CULTURA E SPETTACOLI- Pagina 10

Questo “Giardino”, Leonardo Lidi irrompe nei giorni nostri

Sino al 1° dicembre, al Carignano

 

Nella scena anonima inventata questa volta da Nicolas Bovey, ancora prima che il “Giardino” cechoviano inizi tutto pare già aver avuto un esito, sedie bianche disseminate sul palcoscenico, a terra come dopo lo saranno i ciliegi, il rovesciamento dell’ordine e l’abbandono. Soltanto il sussurro del vecchio Firs dimenticato. Poi attraverso i grandi teli neri di plastica che delimitano il palcoscenico, che cadranno o verranno staccati con rabbiosa decisione, ancora i ciliegi nel finale, irrompono gli attori, vestiti di colori e di abiti moderni, tute giubbotti giacche a vento, qualcuno – per la necessaria distribuzione? – scambiando ruoli maschili e femminili, per cui la governante di casa Charlotta è Maurizio Cardillo in calzoncini corti, giacchetta color limone e barba e occhi segnatissimi di blu mentre la sempre ottima Orietta Notari da Leonid Gaiev s’è fatta inevitabilmente Lenja, la sorella della padrona di casa. Irruzione nei nostri giorni, e raggiranti quanto personali comodità, che rientrano in quel campionario a cui Leonardo Lidi ci ha ormai abituati, tutto sta a vedere se noi quell’abitudine ce la siamo fatta (per tacere dei mugugni altrui nel corridoio d’uscita dal teatro).

Con “Il giardino dei ciliegi”, produzione dello Stabile dell’Umbria e coproduzione di quello torinese e del Festival dei Due Mondi spoletino, sino a domenica 1 dicembre al Carignano, Lidi conclude la terna che in precedenza ha visto “Il gabbiano” e “Zio Vanja”, sconvolgendo ancora molti, giocando con il giubilo sfrenato delle nuove generazioni (che nelle aule della scuola dello Stabile da lui stanno imparando), tentando in ogni modo di épater le bourgeois (cerco ancora adesso che butto giù queste note una ragione, abbassato il soffitto, per averlo fatto diventare una spiaggia dove tutti possano prendere il sole in costume da bagno; come mi chiedo perché certi personaggi debbano diventare delle macchiette, penso all’Epichodov di Massimiliano Speziani, già eccellente Vanja) e forse ingannando quei mostri sacri che se non hanno una vera, felice motivazione per essere strattonati meriterebbero di dormirsi un sonno tranquillo. 

Lidi ha confessato – sto prendendo a prestito una sua intervista a La Stampa dei giorni scorsi – di aver preso il “Giardino” e di averlo affrontato “da un altro punto di vista, esaltandone l’aspetto rivoluzionario, di forza, molto presente nel testo”, andando in direzione opposta a un teatro che va contro i nostalgici e il teatro della nostalgia, pare proprio a spada tratta, ed esaltando la “concentrazione sul presente” che avrebbe tutti i requisiti per essere profondamente salvifica. Guardando altresì quel “testo della nostalgia” con sin troppa supponenza, una sorta di bullismo questa volta teatrale, e scomodando l’anima del buon Strehler che di quella nostalgia s’era imbevuto nella propria messinscena del ’74, che aveva guardato con occhio di dolore soffocato alla “camera dei bambini” e riempito di foglie cadenti l’ombrellino della Cortese e fatto scivolare attraverso il palcoscenico, tra una “carambola” e l’altra, il trenino dell’infanzia lontana di Santuccio. Che poi in un gioco, che è eguale dal 1904, a sei mesi dalla morte dello scrittore, che sempre ritorna, la nostalgia è ancora lì, vicinissima a noi, a portata di mano, tutti la tocchiamo, il testo di Lidi non può non mantenerla e gli attori la nominano.

Immancabili, incancellabili, ci mancherebbe, per sottolineare il nuovo corso, “l’aspetto rivoluzionario”, i cambiamenti sociali e i proprietari terrieri che scapperanno a Parigi con il magone delle loro perdite e non capiscono quel presente che già li sta travolgendo, l’eterno studente dalle idee liberali e il figlio del servo della gleba, quello sempre preso a calci e obbligato ad andare con i piedi nudi d’inverno, che s’è fatto grande e furbastro e s’è comprato lui il giardino (Mario Pirrello, bravissimo nel suo Lopachin, uno studio perfetto di gesti e di frase smozzicate e di parole cercate nell’aria della chiacchiera), i ricordi delle giovani figlie di Ljuba, gli attimi trascorsi in quella casa, un arrivo e una nuova partenza che sembrano avvolgere la Storia e le tante storie. L’ultima stazione, questa del “Giardino”, di un viaggio, quello intrapreso da Lidi post pandemia, uno sconquasso per ritrovare ancora il teatro e il pubblico: ma “termineremo il viaggio confusi, pieni di domande e con pochissime risposte”, chi l’avrebbe mai detto?, e già nella mente del regista non ancora quarantenne si agita un filo rosso, “mi è sempre sembrato palese che il nostro giardino è sinonimo di nostro teatro.” Non vuol già dire voltarsi indietro, la ricerca del sarcasmo e dello spigolo dissacrante che cambiano in affetto, forse lontanissimo, forse non ammesso, verso questa vecchissima scatola magica? Chissà che cosa riuscirà a inventare la prossima volta Lidi, a dissacrare: per adesso io mi tengo stretto il ricordo – la nostalgia – di quel trenino e di quell’ombrellino riempito di foglie.

