CULTURA E SPETTACOLI- Pagina 104

Il ciliegio e il bambù

Un romanzo di Antonio Daniele De Giorgi edito da Paola Caramella editrice

 

Un ingegnere scrittore. È il caso di Antonio Daniele De Giorgi, laureato in ingegneria nucleare, che ha da sempre coltivato l’hobby della scrittura, divenuto più continuativo a partire dalla metà degli anni Novanta. Nel maggio 2016 veniva pubblicato, dopo anni di collaborazioni giornalistiche, il suo primo libro “Racconti delle stelle”, cui ha fatto seguito un secondo libro intitolato ‘Francis mon amour’ e poi ‘Pancrazia’.

La sua ultima fatica letteraria, che potrebbe considerarsi un po’ un romanzo di formazione, si intitola “Il ciliegio e il bambù”, edito da Paola Caramella Editrice . Protagonista un uomo in carriera, un trentacinquenne, che nel momento in cui si mette in discussione sfugge ad una morte sicura. Accanto a lui compare un misterioso personaggio che, facendo irruzione nella sua vita, diventa uno scomodo compagno, imponendo per il salvataggio il pagamento di un pegno non indifferente.

Nel romanzo il protagonista fa i conti con il suo passato, richiama alla memoria episodi dimenticati o che avrebbe preferito seppellire del tutto, esamina i propri comportamenti e decide di cambiare il proprio atteggiamento mentale, fatto che lo porta ad accettare situazioni che mai avrebbe creduto possibili.

Abbandonato l’egoismo che lo contraddistingueva, scopre un mondo lontano da quello suo abituale , un mondo fatto di altruismo, di umiltà. Matura nuove conoscenze, come quella di una giovane antropologa torinese che diventerà un suo punto di riferimento.

Un cambiamento di vita, quello del protagonista, che fa riflettere il lettore e magari gli pone delle domande sulla sua stessa esistenza.

 

Mara Martellotta

A Chieri l’orchestra da Camera Polledro

Venerdì 25 ottobre, alle ore 21, presso l’Auditorium Leo Chiosso (ex sala Conceria) si esibirà l’orchestra da Camera Giovanni Battista Polledro, diretta dal maestro Federico Bisio nel programma “Il respiro della musica edizione seconda. Tosca e Carmen, due vite d’amore nel centenario pucciniano”.

Da Amilcare Ponchielli verrà eseguita la Danza delle ore da La Gioconda, trascrizione per ensemble di fiati di Tarkmann, da Giacomo Puccini una Tosca Fantasy, elaborazione di flauti di Mangani e di Georges Bizet la Carmen Suite, trascrizione per ensemble di flauti di Tarkmann.

Carmen è un’opera comique di Georges Bizet composta da quattro atti, definiti quadri dal compositore, su libretto di Henri Meilhanc e Ludovic Halevy. Tratta dalla novella omonima di Prosper Mérimée (1845), alla quale i librettisti apportarono delle varianti salienti, tra cui l’introduzione del personaggio di Micaela, diedero maggiore risalto alla figura di Escamillo e apportarono modifiche al carattere di don José. Bizet collaborò lui stesso al libretto, partecipando alla stasera della celebre habanera ” L’amour est un oiuseau rebelle”.

La prima rappresentazione avvenne all’Opera Comique di Parigi il 3 marzo 1875, inizialmente l’opera non riscosse molto successo, cosicché Bizet, morto appena tre mesi dopo la prima, non poté assaporarne la fortuna. L’opera irruppe nella seconda metà del XIX secolo come un lavoro innovativo , ma al tempo stesso riassuntivo di molti aspetti della tradizione operistica e ad essa compete il riconoscimento di capolavoro assoluto”.

Dal 1880 è stata una delle opere più eseguite ed è un classico del repertorio operistico, tanto da apparire al terzo posto sulla lista di Operabase delle opere più rappresentate al mondo.

 

Mara Martellotta

TFF: Mazzantini, Torre e Cescon alla guida delle giurie 

 

 

Saranno Margaret MazzantiniRoberta Torre e Michela Cescon a presiedere le tre giurie dei concorsi della nuova edizione del Torino Film Festival, rispettivamente, Lungometraggi, Documentari e Cortometraggi. Ad annunciarlo, insieme all’elenco di tutti gli altri prestigiosi giurati, è il Direttore Giulio Base.

I componenti delle tre giurie, ognuno con la propria competenza e autorevolezza, ben rappresentano il panorama culturale e cinematografico italiano e internazionale, con uno sguardo attento alle tradizioni della settima arte e al contempo aperto ai suoi nuovi linguaggi e declinazioni.

