redazione il torinese

Il seggio del peccato

 Nonostante il calendario ricordasse che era trascorso più di un mese dall’equinozio di primavera, la campagna era avvolta da una fitta nebbia che ovattava ogni cosa. Gli stessi contadini commentavano con stupore il perdurare di questo fenomeno che, ormai da una decina di giorni, accompagnava le loro giornate. Anche nei due giorni delle elezioni politiche del 1963 quella  spessa coltre di goccioline d’acqua sospese in aria non aveva dato tregua agli abitanti di Stoppia. Stoppia: quattro case, una chiesa, un’osteria e qualche cascina sparsa costituivano questa piccola frazione di Borgobello. Gli elettori s’avvicinavano al seggio, allestito al piano terreno del locale che ospitava l’asilo e il consorzio agrario, a pochi metri dal luogo di culto dedicato alla Madonna della Neve, muovendosi come ombre diafane su quel fondale umido e grigio.

Non erano molti gli iscritti alle liste elettorali: un’ottantina, più o meno, in maggioranza uomini. Pochi se confrontati con le centinaia del capoluogo comunale, dove sorgeva il castello di famiglia di uno dei protagonisti del Risorgimento, tra i più noti uomini di Stato del Regno di Sardegna. La maggior parte degli abitanti di Stoppia erano dei contadini e, una volta sbrigati i lavori nei campi e soprattutto nelle stalle, date le circostanze del tutto anomale e particolari del tempo, avevano compiuto il loro dovere civico già nella mattinata di domenica, prima e dopo la messa. Pochi avevano scelto di votare prima di cena, dopo aver passato qualche ora all’osteria del Passero, tra una partita a scopa e tressette ch,e solitamente, aveva come posta il costo del mezzo litro di vino rosso. Al seggio, com’è facilmente intuibile, il tempo non passava mai e, terminato l’afflusso della prima metà della domenica, la noia e gli sbadigli accompagnavano il passare delle ore fino alla chiusura della sera. L’unico brivido della giornata era stato quando ci si accorse che il Luigino Bianchi che aveva votato non era lo stesso Luigino Bianchi di cui si era riportato nome e cognome sul registro, un caso di omonimia tanto frequente da indurre in errore in paesi dove i cognomi e persino i nomi uguali ricorrevano spesso e volentieri. L’età e la paternità erano l’unica differenza. Conoscendosi tutti, non veniva mai richiesta l’esibizione di un documento di identità. Lo sbaglio era sempre possibile anche se molto improbabile e quella volta, ciò che non doveva capitare era capitato. Verificato che il Bianchi votante era stato incasellato nel posto sbagliato, sottraendogli una decina d’anni d’età, era toccato al maresciallo Bordignoni recarsi a casa dell’altro Bianchi Luigino, pregandolo di andare al seggio a votare così da porre riparo all’errore senza troppi problemi. Il compito, a onor del vero, si era rivelato una vera impresa essendo “l’altro” Bianchi decisamente intenzionato a non votare e il povero maresciallo aveva dovuto sudare le proverbiali sette camicie prima di convincerlo, promettendogli anche un giro di vino chinato all’osteria del Passero che si trovava – per fortuna – proprio davanti al seggio. Equivoco a parte, se la domenica il tempo era passato lentamente, la mattina del lunedì sembrava un mortorio. A parte tre o quattro ritardatari e una decina di iscritti alle liste che vivevano in America dove erano emigrati in cerca di lavoro e di miglior fortuna, non si vide un’anima. Alla chiusura delle operazioni di voto, si passò rapidamente allo spoglio. Gli iscritti risultavano 83, dei quali 37 donne. I votanti erano stati 62, pari al 75%. I 59 voti validi  erano andati in larghissima maggioranza alla Democrazia Cristiana, con le preferenze quasi tutte appannaggio dell’onorevole Gentina, uomo forte della Coldiretti. A socialisti e comunisti, più o meno equivalendosi, era andato grosso modo un dieci per cento a testa, mentre gli altri partiti – Pli, Pri, Psdi e Msi  – si erano