Gli appassionati della parola di Cechov e gli inseguitori di Lidi avranno modo di partecipare – bella occasione davvero – alla maratona inventata dal nostro Stabile, domani 30 novembre: sempre al Carignano, “Il gabbiano” alle 11,30, “Zio Vanja” alle 15,00 e “Il giardino dei ciliegi” alle 18,30 tour de forse fisico e mnemonico per tutti gli attori. Nella globalità del racconto, chi sarà a vincere, l’autore classico o il regista spericolato?

Elio Rabbione

Le foto dello spettacolo sono di Gianluca Pantaleo

Al 42mo TFF storie di famiglie e i rapporti madre/figlia

La nascita, le scelte fatte e da farsi, la volontà di tener nascosto il proprio stati, il saper
condurre avanti una vita insieme e l’affidamento, la sparizione e la ricerca di un essere
umano a te così vicino, i rapporti e la loro complessità. Quelli della famiglia, dei legami
madre/figlia, delle unioni che coinvolgono visceralmente, sono i temi che più hanno
trovato spazio nelle scelte fatte per il concorso del 42mo TFF, quelle che più hanno
colpito il sentimento del gruppo selezionatore. Felicità e dramma eterni, a ogni
latitudine del mondo, sotto sguardi e con prospettive diversissimi, dal Belgio alla
Tunisia, dalla Corea del Sud all’Iran, dalla Danimarca alla Germania. Di qui, da
quest’ultimo paese, arriva una delle opere più belle del festival, avvolta di una cruda
realtà, di un oggi esasperato, di un panorama che ha parecchie ombre di una certa
gioventù che vediamo stranamente vivere nelle città, della sua debolezza, dei non-
sogni che continuano a coltivare, dei molti rapporti in cui non si possono intravvedere
luci, della miseria di certi ambienti, della sicura solitudine. Il titolo è “Vena”, la regista
è Chiara Fleischlacker, trentenne, con studi di psicologia a Friburgo, già autrice di
cortometraggi e documentari, questo è il suo diploma di sceneggiatrice e regista
all’Accademia del cinema del Baden-Wuerttemberg. Questo è forse un piccolo
capolavoro che guarda con occhio più sicuro a certe esistenze giovanili, dove la
commiserazione e i sentimenti stereotipati non trovano posto, ma anche ogni piccolo
attimo di una relazione, ogni più piccola area buia vengono guardate, analizzate,
lavorate con un bisturi che apre altre ferite, un lavoro eccellente di scrittura prima e di
direzione poi. Una storia che in tutta la sua gelida quanto struggente evoluzione non
dovrebbe lasciare indifferenti i giurati, un’interpretazione, quella della matura e più
che umanamente espressiva Emma Drogunova, da tenere presente quando si tratterà
di assegnare i premi finali.
Jenny già alcuni anni prima s’è vista obbligata dai servizi sociali ad affidare alla madre
il suo primo figlio, adesso è incinta del suo nuovo compagno Bolle, passione smisurata,
un’attrazione fisica e d’emozioni ma le giornate riempite dalle droghe che coinvolgono
pienamente entrambi. Il suo stato dovrà essere affidato a una giovane ostetrica,
dicono ancora i servizi, una decisione che rende Jenny dapprima chiusa, decisamente
contraria, scettica e arrabbiata contro quella persona che dovrebbe sorvegliarla e
decidere per lei: poi inaspettatamente, giorno dopo giorno, le asprezze si allentano e
un legame fatto di sincera complicità si instaura tra le due donne, prende posto la
fiducia che lascia alla ragazza affidare il proprio segreto a Marla, un segreto che la
lega al passato e che la condannerà a staccarsi da sua figlia quando nascerà. Estrema
verità, lucido racconto, attenzione estrema alla tragedia di una giovane donna e al suo
staccarsene, un ritratto autentico – e quello del compagno contiene altrettanto le
necessarie asprezze e quei momenti che dovrebbero portarlo a una liberazione che
non avviene – che è al centro di un film che convince appieno.
Dalla Danimarca arriva – claudicante e imperfetta – la storia di Cecilia, una quindicenne
orfana ospite di un orfanotrofio all’inizio degli anni Cinquanta. Aspetta un bambino, e
lo spettatore presto intuisce chi ne abbia approfittato. Non è quello che interessa
all’opera prima del giovane Jacob Møller, “Madame Ida”, il film non andrà ancora una
volta a descrivere il rapporto tra vittima e carnefice. La realtà da scoprire è altrove, tra
le nebbie di una campagna che dovrebbe rassicurare. Per nascondere la gravidanza,
Cecilia è condotta nella casa di Ida, nella ricca casa dove un tempo si svolgevano
concerti e feste e cene e dove ora ogni cosa appare chiusa in un silenzio e in
un’assenza di vita che coinvolgono la padrona di casa e l’anziana domestica Alma: con
la decisione che la creatura alla nascita verrà affidata a Ida in adozione, cancellato
ogni diritto di Cecilia. Non accetta la ragazza la nuova coabitazione nei primi tempi ma
poi prendono il sopravvento gli atti di affetto, le premure, i gesti e le serate passate a
cercare una certa unione, si fa largo quell’amore di una famiglia che Cecilia non ha
mai provato. Come allo stesso tempo Ida ritrova quel legame che in precedenza aveva
​perso. Fino a questo punto la scrittura di Møller è sicura, si lascia seguire con
attenzione; poi come per la volontà sconsiderata d’infilarsi in un vecchio romanzone
d’appendice dell’Ottocento, di quei racconti a puntate che avrebbero fatto il successi
di qualche gazzetta, quella medesima scrittura ci informa della disgrazia che ha
colpito Ida anni prima, del suo allontanarsi dal mondo, del perché una certa porta della
grande casa continui a essere chiusa, perché una cena di bentornati amici prenda
strade che ribollono di una sessualità a lungo dimenticata, come Cecilia debba
ubbidire alla decisione del ritorno e come il finale s’inviluppi in modo disordinato, non
trovando una via d’uscita che confezioni appieno quelli che erano stati dei promettenti
preamboli.
Elio Rabbione
Nelle immagini, scene da “Vena” (Germania) e da “Madame Ida” (Danimarca)