La giuria del Concorso Lungometraggi è composta dalla presidente Margaret Mazzantini, scrittrice, drammaturga e sceneggiatrice, vincitrice per le sue opere dei più prestigiosi premi letterari, come il Premio Strega per Non ti muovere, il Premio Campiello per Venuto al mondo e il Premio Flaiano per Nessuno si salva da solo. Al suo fianco ci sono: il regista macedone Milcho Manchevski, Leone d’oro a Venezia per il suo film Prima della pioggia, candidato anche agli Oscar per il miglior film in lingua straniera; l’attrice francese Anne Parillaud, conosciuta a livello internazionale per le sue iconiche interpretazioni in film come Nikita di Luc Besson e Una per tutte di Claude Lelouch; Giovanni Spagnoletti, critico cinematografico, ha ricoperto il ruolo di professore di “Storia e critica del Cinema” all’Università “Tor Vergata” di Roma, è autore e/o curatore di quasi cento pubblicazioni di ambito cinematografico e direttore della rivista di studi cinematografici e web-magazine Close upKrzysztof Zanussi, uno degli autori più significativi del cinema polacco, regista e sceneggiatore di opere come La struttura di cristallo (1969), Illuminazione (1973), La costante (1980), L’anno del sole quieto (1984) e Perfect Number (2022).

Il Concorso Documentari è presieduto da Roberta Torre, regista di documentari, film di finzione e musical, oltre che regista teatrale, vincitrice di svariati David di Donatello e Nastri d’Argento con i titoli Tano da morire (1997), Angela (2002), Mare nero (2006) I baci mai dati (2010), Riccardo va all’Inferno (2017), Mi fanno male i capelli (2023). Insieme a lei: la cineasta americana KD Davison, che con il suo Fragments of Paradise ha vinto il Premio al miglior documentario sul cinema nella sezione Venezia Classici della 79ª Mostra del Cinema di Venezia e il Grand Jury Prize al Doc NYC; Federico Gironi, giornalista, autore, critico cinematografico e co-curatore della sezione Venezia Classici della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia.

A presiedere il Concorso Cortometraggi è l’attrice Michela Cescon, vincitrice del David di Donatello e il Nastro d’Argento per Romanzo di una strage e candidata per i film Primo amoreL’aria salata Piuma, che ha esordito alla regia nel 2021 con Occhi blu. In giuria: l’attore serbo Darko Perić, che dopo il successo internazionale con La casa di carta, ha preso parte a pellicole come La versione di Giuda e La morte ci divide; e l’attore Nicola Nocella, vincitore del Nastro d’Argento come migliore attore esordiente per Il figlio più piccolo di Pupi Avati e come migliore attore protagonista per il cortometraggio Omero bello-di-nonna.

Il Torino Film Festival è realizzato dal Museo Nazionale del Cinema di Torino e si svolge con il contributo del Ministero della Cultura Direzione Generale Cinema e Audiovisivo, Regione Piemonte, Città di Torino, Fondazione Compagnia di San Paolo, Fondazione CRT.

Verrua Savoia, la fortezza sulla piana del Po

Anche il grande Barbarossa la considerò una roccaforte inespugnabile, tanto è vero che si accampò nelle vicinanze per studiare bene l’assalto e solo quando il governatore del castello si rifiutò di aprire le porte l’imperatore andò su tutte le furie, attaccò le fortificazioni ed il borgo distruggendo tutto. Accadde nel 1167 durante la guerra di Federico I contro i Comuni della Lega Lombarda. Posta su un colle in una posizione strategica la fortezza di Verrua Savoia dominava il corso del Po e gran parte della pianura padana piemontese.
E ancora oggi è così, senza eserciti e assedi, da lassù la vista è eccezionale, un colpo d’occhio incredibile, il panorama spazia sulle province di Torino, Vercelli, Asti e Alessandria. Non è rimasto molto, della fortezza antica c’è solo la Rocca, l’unica porzione del complesso che possiamo ancora vedere oltre a qualche rudere dei bastioni più esterni. La fortezza di Verrua Savoia fu più volte distrutta e ricostruita, la sua è una storia legata a guerre, assedi, distruzioni e passaggi di sovranità dai vescovi di Vercelli ai marchesi del Monferrato e ai Savoia. La prima testimonianza della presenza della Rocca di Verrua risale al X secolo. Ma, Barbarossa a parte, la fama della fortezza è legata soprattutto agli assedi del 1625 e del 1704-1705. Il primo grande assedio sostenuto dal forte di Verrua fu quello del 1625 quando il Duca di Savoia si alleò con la Francia contro la Spagna e l’Austria. Il governatore spagnolo di Milano tentò invano di impadronirsi del castello scatenando pesanti bombardamenti d’artiglieria. Il presidio resistette fino allo stremo delle forze. Il 17 novembre l’esercito spagnolo, sconfitto dai piemontesi e dagli alleati francesi, si diede alla fuga dopo aver perso in tre mesi oltre 10.000 uomini. Il secondo grande assedio avvenne nel 1704 durante la guerra contro i Francesi. Luigi XIV aveva incaricato il generale duca di Vendome di riconquistare il Piemonte.
L’assedio durò circa un anno e alla fine vinsero i francesi ma la strenua resistenza di Verrua consentì di ritardare l’assedio di Torino consentendo all’esercito piemontese di organizzare meglio le difese fino all’arrivo vittorioso di Vittorio Amedeo II e del principe Eugenio di Savoia. Ormai demolita in gran parte la fortezza tornò ai Savoia ma non fu più ricostruita come bastione difensivo e dopo il periodo Napoleonico fu ceduta ai privati. La parte principale della fortezza era costituita dal dongione (donjon), dalle caserme dei soldati e da un pozzo. Nella parte centrale della piazzaforte si trovavano i magazzini super protetti con armi e munizioni mentre la Porta del Soccorso collegava il forte alla pianura. L’imponente complesso venne demolito nel 1707. Nell’Ottocento il forte fu totalmente trasformato e diventò una residenza nobiliare. Il palazzo del governatore divenne la casa del marchese mentre vigne e terreni agricoli rivestirono l’ambiente attorno alla dimora. Ciò che resta della fortezza di Verrua Savoia è stato concesso in comodato d’uso al Comune di Verrua che lo apre al pubblico. Gli esterni della fortezza sono sempre visitabili ma per vedere gli interni la fortezza è aperta tutte le domeniche e i festivi da marzo a ottobre dalle 15,30 alle 18,30 ed è possibile prenotare visite guidate negli altri giorni della settimana. Consultare il sito www.roccaverrua.it
Filippo Re

