano preziosi i ricordi e su come le persone che abbiamo amato continuino a vivere dentro di noi, anche quando le strade si separano.
Con una narrazione intensa e coinvolgente, La scomparsa delle farfalle è un libro che emoziona, che ci fa riflettere sul valore dei ricordi e sul modo in cui le esperienze del passato ci plasmano. Torino, con le sue strade, le sue scuole e i suoi angoli nascosti, è lo sfondo perfetto per questa storia di crescita e cambiamento, confermandosi ancora una volta una città letteraria per eccellenza.
Marzia Estini
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‘L’uomo più crudele del mondo’ alle Fonderie Teatrali Limone

Andrà in scena dall’11 al 16 febbraio prossimi presso le Fonderie Teatrali Limone di Moncalieri la pièce “L’uomo più crudele del mondo”, portata in scena da Lino Guanciale e Francesco Montanari.

Lino Guanciale, il cinico medico legale ne “L’allieva”, l’avvocato Guido Corsi nella serie televisiva “Che Dio ci aiuti”, il commissario Ricciardi e, di recente, anche interprete del brigante Luigi Vampa ne ‘Il conte di Montecristo’, è il protagonista de “L’uomo più crudele del mondo”, una produzione scritta e diretta da Davide Sacco. La pièce indaga in profondità le complessità dell’animo umano. A firmare le scene è Luigi Sacco, mentre la produzione coinvolge la Fondazione Teatro dI Napoli- Teatro Bellini e il teatro Manini di Narni.

La storia ha luogo in un capannone abbandonato dove Paolo Veres, interpretato da Lino Guanciale , a capo della maggiore azienda europea di armi, accetta di essere intervistato da un giornalista.

Veres, conosciuto da tutti “come il più crudele al mondo” si rivela una figura enigmatica e complessa. L’intervista si trasforma in un duello verbale serrato, in cui i confini tra vittima e carnefici si fanno via via più sfumati.

Il ritmo narrativo risulta incalzante, l’imprenditore pare voglia mettere a nudo il male che abita nel giornalista. Si giungerà ad una climax, contraddistinto da dialoghi taglienti, in cui solo l’ultima battuta dello spettacolo darà un significato al tutto.

E il tutto è rappresentato da un viaggio emotivo che esplora temi universali come il passato, il potere e il senso di responsabilità.

Date dall’11 al 16 febbraio 2025

Orari da martedì a venerdì ore 20.45

Sabato ore 19.30

Domenica ore 16

Fonderie Teatrali Limone via Pastrengo 88 Moncalieri.

Mara Martellotta