Lo sguardo insignificante dall’Italia, lo sguardo tragico dall’Ucraina

In concorso sugli schermi del 42mo TFF

 

Credo che di tanto in tanto ci si debba fermare a chiederci che cosa sia il cinema (la stessa cosa vale per l’arte, per il teatro, ogni espressione che riusciamo a definire ancora umana), quali possano essere i suoi mezzi e quale il suo fine, non solo una dimensione ludica ma soprattutto la componente istruttiva che qualche volta s’affossa. Ci si dovrebbe fermare a chiedere, di questo o quel progetto, come sia stato pensato e portato avanti, e proposto e come abbia raccattato in giro quei tanti o pochissimi quattrini che gli sono serviti, l’autrice che al cellulare chiede aiuto a papà “sono pur sempre tua figlia”, come abbia avuto dalla sua – con ottime intenzioni – chi lo abbia proposto sugli schermi di un festival, per l’occasione una squadra di giovanissimi dai 23 ai 33 anni, di cui in questi giorni si dice un gran bene ma che al contrario io credo non ami molto il cinema di casa nostra (facciamo il paio della rappresentanza con “Europa Centrale” di cui qui già s’è detto). Mi sono fermato e mi sono fatto la domanda dopo essere uscito all’aperto dalla proiezione di “n-Ego”, l’opera più recente di Eleonora Danco, scrittrice attrice regista, camuffata a passeggiare, trascinandosi dietro sui sampietrini sobbalzanti una flebo e una cartucciera di sonnifero, per le strade di Roma con un collant che le deforma il viso (una sorta di manichino dechirichiano? mah!) e avvolta in un impermeabile di tela cerata, rossissimo, “a esplorare la condizione umana” ci avvertono i programmi.

La sua storia di 82’ non è una storia, è un tragitto slabbrato che gode dello spericolato montaggio di Marco Tecce e incrocia la piazza di Trastevere e il Gianicolo, i lavori interminabili di piazza Venezia e il portico d’Ottavia, i monumenti e le rovine, il moderno e l’antico, camminando avanti e all’indietro, strisciando gattonando e raggomitolandosi, ascoltando massime e stralci di vita, abitudini e azioni di ogni giorno e in fin dei conti con quale importanza, filmando visi e mani e donne con cartelli insignificanti, le provenienze dei tanti quartieri, uomini e donne che hanno sognato un futuro migliore, i pochi che si sono realizzati i tantissimi no, ed elencano i tanti passati di infelicità e di solitudini, gente che racconta gli anni della galera e la quasi obbligatorietà a entrare e uscire da quella, “papà ladro e mamma donna delle pulizia, non potevo stare in un altro posto”, “me li son proprio fatti tutti quelli che stanno in giro per l’Italia”, i mestieri e i mestierucoli, la donna che impiega mezz’ora al giorno per truccarsi, qui sta l’oasi felice della giornata, e il ragazzo più o meno trentenne, “ma tu ti masturbi? lo fai tutti i giorni? ma no, non sempre, mi masturbo per capire il mio corpo” e altri particolari perché s’allarghi la nostra conoscenza, i rapporti tra generazioni, quella che vuol essere la madre/amica per sapere se il piccolo di casa “l’ha già fatto” e “mi padre me picchiava de brutto”. E molto molto altro ancora. Danco deve girare un film e semina appunti e fogli bianchi per le strade di Roma, complici a un certo punto anche Filippo Timi e Elio Germano. Quei fogli dovrebbero esserle utili a costruire la sua “sintassi di epifanie”, il tutto rimane un insignificante esercizio davanti a una macchina presa che avrebbe persino in sé la pretesa di voler divertire.