Sergio Unia: “Io sono il testimone del mio tempo”

Nel Giardino Medievale di Palazzo Madama, sino al 9 dicembre

S’intitola “In ascolto” la mostra curata da Paola Ruffino che Palazzo Madama e la Fondazione CRC di Cuneo dedicano all’arte dello scultore Sergio Unia – ottantunenne, nativo di Roccaforte Mondovì, allievo di Filippo Scroppo nel 1970 nei corsi liberi di nudo dell’Accademia, tra le innumerevoli mostre “La forma tra purezza e sensualità” con la Regione Piemonte e il Consolato Generale d’Italia ad Amburgo (2005), “Incontrare la forma” al castello medievale di Monastero Bormida (2020), “Bronzi e disegni” alla villa “La Colombaia” di Luchino Visconti a Ischia (2002), una grande mostra personale al Museo Manzù di Ardea organizzata dalla Galleria d’Arte Moderna di Roma nel 2006, la partecipazione nel 2011 al Padiglione Italia della Biennale veneziana, la nomina ad accademico ad honorem della Pontificia Insigne Accademia di Belle Arti e Lettere dei Virtuosi al Pantheon.

La scelta è oggi caduta su tredici opere (delle 35 proposte dal Maestro) nell’ambito del progetto “Donare”, attivo dal 2017, volto al perseguimento di scopi di utilità sociale e di promozione dello sviluppo economico, con la raccolta, sul territorio di Cuneo, di donazioni di varia natura da parte di privati: “Cuneo come crocevia di cultura – ha sottolineato Maura Anfossi, consigliera generale della Fondazione, durante la presentazione della mostra -, un percorso sempre portato avanti senza far rumore, e la mostra di Unia ne è una prova, un saggio della scultura di un grande artista che è passaggio tra una generazione e l’altra, fatta di modernità e di un passato immerso nelle proprie radici, che immette nel visitatore il desiderio di bellezza pratica e interiore allo stesso tempo.”


È altresì un’occasione, la mostra di Sergio Unia, per l’unione verso altri frutti di due Fondazioni, come per instaurare un ampio dialogo con il territorio, l’idea di una selezione che trova ospitalità (sino al 9 dicembre prossimo) nel giardino del castello degli Acaia – quel giardino che ha visto nel 2011 un riallestimento prezioso e che trova il proprio passato nel lontanissimo 1402, eletto a luogo di delizie, ad angolo di lettura e conversazione della corte, un “giardino che si fa felicemente coprotagonista, con l’offerta di un percorso sorprendente.” All’esterno di quella porta Fibellona che da sede amministrativa, militare e giudiziaria si trasformava decennio dopo decennio in residenza cortese.

Si ritrovano, in quello che fu anche orto e frutteto, i temi propri dell’artista (con il garbo che rispecchia nelle proprie opere, “Io sono il testimone del mio tempo”, dice Unia), certe sculture in bronzo che s’ammirano nel suo studio torinese e nelle tante mostre da lui concepite in tempi recenti e in passato, il rapporto non soltanto con la natura ma anche con l’antico e l’infanzia, i giochi dell’adolescenza, i nudi femminili. E ovunque s’avverte la perfetta consonanza tra l’artista e la modella (il soggetto fermato in un gesto preciso, nella piena spontaneità, lontano da qualsiasi retorica), tra l’individuazione di un atteggiamento e lo sguardo dell’artista su quelle forme, la sensualità mai prevaricante, la dolcezza e la freschezza poste in comunione con i diversi giochi di luce che si alterneranno nel corso della giornata, le diverse atmosfere che si creeranno, ogni personaggio, sempre reso universalmente anche se le targhette esposte accanto danno nomi e riferimenti ben precisi; e un equilibrio che ci riaccompagna a tanti capolavori della storia dell’arte, dovuto omaggio ai maestri del passato, da Donatello a Manzù per arrivare pittoricamente a Degas, guardato con gli occhi di oggi, la leggerezza del tratto e la sensibilità rivolta alla celebrazione dell’eterno femminile, familiare e no, colto nella quotidianità. Opere che si scoprono a poco a poco, svelate passo dopo passo tra piccoli arbusti e foglie e vasi a cui si è ridato vita, o al riparo di un arco di rami o tra le rovine e i reperti dismessi da zone differenti del palazzo, a volte depositati alla rinfusa nel fossato, elementi – vasi e balaustre – smontati dalla facciata juvarriana per essere sostituiti da altri nuovi tra la fine dell’Ottocento e il secondo dopoguerra.