divisi i restanti consensi. Due le schede bianche messe a verbale, insieme a una terza, resa nulla dalla scritta “Viva la Rosetta”, informalmente attribuita al riottoso Luigino Bianchi che aveva una fidanzata con quel nome, dimorante in un paese limitrofo. In pratica, per  lo spoglio e la stesura del verbale definitivo, il Presidente del seggio, la sua segretaria e i due scrutatori impiegarono non più di un paio d’ore. Giunti a quel punto, si guardarono l’un l’altro in viso, senza aprire bocca. Un silenzio che durò qualche minuto, ma che ai cinque – essendosi aggiunto, nel frattempo, il maresciallo Bordignoni che si era fermato all’osteria per un caffè corretto grappa (necessario “causa nebbia”, ebbe a precisare…) – parve infinito. Poi, contemporaneamente, l’idea venne alla signorina Delonda e al presidente Trifolotti: rivedere il tutto, con calma ( ..“magari fino allo scoccare della mezzanotte”, aggiunse, strizzando l’occhio l’altro scrutatore, il ragionier Duilio Bianchi). Il motivo era ben chiaro a tutti: raggiungendo quell’ora, sarebbe scattato un altro giorno di riposo compensativo a carico del datore di lavoro che, nel caso non venisse fruito, sarebbe stato retribuito. Essendo tutti e quattro dei lavoratori dipendenti – chi nel settore pubblico e chi nel privato – l’idea era apparsa più che interessante. Il maresciallo, vista la sua posizione, fece finta di non sentire e di non vedere, sposando la filosofia del “vivi e  lascia vivere” che, in un piccolo paese, toglieva di dosso un sacco di problemi. L’unico rovello consisteva nel trovare un’occupazione che rendesse meno noiose quelle ore e qui il maresciallo calò l’asso: una bella merenda sinoira, sfruttando la vicinanza dell’osteria che era fornita di ogni ben di Dio e di una cuoca di indubbia (e positiva!) fama. L’idea venne approvata all’unanimità e, una volta coinvolto anche l’oste del Passero, messa in pratica. Spostata l’urna in un angolo, il tavolo venne coperto con una grande  tovaglia a quadretti bianchi e rossi e, come d’incanto, comparirono le vivande: pane, salame, formaggio e frittate; carne e zucchine in carpione, acciughe al verde e al rosso, vitello tonnato, insalata russa e capricciosa, tomini “elettrici”, “tome” da accompagnare con il miele o la “cugnà”. Dalla cantina al seggio, attraversando rapidamente la strada, erano arrivate alcune bottiglie di “quello buono” che, in realtà, era un vino locale mediocre. La signorina Delonda stupì tutti, rivelandosi un’ottima forchetta. Dove poi mettesse il tutto, essendo magra come un chiodo, rimase un mistero. Il mantenimento della “linea”, anche per gli altri commensali, era l’ultimo dei problemi: tutti in soprappeso, tut
ti pronti ad aggredire le pietanze con la stessa e famelica foga del vecchio Ruvido, il cane del dottor Ghiotti, il medico di famiglia, davanti ad un osso di prosciutto. Così, dopo aver oscurato l’unica finestra e badando che nessuno varcasse l’uscio del seggio trasformato in succursale dell’osteria, tirarono fino all’ora “delle streghe”. Scoccata la mezzanotte, un po’ traballanti, lasciarono il locale, chiudendosi alle spalle la porta. Il maresciallo prese in carico l’urna sigillata e il registro, caricandoli sulla Fiat Campagnola in dotazione all’Arma, con l’incarico di consegnarli in municipio. Fuori, la notte era buia e la nebbia ancora più fitta. Non abbastanza però da nascondere i manifesti elettorali affissi sul muro della cascina di fianco all’osteria. Accanto ad un ultimativo “Non si passa!”, raffigurante un ponte levatoio con lo scudo crociato e la scritta “Libertas”, si leggeva una scritta che ammoniva: “ Abbi timor di Dio, non commettere atti impuri, non peccare!”. I quattro si guardarono e si salutarono, avviandosi verso le rispettive dimore. In fondo, quel monito li riguardava solo marginalmente perché – pur trasgredendo, inscenando una piccola truffa – si era trattato, in fondo, di un peccato di gola.