Meglio tutta le naturalezza, la singolare “povertà” del racconto, di “Kasa Branca”, opera prima che arriva dal Brasile per la regia di Luciano Vidigal. Dé è un ragazzo di una favela di Rio de Janeiro, che vive con la nonna Almerinda, affetta da Alzheimer e ormai arrivata ai suoi ultimi giorni. Con l’aiuto di un paio di amici, decide di farle vivere quei giorni nel migliore dei modi. Andranno a vedere il passare dei treni, la porteranno a fare qualche gita lassù in montagna, caricandosela sulle braccia, inventeranno una festa a casa sua con l’invito a qualche rapper di maggior successo al momento: magari facendo anche i conti con la polizia che perlustra le strade, con la padrona di casa che reclama l’affitto degli ultimi mesi, con un furto nella farmacia vicino perché le spese del settore non incidano troppo. Ogni cosa negli occhi e nella più che pingui forme del ragazzo, nel suo dire la fatica del vivere giorno dopo giorno vicino ad una malata anziana e delle corse in ospedale, degli affetti – i lavaggi, la musica fatta ascoltare, i segnali forse neppure avvertiti -, del dolore che sopraggiunge con la perdita. Attori del tutto sconosciuti per noi, davvero bravi, di quelli che non sembrano avere davanti a sé qualcuno che li filmi.

C’è la storia privata e quella di un intero paese, c’è la memoria di un tempo che fu le repressioni di Kyiv e di Praga riflessa in quello che stiamo vivendo, la paura e la guerra, ci sono i fuochi e i suicidi in “Dissident” diretto da Stanislav Gurenko e Andrii Alf’erov. C’è Oleg che ha combattuto contro la Germania nazista quanto contro l’Unione Sovietica del comunismo, tutto teso all’indipendenza del proprio paese; come c’è la moglie Vilena che sogna una vita serena e dei figli e che deve salvare il suo uomo da un nuovo arresto; c’è l’ambizioso scrittore Taras che cambierebbe la loro esistenza offrendo all’uomo una collaborazione per il romanzo che sta scrivendo e al quale Vilena non rimane insensibile. I dissidenti, le lotte, l’ondata di arresti che invade la città la decisione del suicidio, la speranza della libertà. Ne risulta un film di una tensione che coinvolge lo spettatore, che illustra con personale e autentica partecipazione il racconto di un dramma, che pone in primo piano l’ispirazione che lo ha fatto nascere, che sa porre con estrema precisione ognuno davanti alla Storia. Che non dovrebbe sfuggire alla giuria capitanata da Margaret Mazzantini.

Elio Rabbione

Nelle immagini, scene da “n-Ego” di Eleonora Danco a rappresentare l’Italia, di “Kasa Branca” di nazionalità brasiliana e di “Dissident” proveniente dall’Ucraina.

“Sensitive Stones”, un’opera di Andrea Caretto e Raffaella Spagna

 

 

Il Castello di Rivoli Museo di Arte Contemporanea, sabato 30 novembre prossimo, presenta il progetto “Sensitive stones”, una liloteca Esperienziale, che coincide con l’attivazione dell’opera di Andrea Caretto e Raffaella Spagna, presentata nell’ambito della mostra “Mutual Aid-Arte in collaborazione con la natura”. L’opera del duo artistico Caretto-Spagna è stata presentata nella biblioteca di Rivoli ed è rappresentata da un’installazione interattiva fondata sull’incontro intimo e personale tra soggetti umani e minerali. “Sensitive Stones. Progetto per una litoteca Esperienziale” si compone di una collezione di ciottoli e blocchi di roccia raccolti dagli artisti su vari siti della Val Seriana, in particolare nel territorio di Alzano Lombardo. In seguito levigate e lucidate, queste pietre lisce e lucenti, ma dalla forma inalterata, sono messe a disposizione del pubblico per un prestito temporaneo tramite una modalità simile a quella adottata dai libri in biblioteca.

La coppia artistica Caretto-Spagna coinvolge le persone auspicando che il contatto e l’intimità con questi oggetti, corredati di scatole di legno e taccuini per appunti, generino nel fruitore una relazione di inedita interdipendenza, convivenza e incontro con il mondo animale e i suoi microracconti.

Nel corso dell’attivazione gli artisti raccontano il procedimento di selezione e preparazione delle pietre e invitano a sperimentare i molteplici usi delle rocce, dalla pura contemplazione allo studio fino all’esplorazione di diverse forme di contatto, come il portarle nelle proprie tasche o posizionarle sotto il cuscino per favorire l’incontro notturno con dimensioni inconsce differenti.

Nella giornata di sabato l’attivazione dell’opera è prevista dalle 12 alle 13, dalle 16 alle 17 e dalle 17 alle 18. Ogni sessione è preceduta da una visita guidata alla mostra “Mutual aid. Arte in collaborazione con la natura”, a cura del Dipartimento di Educazione del Museo alle 11, alle 15 e alle 16.

L’appuntamento si inserisce nell’ambito del progetto di public program “Vibrant Natures. On telluric Cosmologies”, a cura di Guido Santanadrea e Marianna Vecellio e nato dalla collaborazione tra Almanac, castello di Rivoli Museo di Arte Contemporanea e Orti generali.