Non abbiate fretta nel girovagare per il giardino antico: catturati dallo sguardo sulla classicità vi imbatterete in un “Torso virile” del 1981 e nella “Musa” del 2005, che paiono usciti ieri da qualche scavo archeologico; delicatissimo, il “Bambino con la conchiglia”, dove Zoltan è in atto di ascoltare il rumore delle onde, “Adolescente con flauto” e l’aereo “Maia con l’aquilone” o la “Bimba sui pattini” o la plasticità di “Elena danzatrice”. Perfetto nella gioia del gioco che trasmette, e nell’immediatezza eccezionale del gesto tra le due bambine, “La cavallina” che fa parte della serie dei “giochi”.

Elio Rabbione

Nelle immagini di Giorgio Perottino, di Sergio Unia ”Torso virile”,  “Bimba sui pattini” (Zoltan), “Bambino con la conchiglia, “La cavallina (giochi)”.

“Megalopolis”, una scommessa (persa) lunga quarant’anni

Sugli schermi il controverso ultimo film di Francis Ford Coppola

PIANETA CINEMA a cura di Elio Rabbione

Era la metà degli anni Settanta e lui era alle prese con il napalm e i grandi incendi e le musiche wagneriane di “Apocalipse now”: è già schizzava disegni, prendeva appunti, annotava abbozzi, inventava grumi d’episodi, prendeva a organizzare questa grande ossessione e questa “favola”, come oggi suona sullo schermo, che affonda le proprie radici non soltanto nelle pagine di Svetonio con il suo “De coniuratione” ma altresì nella “Vita futura” di Wells (1930), una fantascienza lunga un secolo a venire. Uno script in bozzolo ci fu a coinvolgere, nelle prime letture – ed eravamo nell’estate del 2001, De Niro e Paul Newman e DiCaprio tra gli altri: ma poi furono le Torri Gemelle, la distruzione e la visione di un altro mondo, l’affacciarsi di una nuova Storia, nazioni che non sarebbero più state le stesse, non era più concepibile immergere New York in un’epoca di rovina al di là dell’immane tragedia.


Ma l’ossessione continuava a essere un’ossessione, le idee restavano, quello che la tragedia aveva interrotto l’avrebbe fatto rinascere (!) la pandemia, al suo indomani e il progetto avrebbe finalmente preso il largo nel mare immenso e folle del cinema di Francis Ford Coppola, capace anche di metterci 120 milioni di un personale patrimonio, pur di avere una libertà assoluta in ogni momento dell’operazione, magari privandosi di gran parte della fiorente industria vinicola di Napa Valley pur di veder realizzato questo “sogno” lungo non certo un solo giorno ma più di quarant’anni.

A tredici anni dall’ultimo “Twixt”, oggi nel (poco) bene e nel (tanto) male “Megalopolis” è sullo schermo, controverso e ignorato sin dalla giuria di Cannes e “recuperato” in festosissima anteprima e omaggi al Maestro alla Festa del Cinema di Roma. Laddove la Roma imperiale, corrotta, dissoluta, priva di qualsiasi freno morale e di costumi, quella che sta a grandi passi scivolando verso il proprio tramonto, invasioni e no a decifrarne il tracollo, è paragonata alla New York di un presente e di un prossimo futuro, in uno sguardo architettonico grandioso e non poche volte kitsch che ben le accomuna. Al centro, l’allampanato architetto Adam Driver – che altri non è se non l’alter ego dell’autore, la mano e l’intelletto demiurgici che tutto governano -, che di nome fa Cesare Catilina, l’ordine e la rivoluzione allo stesso tempo, che progetta in piena enfasi nuove costruzioni e al ralenti assiste alla distruzione dinamitata di quelle vecchie (ricostruiamo l’America tutta dalle proprie macerie, e forgiamo una nuova umanità che avrà sempre i suoi peccatucci ma profumerà almeno di nuovo e di fresco? o possiamo ampliare quell’utopia allo stesso Cinema, in un ultimo scatto di prepotente megalomania?) e che è capace con uno schiocco di dita di fermare il tempo e di guardare con esso allo spazio come a una componente dello spirito, padroni entrambi di se stessi: dopo essersi aggiudicato il Nobel per l’invenzione del “megalon” che del cemento armato se la ride e che è altrettanto capace di ricostruire volti umani devastati. Al suo opposto, il sindaco Giancarlo Esposito, che di nome fa Frankie Cicerone, rappresentante estremo dell’ordine costituito e del Grande Capitalismo, intrallazzato con chiunque e per qualunque cosa sino all’orlo dei capelli, per il quale la città che vede davanti ai suoi occhi non ha nessuna necessità di cambiar d’abito. In mezzo, tra i due contendenti, Nathalie Emmanuel, la Giulia che è prole della massima autorità, che cade d’amore per l’artefice ed è rimescolata tutta per i dubbi e il rispetto che deve al padre. Trama semplice semplicissima, che più non si potrebbe, perché poi il nocciolo sta tutto lì. Trattata male malissimo.