Il programma prosegue la riflessione iniziata con “On decay and rebirth”, realizzato tra febbraio e marzo 2024, mantenendo come base di ricerca i caratteri di complessità, pluralità, coesistenza e reciprocità propri della natura. Fil rouge del percorso lo sviluppo di un pensiero ecologico e di una coscienza ambientale che riposizioni l’umano all’interno della natura, rispondendo all’urgenza di sviluppare politiche di resistenza alle economie di sfruttamento della natura fondate sul superamento dell’opposizione tra oggetto e soggetto, tra natura e cultura, tra umano e non umano.

Offrendo una ridefinizione del concetto di natura come agente attivo e vitale, “Vibrant natures On telluric cosmologies” esplora come artisti e ricercatori di diversi ambiti riflettano sulle possibilità di azione e influenza di entità non umane, ponendole come condizioni necessarie per mettere in discussione le condizioni che hanno condotto all’attuale crisi climatica e ambientale.

 

Mara Martellotta

A San Raffaele Cimena è tempo di “Antiqua”

ANTIQUA 2024

07 dicembre – San Raffaele Cimena ore 21,15

Chiesa di S. Raffaele Arcangelo

Ars Baroca

Lo splendore della musica da camera nel 700’ Napoletano”

Il 7 dicembre, alle 21,15, a San Raffaele Cimena (To), presso la chiesa di San Raffaele Arcangelo in via Maestra, la rassegna musicale “Antiqua” proposta dall’Accademia del Ricercare si congederà dal suo pubblico dando appuntamento alla prossima edizione con il concerto di Ars Baroca Ensemble dal titolo “Lo splendore della musica da camera nel 700’ Napoletano”.

Ingresso a offerta libera. Per informazioni scrivere agli indirizzi segreteria@accademiadelricercare.com e accademiadelricercare@gmail.com oppure telefonare al numero 331.1095412. Sito web https://accademiadelricercare.com/

Programma

Domenico Natale Sarri (1679-1744)

Concerto per flauto, 2 Violini, Viola e b.c in la minore

Largo – Allegro – Largo – Spiritoso

Francesco Mancini (1672-1737)

Sonata per Flauto e due violini in re minore

Amoroso – Allegro – Largo – Allegro

Francesco Durante (1684-1755)

Concerto per archi n. 7 in do Maggiore

Moderato– Allegro – Larghetto – Presto

Alessandro Scarlatti (1660-1725)

Sonata per Flauto, due violini e b.c. in la minore

Allegro – Largo – Fuga – Piano – Allegro

Francesco Mancini

Concerto per Flauto, due violini e viola in Sol minore

Comodo – Fuga, Allegro – Larghetto – Allegro

Interpreti

Luisa Busca – flauto

Yayoi Masuda, Efix Puleo – violini

Elena Saccomandi – viola

Lorenzo Fantinuoli – violoncello

Federico Bagnasco – violone

Laura La Vecchia – tiorba

Claudia Ferrero – clavicembalo

Nota di sala

Il complesso Ars Baroca Ensemble è stato costituito con l’intento di affrontare con l’adeguata consapevolezza storica e musicologica il grande repertorio sei-settecentesco, da un lato valorizzando importanti inediti e dall’altro proponendo le opere più celebri e amate di compositori come Claudio Monteverdi, Alessandro Scarlatti, Antonio Vivaldi, Franz Joseph Haydn e Wolfgang Amadeus Mozart. Il nucleo base di questa formazione è composto da due flauti, un violoncello e clavicembalo, a cui possono aggiungersi, a seconda delle necessità, altri strumenti e cantanti. Pur dovendo confrontarsi in un ambito repertoriale molto conosciuto e frequentato da ensemble di grande prestigio, il complesso ha sviluppato una personalità artistica ben definita e un caratteristico stile esecutivo che traggono linfa dallo spiccato talento dei suoi membri e da una coesione sempre maggiore. Dopo avere inciso il disco «L’arte della trascrizione», apparso allegato al mensile CD Classica nel catalogo dell’etichetta bolognese Tactus, l’ensemble barocco si esibisce spesso in importanti concerti, molti dei quali abbinano le note dei compositori più famosi del XVII e XVIII secolo ai versi immortali di poeti come Lodovico Ariosto e Torquato Tasso, creando in questo modo una sorta di ‘ponte’ che consente di apprezzare arti diverse in passato strettamente legate tra loro. Tutti gli strumentisti vantano importante attività con prestigiosi ensemble, all’interno dei maggiori circuiti concertistici internazionali.

The Gypsy Gospel Choir incanta Torino e dintorni con le canzoni di Natale a cielo aperto

Come nella migliore tradizione americana, che a Natale vince su tutto, il gospel torinese è pronto a scendere in strada per allietare le giornate dei cittadini, alle prese con il lavoro e la routine quotidiana. Accadrà sotto la Mole, grazie a Gypsies in Town, l’iniziativa a cura di The Gypsy Gospel Choir, il coro di oltre 30 elementi, composto dai giovani talenti della Gypsy Academy di Torino. Le esibizioni si terranno a partire dal 30 novembre alle ore 15, quando The Gypsy Gospel Choir percorrerà cantando corso Togliatti fino in corso Francia, per approdare al Villaggio Leumann.

Domenica 1 dicembre l’intero ensemble sarà protagonista al teatro San Barnaba di strada Castello di Mirafiori. L’8 dicembre, Festa dell’Immacolata Concezione, si potrà rivivere l’atmosfera natalizia in Gran Madre, sempre a partire dalle ore 15. Ultima esibizione il 22 dicembre per le strade di Borgaro Torinese. In scaletta ci saranno i brani gospel più famosi, cosiccome i classici di Natale nella storia della musica, da “Oh Happy Day” a “All I want for Christmas is you” di Mariah Carrey e “Last Christmas” di George Micheal. Immancabile poi la colonna sonora di “Sister Act” con “Joyful Joyful”.

Il Coro è diretto da Maria Giovanna Lungo, allestito da Marta Lauria, con il contributo artistico di Aurelio Pitino, del Gospel Jubilee Festival. Autore e grande vocalist, è considerato il massimo esponente nazionale di canto gospel, oltre a essere l’ideatore del Gospel Jubilee Festival, evento internazionale che da 25 anni si tiene in dicembre, vanta la partecipazione a festival, tour ed eventi in Europa, Stati Uniti, in centro e sud America, oltre che a eventi trasmessi in mondovisione e programmi televisivi quali “Che tempo che fa”, dove ha accompagnato Andrea Bocelli, e al Festival di Sanremo 2014, in cui ha affiancato Raphael Gualazzi.

The Gypsy Gospel Choir è uno dei fiori all’occhiello della stagione 2024-2025 della Gypsy Musical Academy che 14 dicembre Teatro Concordia di Venaria con “Attraverso lo specchio” festeggerà con un musical i suoi primi vent’anni (lo spettacolo vede la collaborazione dell’Enesselle Spettacoli con la guest star Reece Richards). Dopo due decenni, inoltre, la Gypsy ha inaugurato l’apertura di una nuova sede, Spazio Gypsy, in via Canelli 57, che va così ad aggiungersi al quartier generale di via Pagliani 25 a Torino. Guidato da Cristina Fraternale Garavalli Spazio Gypsy propone aule di danza, canto e recitazione per ogni tipo di attività. Molti corsi saranno dedicati al mantenimento fisico come pilates, rafforzamento muscolare e ginnastica dolce per adulti.

Durante la stagione, inoltre, da non perdere le tante masterclass (calendario in via di elaborazione) con le migliori star di Broadway e del West End di Londra di cui l’anno scorso è stata visiting professor alla Gypsy Alice Fearn protagonista dello storico musical “Weeked” attualmente al cinema in versione film. Tra le novità, la masterclass con un’eccellenza di casa nostra: Luca Vicini, bassista dei Subsonica.

 

Mara Martellotta

A Pupi Avati il premio speciale Fondazione CRT

In occasione del TFF al regista Pupi Avati è stato consegnato il premio speciale Fondazione C.R.T. 
Motiva la presidente dr.ssa Anna Poggi: “Pupi Avati è un esempio per tanti giovani artisti e creativi, una testimonianza che invita a credere nel potere dell’immaginazione e del sogno”.
Il premio è stato consegnato dal presidente della Commissione cultura della C.R.T. Giampiero Leo, in una serata al cinema Romano condotta dal direttore del TFF Giulio Base e affollatissima di fans del maestro e di esponenti del mondo del cinema, della cultura e delle istituzioni.

L’amore malato: al Cinema Massaua, Rotary Club Torino Next 

Si intitola “L’amore malato” il tema del convegno promosso dal Rotary Club Torino Next, in collaborazione con il progetto Rosa Next, che si terrà mercoledì 27 novembre prossimo alle ore 18 al teatro Cinema Massaua.

Il convegno vedrà la partecipazione di esperti e personalità impegnate nella lotta contro la violenza di genere e il supporto alle loro vittime.

Saranno relatori Rosanna Schillaci, delegata per le Pari Opportunità presso la Città Metropolitana di Torino, a cui si dovrà l’introduzione del tema sulle politiche locali e azioni istituzionali per contrastare questo fenomeno; Stefania Gerbino, membro del Consiglio Direttivo di Telefono Rosa, che porterà sul campo la propria esperienza in aiuto delle donne vittime di violenza; Anna Maria Zucca, presidente dei Centri Antiviolenza EMMA onlus e responsabile del progetto SOS sostegno orfani speciali, che parlerà del supporto dedicato alle orfani di femminicidio; Guido Barosio, direttore di Torino Magazine, che fornirà un’analisi culturale del fenomeno; l’avvocato penalista Maria Letizia Ferraris che illustrerà le difficoltà legali e le difficoltà nell’ottenere giustizia per le vittime, Walter Comello, psicoterapeuta, criminologo e psicopatologo forense, che approfondirà le dinamiche psicologiche degli autori di violenza. A moderare il dibattito Giovanni Firera, responsabile comunicazione del Rotary Club Torino Next.