In un bailamme decostruito, che pare sia andato al cinema un paio d’anni fa a vedere l’orribile o ormai del tutto dimenticato “Babylon” di Damien Chazelle, in un’arroganza cinematografica rara, in un racconto che non poche volte scivola a occhi ormai chiusi nella noia, in un tripudio di tinte fosche che “Dracula” al suo confronto era il tripudio della luce (ma è innegabilmente interessante la fotografia di Mihai Mâlaimare jr, come non si può restare indifferenti all’immenso lavoro scenografico della coppia Beth Mickle/Bradley Rubin), Coppola gioca alla realtà e guarda mentre stancamente scommette sulla fantasia.

Mette, il Coppola arrivato agli ottantacinque anni, nel gran calderone il bagaglio dell’autostima (consolandosi che in passato anche altre sue opere sono state schiacciate e oggi rivivono di piena rivalutazione) e le citazioni che coinvolgono anche la famiglia (quelle tre damigelle che spuntano dal nulla, a chiacchierare di tutto e di niente, agghindate in costumi settecenteschi, non sono forse l’omaggio di un padre alla “Marie Antoinette” della figlia Sofia?), i rimandi letterari, alti e altissimi, che abbracciano non soltanto il pallido principe di Elsinore ma pure Marco Aurelio e Saffo, le innovazioni tecnologiche e l’artificio visivo che ci mostrano Driver svolazzante o con un piede poggiante nel vuoto, messo lui sulla cima del Chrysler che sembra essere il punto onnipresente della Grande Mela, le frasi a effetto che una volta le prendi sul serio e l’altra ti sembrano sfiorare il ridicolo, tutto annacquato in un clima falsamente teatrale, vecchiamente roboante, declamatorio. In più occasioni si rasenta il delirio da parte di colui che nonostante tutto rimane un Maestro, offensivo quasi nella spudoratezza del suo Cinema: nella costruzione intera, nei colori “sballati” che amano virare al giallo imperituro, all’andamento traballante e forse consapevole dell’operazione (perché credo che la dica lunga la scena in cui un gruppetto degli attori coinvolti visita l’embrione della nuova città che ancora poggia su assi di passaggio, tenute in piedi da funi chissà quanto resistenti), negli eccessi che circolano ad ogni fotogramma, alla cavalcata (con la stanchezza che si porta appresso) senza un attimo di sosta. Il trovare, continuo, mezzi d’espressione, il gioco che non è al servizio della storia ma della persona, l’”épater le bourgeois” instancabile che va comunque al di là di ogni scrittura per lo/dello schermo ma che fa comunque ripensare a quel che doveva apparire allo spettatore di fine Ottocento la sfida di un Méliès, con quel grande bastone ficcato lì, nell’occhio della luna.

Alla fine, mai così politicamente corretto, il grande costruttore si pone alla guida e al servizio delle folle che reclamano e trova altresì il tempo di stringere la mano al sindaco, tutto è ricomposto, un bebé che vedrà chissà quali futuri è già nelle braccia di maman mentre la nonna si spertica in truccatissimi sorrisi… Con un’ultima frase Coppola dedica “Megalopolis” alla moglie Eleonor, scomparsa l’aprile scorso, ancora un omaggio familiare e un ricordo a chi gli è stato sempre accanto. “Megalopolis” è di certo un prendere o lasciare, amare in tutto il suo avanzare tronfio o odiare, caricare di ogni difetto (innegabile qualcuno, al di là di qualsiasi “giudizio”, leggi in primis la sceneggiatura che nella propria vuotaggine fa acqua da ogni parte) o assolvere nel pensiero della grandezza assennata (?) che fu o nella convinzione che quella “grandeur” Coppola non l’abbandonerà mai. Gli auguriamo lunga lunghissima vita (ancora), ma ci spiacerebbe davvero se “Megalopolis” fosse il suo canto del cigno. Un po’ afono, incerto, traballante, ansimante nel vuoto pressoché completo.

Con Agis Piemonte Cinema al Cinema, terza edizione

 

 

Agis Piemonte Valle d’Aosta, grazie al sostegno della Regione Piemonte, prosegue il percorso di valorizzazione delle sale cinematografiche con attività rivolte al pubblico, alle scuole, agli studenti universitari e agli esercenti.

Giunge alla sua terza edizione il progetto di Agis Piemonte Valle d’Aosta “ Cinema al cinema, le sale del futuro per gli spettatori di domani” che mette al centro delle azioni progettuali le sale cinematografiche.

Nella sede di Fiom Commission Torino Piemonte sono state premiate le sei sale piemontesi che nella seconda edizione di Cinema al Cinema per famiglie hanno raggiunto i migliori risultati di presenza in sala.

Tra le sale Anec (Associazione nazionale esercenti di cinema) il primo premio è andato al Vittoria di Bra, il secondo al Margherita di Cuorgnè, il terzo all’Italia Movie Planet di Vercelli e tra quelle Acec (Associazione cattolica esercenti cinema) il Monterosa di Torino al primo posto, il Lumiere di Asti al secondo e al terzo l’Aurora di Sivigliano.