Il convegno prenderà avvio proprio dall’espressione “c’era una volta “, la modalità con cui iniziano tutte le fiabe, alcune delle quali si trasformano, purtroppo, in vicende tristi e drammatiche. Esiste un sottile fil rouge di dolore che unisce autori della violenza e le loro vittime e che gradualmente allontana e trasforma le loro anime in malate. L’amore si trasforma e diventa paura, rabbia, dolore, violenza del corpo e della mente, senso di impotenza di una vita che non è più sotto il controllo di nessuno e diventa cattiva. È necessario, secondo i relatori, un nuovo modo di pensare che sappia creare strumenti di soluzione diversi dalla sola denuncia che, spesso non sa fermare gli impetuosi fiumi sotterranei dell’animo umano.

Mara Martellotta

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L’AMORE MALATO

Intervista a Walter Comello, psicoterapeuta, criminologo clinico e psicopatologo forense, curatore del convegno organizzato da Rotary Club Torino Next.

L’amore malato è un buon titolo per un convegno che parla di violenza sulle donne, perché c’era un tempo in cui l’amore era amore e poi è diventato altro.
Ne parliamo con Walter Comello, presidente di Rotary Club Torino Next, organizzatore del convegno, psicologo, psicoterapeuta, criminologo clinico e psicopatologo forense che nella sua attività si occupa di autori e vittime di reato.

D: Da dove nasce l’idea di questo convegno?
R: Credo che un’organizzazione come Rotary, che si occupa di aspetti diversi del sociale a livello locale e internazionale, fino ad ora abbia portato poca attenzione a questo argomento importantissimo della nostra vita. Io che in questo momento sono presidente del mio Club e vivo quotidianamente per la mia professione i drammi delle vittime e le incapacità devastanti dei responsabili, ritengo di dover porre l’attenzione su questo argomento, tentando di farlo in un modo diverso, mi auguro contributivo a una necessaria nuova cultura. Per questo al convegno sono invitate figure diverse, dalle Istituzioni alle Associazioni che più sono in prima linea nella difesa delle donne, come Telefono Rosa ed EMMA onlus, che si occupa anche di un importante progetto per bambini e ragazzi orfani di casi di femminicidio. Ci saranno poi professionisti che lavorano sul campo e il fine dell’incontro, aperto al pubblico, sarà di parlare di questo argomento dando voce a chi se ne occupa.
D: Cosa intende per nuova cultura?
R: Del problema si parla da molto tempo, senza ottenere risultati. Purtroppo i numeri delle denunce per stalking aumentano, il numero delle donne sottoposte a violenza fisica e/o psicologica aumenta e il numero dei femminicidi non cambia. Malgrado l’impegno di Organizzazioni e di molti, la situazione non è mutata. Einstein diceva che è necessario un nuovo modo di pensare per porre rimedio ai problemi creati da un precedente modo di pensare. Se non c’è una diagnosi corretta non si può fare una terapia corretta. Per prima cosa il problema della violenza sulle donne non va inteso come un problema con una soluzione, ma un problema che ha molte forme espressive e ognuna delle quali necessita di una specifica soluzione. Non si può pensare che sia solo un problema culturale, perché in molti casi la violenza che scaturisce nel femminicidio non deriva da cultura, ma da patologia causata dall’incapacità di alcuni soggetti ad accettare l’abbandono. Una donna ha diritto a farsi la sua vita, ma il diritto in alcuni casi deve tener conto delle reali circostanze. Due terzi della popolazione italiana regolarmente sposata è separata, nella stragrande maggioranza dei casi il diritto di una donna a rifarsi una vita corrisponde al diritto di un uomo a fare la stessa cosa, in alcune situazioni però esiste un’incapacità che va riconosciuta e necessariamente gestita. Da convegni come questo e dalla comunicazione che ne deriva deve emergere una cultura nuova, quella della prevenzione. C’è un tempo in cui il disagio o la patologia, come la di vuol chiamare, è necessario che sia riconosciuta in quanto tale e affrontata con le professionalità che lo sanno fare. Non si può pensare di sanzionare una patologia per risolverla, i malati si curano, i rei si sanzionano. In questo caso è opportuno occuparsi del disagio prima che questo diventi motivo di sanzione e questo è l’aiuto migliore da dare, prima che a quegli uomini, a quelle donne in difficoltà perché queste possano fare la loro vita senza diventare vittime.