Per la terza edizione di Cinema al Cinema per famiglie saranno 140 le proiezioni di titoli per tutti, sempre con un biglietto a costo promozionale di 3.50 euro, che si svolgeranno nei weekend a partire da sabato 26 ottobre fino ad aprile 2025 nel circuito di 35 sale cinematografiche piemontesi. Gli esercenti potranno selezionare i titoli da proporre al loro pubblico da un catalogo di oltre 100 titoli che spaziano dai grandi classici dell’animazione a importanti film di recente uscita. Come nelle passate edizioni Cinema al cinema si articola in azioni che coinvolgono differenti destinatari, esercenti cinematografici, istituti scolastici di ogni ordine e appuntamenti per il pubblico torinese e piemontese.

‘Per Agis il bilancio di queste prime due edizioni è sicuramente positivo, la dimostrazione è che il pubblico della seconda edizione è quasi raddoppiato – afferma Luigi Boggio, presidente di Agis Piemonte e Valle d’Aosta. Poter contare su una prospettiva di più largo respiro, in questo caso triennale, consente di ideare modelli che si implementano anno dopo anno grazie ai risultati concreti raggiunti. È motivo di orgoglio per Agis far parte, grazie alla Regione Piemonte, che ha emanato il bando di valorizzazione delle sale cinematografiche, di un’azione di sistema che, di fatto, coinvolge la filiera nel suo insieme a livello nazionale”.

Mara Martellotta

Non perdiamo il filo: Alessandro Perissinotto porta la narrazione tra le vie di Chieri

Torino tra le righe

In occasione dell’evento “Non perdiamo il filo” per il ventesimo anniversario della Biblioteca Civica Francone di Chieri alla Tabasso, ho avuto il piacere di assistere a una straordinaria lettura itinerante lungo il centro storico della città. L’autore Alessandro Perissinotto ha presentato per l’occasione un racconto inedito dal titolo intrigante, La piccola lavanderia dei cuori infedeli. Questa lettura, arricchita dagli interventi musicali della BandaKadabra, ha trasformato Chieri in un teatro all’aperto, coinvolgendo i partecipanti in un viaggio tra letteratura e musica.
L’evento è stato organizzato per celebrare non solo la ricca tradizione culturale di Chieri, ma anche il ruolo centrale della Biblioteca Civica Francone, punto di riferimento per la comunità da ormai due decenni nell’ex cotonificio Tabasso. Lungo le vie della cittadina, Alessandro Perissinotto ha letto con la consueta ironia e maestria narrativa, immergendo i partecipanti in una storia fatta di humor, tradimenti e un’insolita ambientazione in una lavanderia.
Il racconto è stato suddiviso in quattro capitoli, ciascuno letto in una tappa diversa del percorso. La prima tappa ha avuto luogo in Piazza Umberto I alle ore 15, dove Perissinotto ha iniziato la narrazione con il primo capitolo, Seta. Successivamente, la lettura è proseguita in Piazza Duomo con il capitolo Lino, per poi spostarsi al Parco Pa.T.Ch dove è stato letto il terzo capitolo, Bambù. Infine, il percorso si è concluso presso la Biblioteca, dove l’autore ha letto l’ultimo capitolo, Lana.
Il pubblico ha seguito con interesse ogni tappa, mentre le note della BandaKadabra accompagnavano la camminata, creando un’atmosfera suggestiva che ha reso ancora più coinvolgente l’esperienza. Come gesto simbolico, i quattro capitoli del racconto sono stati distribuiti tra la gente e successivamente raccolti in un’elegante cartellina rossa, intitolata Non perdiamo il filo, chiusa con un ago di carta. Questo dettaglio ha voluto ricordare le origini dell’attuale sede della Biblioteca, che un tempo era un cotonificio, sottolineando così il legame tra la cultura e la tradizione tessile della città.
La piccola lavanderia dei cuori infedeli racconta la storia di Profiterol, un protagonista sui generis, figlio di una famiglia benestante di Chieri, che dopo anni, è costretto a gestire una lavanderia in seguito a una serie di vicende personali rocambolesche. Tra tradimenti e ironia, il racconto esplora le fragilità umane con toni leggeri ma incisivi. Una storia apparentemente simpatica e divertente, che cela tuttavia riflessioni profonde sulla fragilità umana e sulle piccole meschinità quotidiane. La lavanderia di Profiterol, “La lavanderia dei cuori infedeli”, diventa così una metafora dei legami spezzati, delle scappatelle amorose, e delle vite che si incontrano e si sfiorano nell’infedeltà e nel disincanto. La scelta di ambientare la storia in una lavanderia, tra macchinari rumorosi e abiti da lavare, sembra quasi un’ironica risposta alle tante narrazioni sentimentali moderne ambientate in romantiche librerie o caffetterie.
Come ha sottolineato Perissinotto nella premessa al racconto, la sua lavanderia non è popolata da “anime nobili”, ma da personaggi molto più ordinari e pieni di difetti, alle prese con tradimenti e bugie. È in questo quadro che si sviluppano le storie di vita, narrate con quella punta di sarcasmo che contraddistingue l’autore torinese. La camminata attraverso Chieri ha dato vita a una narrazione dinamica, in cui i partecipanti non solo hanno ascoltato la storia, ma ne sono diventati parte, immergendosi in essa mentre attraversavano luoghi simbolici della città. L’evento ha celebrato in modo unico i vent’anni della Biblioteca Civica Francone nell’attuale sede, confermandola come un centro vitale per la cultura e la comunità locale.
In conclusione, la lettura itinerante de La piccola lavanderia dei cuori infedeli è stata un’occasione perfetta per celebrare la cultura e la letteratura in un modo partecipato e originale. La Biblioteca Civica, continua a svolgere un ruolo fondamentale nel promuovere eventi che mettono in contatto gli scrittori e i lettori, creando spazi di condivisione e riflessione. È attraverso iniziative come questa che la cultura diventa viva, capace di uscire dai libri per mescolarsi con le persone e i luoghi, proprio come accaduto a Chieri durante questa magnifica giornata.
Marzia Estini
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Al via gli eventi culturali dei Lessona Days

Incontri, laboratori, lectio magistralis, passeggiate narrate ispirate a Michele Lessona

 

Parte l’iniziativa Lessona Days, che vedrà una prima fase di eventi snodarsi da giovedì 24 ottobre a domenica 27 ottobre. Un secondo appuntamento tra Venaria Reale e Torino è in programma sabato 9 novembre al Museo di Scienze Naturali. Michele Lessona è una figura curiosa, di uomo poliedrico, scrittore, giornalista, medico e naturalista, autore di un libro che alla sua epoca fu un vero e proprio bestseller “Volere e potere”.

In questo contesto Michele Lessona è stato pioniere della comunicazione scientifica. Nato a Venaria Reale il 20 settembre 1823, ha dedicato gran parte della sua vita di studioso e scienziato a diverse istituzioni cittadine come il Museo di Scienze Naturali, di cui fu direttore. Fu anche direttore dell’Accademia delle Scienze e senatore del Regno.

Città di Venaria Reale, Regione Piemonte, Museo Regionale di Scienze Naturali, Dipartimento di Scienze della vita e Biologia dei sistemi dell’Università degli Studi di Torino, Ente di Gestione delle aree protette dei Parchi reali, Consorzio delle Residenze Reali Sabaude la Vanaria Reale, l’Ordine dei Biologi di Piemonte, Liguria e Valle d’Aosta si sono uniti per un progetto di cittadinanza scientifica a partire dai Lessona days.

Un programma di attività che inaugurerà giovedì 24 ottobre alle ore 18 presso la biblioteca di Venaria Reale ‘Tancredi Milone’, con la conferenza di Beatrice Mautino, biotecnologa e divulgatrice scientifica, che racconterà quanto sia importante ‘prendere la scienza sul serio senza prendersi troppo sul serio’.

Venerdì 25 ottobre, presso la sede del CCR la Venaria Reale, inizia alle ore 18 l’incontro “Il restauro della lapide commemorativa di Carlo Lessona e la sua storia”. Interverranno Marie Claire Canepa, restauratrice e docente universitaria, responsabile del Laboratorio manufatti lapidei del Centro di Conservazione e Restauro La Venaria Reale e Andrea Scaringella, studioso di Lessona e autore del volume “Carlo Lessona e l’antico epitaffio. Un’indagine storica”.

Venerdì 25 ottobre, alle 21, nella cappella di Sant’Uberto, in programma la lectio magistralis del climatologo e giornalista Luca Mercalli sul tema “La comunicazione scientifica, Michele Lessona, un pioniere dell’Ottocento che parla al futuro”.

Sabato 26 ottobre due appuntamenti presso la Biblioteca Civica Tancredi Milone. Alle 10.30 Luca Mercalli condurrà un laboratorio per famiglie dal titolo “La comunicazione del cambiamento climatico, tra realtà scientifica e fake news”. Alle ore 18 Alfonso Lucifredi, naturalista, giornalista e scrittore di scienza e viaggi, parlerà su “Dal Belpaese alla giungla, avventure e disavventure dei grandi naturalisti italiani del XIX secolo”.

Il parco naturale della Mandria sarà protagonista di un intenso programma domenica 27 ottobre. Alle ore 11, nella sala degli Scudieri di Borgo Castello, Giorgio Volpi, chimico e laureato in scienze naturali, parlerà di quanto sia importante la capacità di adattamento nella conferenza “ La natura lo fa meglio e prima. Le sorprendenti invenzioni tecnologiche che la natura suggerisce all’uomo”.

Alle 12, con ritrovo a Borgo Castello, partenza della passeggiata narrata “Storia di un uomo che cammina tra gli alberi”, con lo scrittore e poeta Tiziano Fratus.

Alle 16, nella sala Scudieri, si terrà lo spettacolo “Michele Lessona. Un Soldato della scienza, dedicato all’avventurosa vita dello scienziato tratto dal libro di Andrea Scaringella “Il taccuino di Lessona. Avventure, scritti e pensieri di un protagonista dell’Ottocento”.