D: Cosa pensa si debba fare?
R: Prima di tutto differenziare le situazioni per fare diagnosi diverse e di conseguenza terapie o prendere provvedimenti diversi. I luoghi comuni non servono e certi linguaggi diventano controproducenti. Una comunicazione non adeguatamente consapevole arriva solo alle vittime, le orienta non sempre alla soluzione migliore e non tocca minimamente chi non è in grado di ascoltare. Non si devono creare fronti, ma consapevolezze nuove. Il dolore affettivo è devastante, invalidante, non differenzia cultura o condizioni socioeconomiche, necessita di aiuto. Chi ha una cultura violenta, non dà nessuna importanza a tutte questa attenzione all’argomento, reputa legittime le sue azione, la sanzione non è per lui inibente e necessita, come viene definita negli Stati Uniti, di una moral therapy. Peraltro, alcune volte, l’eccessivo focus sull’argomento trascina in giudizio persone oggetto di speculazioni perché la legge ha i suoi, chiamiamoli così, vizi di forma.
D: Cosa deve fare una donna che si trova in difficoltà?
R: Mi auguro sempre più che possa usufruire di informazioni adeguate da renderla capace di distinguere, in casi diversi, cosa fare e chi può essere l’interlocutore che la può aiutare. Molto importante è il lavoro delle Associazioni Anti-Violenza, ma la denuncia non deve essere l’unica strada per affrontare il problema. Tutti vogliamo vivere in modo migliore in un mondo migliore, il giudizio è un istinto, ma produce conflitti; capire, non condividere, aiuta a ridurre di molto quei conflitti.

Charlie e la fabbrica di cioccolato

A Brandizzo, con la Compagnia Teatrale “Nuove Direzioni”, l’esclusiva italiana della versione di Broadway tratta dal celebre testo di Roald Dahl

Dal 29 novembre al 1° dicembre

Brandizzo (Torino)

L’appuntamento è a Brandizzo (Torino), in piazza Vittime di Nassirya. Ad accogliervi, niente meno che, un “teatro tenda”, montato per l’occasione. Lì siete cordialmente invitati ad assistere, dal 29 novembre al 1° dicembre, al noto musical “Charlie e la fabbrica di cioccolato” (nella versione di Broadway, esiste infatti anche una versione di Londra) esclusiva italiana del testo “Charlie and the chocolate factory” di Roald Dahl (Cardiff, 1916 – Oxford, 1990), scrittore – soprattutto per l’infanzia, non eccessivamente prolifico – spesso accostato a certe visioni e situazioni “dagli echi dickensiani”, nonché fantasioso sceneggiatore di film tratti dai suoi racconti che hanno conquistato adolescenti di tutto il mondo. Pur imitatissimo e proposto in molteplici varianti rivisitate, è la prima volta che il musical viene messo in scena in Italia e il merito va tutto alla Compagnia Teatrale “Nuove Direzioni”, nata nel 2011 a Brandizzo (con la missione di promuovere cultura teatrale, soprattutto fra i giovani e gli adolescenti). che ha acquisito da “MTI– Music Theater International” i “diritti ufficiali” del testo tradotto, per l’occasione, da Gabriele Casale e Sara Magaldi. La “Compagnia” brandizzese sarà così la prima “Compagnia Italiana” a portare in scena la versione di Broadway, campione di incassi e di critica.

La regia è di Alberto Casale e il musical sarà messo in scena venerdì 29 novembre alle 21, sabato 30 novembre alle 21 e domenica 1 dicembre alle 16 e alle 21. In totale, sono 1600 i posti disponibili, acquistabili su “Vivaticket” (adulti 25 euro, bambini fino a 10 anni, 20 euro). Sul palco ci saranno 19 artisti, capitanati da Willy Wonka, interpretato da Riccardo Fusero, e Charlie Bucket, alias Francesco De Tullio. La parte di danza e la coreografia, sarà curate da Serena Ferrari, forte della creazione di uno spettacolo come “Fuori. Storie dal manicomio”, reduce da 18 repliche e 18 sold out.

Il musical si avvarrà, inoltre, di un’orchestra dal vivo con 16 elementi, come peraltro prevede il “format” di Broadway – diretta sul palco da Elisa Bellezza, sotto la direzione artistica di Sara Magaldi e la direzione musicale di Michele Frezza – e di un “corpo di ballo” formato da 10 ballerini.

Il testo, si sa, è amatissimo da grandi e piccini ed è tornato alla ribalta dopo l’uscita, a dicembre 2023, del film “Wonka” diretto da Paul Thomas King, regista e sceneggiatore britannico, noto per aver diretto (prima di “Wonka”) nel 2014 e nel 2017 “Paddington” e “Paddington 2”.

In breve, la storia. Il famoso Willy Wonka sta aprendo le porte della sua misteriosa fabbrica, ma solo a pochi fortunati. Il giovane Charlie Bucket e altri quattro vincitori del biglietto d’oro intraprenderanno un viaggio che cambierà la loro vita attraverso un mondo di pura immaginazione, tra cui cascate di cioccolato, scoiattoli nocciola e il grande ascensore di vetro: il tutto verrà svelato dall’esercito di curiosi Umpa-Loompa di Wonka.

 “Apriamo simbolicamente – dichiara il regista Alberto Casale – il periodo natalizio con queste prime quattro date del musical che, poi, girerà l’ItaliaSiamo contenti di debuttare a Brandizzo: è una scelta fortemente voluta, è la città dove abbiamo sede.

Per info: “Nuove Direzioni”, piazza Carlo Tempia 2, Brandizzo (Torino); tel.377/1386968 o www.nuovedirezioni.org

g.m.

Nelle foto:

–       Immagine guida “Charlie e la fabbrica del cioccolato”

–       Willy Wonka

–       “Charlie e la fabbrica di cioccolato”