I Lessona days proseguiranno sabato 9 novembre. Il progetto è stato reso possibile grazie alla collaborazione di Silvia Lessona, pronipote dello scienziato, e di Pietro Passerin d’Entreves, studioso di Scienze della Vita e profondo conoscitore dell’opera e della figura di Michele Lessona.

 

Mara Martellotta

Gobetti liberale?

IL COMMENTO   di Pier Franco Quaglieni

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In una bella intervista inedita a Norberto Bobbio  fatta dal gobettiano fedelissimo Bruno Quaranta Bobbio sostiene che Gobetti era un liberale, correggendo lo stesso Quaranta che lo definiva “anomalo”. Gobetti, che secondo Bobbio – avendo avuto un rapporto con il liberista liberale Luigi Einaudi – sarebbe stato coerentemente  anti statalista e quindi antisocialista, contro Turati che fu anticomunista come Matteotti,  in nome della libertà.  Potrebbe essere oggetto di discussione il carattere liberale della gramsciana occupazione delle fabbriche torinesi, ma non può essere accolta l’interpretazione  in chiave di “Rivoluzione liberale” della rivoluzione bolscevica sorta nel 1917 e quasi subito trasformatasi in una rivoluzione marxista – leninista che guardava al giacobinismo francese e alla Comune di Parigi oltre che ai testi di Marx . Diceva Hegel che “le teste non si tagliano come i cavoli”. Quella rivoluzione ha mietuto più teste che spighe perché il terrore giacobino e leninista  insanguinò la grande  Russia. Gobetti visse fino al  1926 e quindi ebbe tempo di vedere e di patire il fascismo, ma anche di conoscere sia pure indirettamente il comunismo sovietico.
Come Turati e Matteotti denunciarono il vero volto demoniaco  della rivoluzione dei soviet, Gobetti esaltò in modo mitizzato ed acritico la Rivoluzione di ottobre che fu si’ liberatrice dal giogo zarista , ma fu profondamente illiberale  fin da subito. Essere antisocialista per Gobetti non significò essere antistatalista alla maniera di Einaudi. Gobetti fu antisocialista perché contrario nella sua intransigenza al riformismo  socialista  e  al Giolittismo. Anche Einaudi fu antigiolittiano come Gobetti.
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Le elezioni del 1919 con la proporzionale e il suffragio universale segnarono la crisi di Giolitti e dello Stato liberale con una forte ascesa di cattolici e socialisti. Il Biennio rosso impedì una democrazia compiuta in Italia dopo la guerra attraverso un rapporto tra liberali, socialisti e popolari che avrebbe scongiurato l’avventura del bolscevismo all’italiana e del fascismo, sfociata nella guerra civile. È  difficile orientarsi nella contemporaneità, ma Gobetti si perse nel labirinto delle utopie. La sua “Rivoluzione liberale”  fu assai poco liberale. Carlo Dionisotti colse l’ossimoro del Gobettismo: i liberali  non sono rivoluzionari  ma conservatori o riformisti e i rivoluzionari sono assolutamente illiberali perché coltivano e praticano la violenza rivoluzionaria. Questo è il motivo vero per cui il liberalismo di Gobetti si lasciò  contaminare e snaturare dal Gramscismo. In ogni caso appare con tutta evidenza che lo Stato dei soviet fu da subito oppressivo, totalizzante e sanguinario, in una parola assolutamente statalista. In modo meno esplicito e molto più timido maturò  negli anni  una mia  discussione con Bobbio che considero comunque un maestro. Senza l’ingombrante presenza di segretari il nostro dialogo si materializzò in tante occasioni  non pubbliche in cui il maestro ebbe la pazienza di ascoltare i miei dubbi sul liberalismo di Gobetti, dubbi  che ebbe anche Manlio Brosio.
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Bobbio mi ascoltò  con pazienza e poi mi disse che per lui Gobetti rappresentava il modello di una giovinezza che non aveva saputo vivere “eroicamente”.  E il discorso ebbe termine e tante altre volte venne ripreso su altri temi. Da quel dialogo rispettoso ho imparato molto , ma il culto di Gobetti non mi ha mai convinto. Dopo il fascismo i gobettiani diventarono quasi tutti comunisti , anche se i comunisti non divennero certo liberali . Basti pensare alla parabola di un gobettian comunista come Augusto Monti. Anzi  essi divennero stalinisti di stretta osservanza. A Bobbio non ebbi mai il coraggio di obiettarlo, ma questa è l’idea che ho  maturato nei decenni. Mi piacerebbe invece un dialogo  con Quaranta che ritengo un intellettuale onesto ed equilibrato che ho sempre stimato. In tempi in cui Filippo Burzio era ignorato e persino disprezzato ,con Quaranta abbiamo ricordato insieme il grande intellettuale demiurgico. Anche Burzio non amava Gobetti. Anche a Bobbio mi permisi di dirlo perché Bobbio aveva studiato Burzio e lo aveva considerato un conservatore illuminato e non solo un antifascista. L’intervista inedita di Quaranta consente di riprendere una riflessione che appare sempre importante come ogni scritto di Bobbio.