Marco Travaglini

Originale (e squisita) la torta di mele senza farina

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In alternativa alla classica torta di mele vi suggerisco di provare questa particolare ed irresistibile variante. Un dolce delizioso realizzato senza farina, dalla consistenza morbida e dal sapore unico. Una coccola perfetta per palati golosi.
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Ingredienti

1,500kg. di mele Golden 
80gr.di amaretti
120gr. di savoiardi
180gr. di zucchero
40gr. di burro
1 bicchiere di vino bianco secco
3 cucchiai di rhum 
1 uovo intero e 1 tuorlo
75gr. di cacao in polvere
Zucchero a velo per decorare

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Cuocere le mele sbucciate e tagliate a dadini con il vino bianco e un cucchiaio di zucchero. Sbriciolare gli amaretti e i savoiardi. Frullare le mele, mescolando aggiungere il burro, il cacao, il rhum, lo zucchero rimasto e la polvere di amaretti e savoiardi. Incorporare le uova leggermente sbattute, mescolare bene. Imburrare uno stampo, spolverizzare con panepesto, versare il composto e infornare a 200 gradi per 90 minuti circa. Lasciar raffreddare e decorare a piacere con zucchero a velo.

Paperita Patty 

Mariolino e la guida dell’uomo “col cappello”

Da qualche anno possiedo una barca. E’ la Lampreda, cedutami a poco prezzo dal vecchio Lino Sgambarolli, costretto a buttar l’ancora sulla terraferma a causa dei reumatismi e della sciatica che l’hanno piegato in due.

La “sua” Lampreda era la terza di una serie. Diventata mia, riverniciata di bianco e d’azzurro, si è guadagnata il titolo di quarta. Lino mi aveva lasciato piena libertà. “Il nome deve essere quello che più ti piace. Non c’è l’obbligo di tener lo stesso e lo puoi cambiare, tanto lei – che la si chiami per nome o no –  volterà la prua dove decidi tu, manovrando il timone o il colpo di remi. Ma se ti garba chiamarla come l’ho chiamata io, fai una cosa: ribattezzala “quarta”, così la storia va avanti”. Mi raccontò che prima di lei c’erano state altre due Lamprede. La prima, messa in acqua, sul finire degli anni trenta s’inabissò nell’agosto del 1944 davanti alla Punta di Crabbia, dov’era ormeggiata. Un aereo tedesco, volando sul lago in appoggio a un rastrellamento contro i partigiani del Mottarone, tanto per sfogare la sua rabbia impotente visto che i partigiani se ne stavano nascosti nei boschi, la  colpì a morte con una raffica di mitraglia , sventrandole entrambe le fiancate. La seconda barca era stata bagnata nel maggio del 1947, dopo quasi tre anni durante i quali Lino fu costretto ad una lontananza forzata dal lago, minatore prima e scalpellino poi in terra di Francia, dalle parti di Lione. I magri guadagni lasciavano ben poco alla speranza di metter qualcosa da parte ma quei quattro franchi in croce e qualche lira racimolata vendendo un boschetto di castagni dalle parti di Brolo gli bastarono per l’acquisto di una modesta ma robusta lancia da lago. Per trent’anni Lino e la sua barca hanno attraversato in lungo e in largo il Cusio, pescando in ogni dove, con ogni tempo e in tutte le stagioni dell’anno. Fatto salvi, ovviamente, i periodi di ferma. Dalle rive lo salutavano, nei mercati si vendevano i suoi pesci ( almeno finché l’ammoniaca, il cromo e gli altri veleni non trasformarono, a poco a poco, l’acqua in aceto), nelle osterie capitava di ascoltare le sue storie al modico prezzo di un quartino di barbera del Monferrato. A metà degli anni ’80, una massiccia immissione di carbonato di calcio,  riportò l’acqua ad un valore accettabile di acidità. Quella grande pastigliona di bicarbonato fece digerire il lago, tanto che i pesci – dopo tanto boccheggiare – tornarono a respirare e Lino si rimise a pescarli con la sua Lampreda ( la seconda, appunto). Giunta alle soglie del pensionamento forzoso, dopo più di trent’anni di onesta navigazione, figli e nipoti gli fecero una grande sorpresa, regalandogli un gioiello di barca, uscita fresca, fresca  dai cantieri navali di Solcio, sul lago Maggiore. La forma aguzza, slanciata; il fasciame di legno liscio e brillante, gli scalmi d’acciaio inossidabile, lucidi come i pomelli della stufa dell’osteria dove andava a far bisboccia. Un bijoux che si è goduto per poco. Lino è stato un gran vogatore che solo negli ultimi anni si è arreso al motore. Io non ho la sua tempra e seppur non disdegnando d’infilare i remi negli scalmi e darci dentro a bracciate regolari, uso frequentemente il motore. Al calare della sera, tiro in secca la barca nei pressi dell’ex Canottieri, dalle parti dell’Ospedale della Madonna del Popolo. A volte la ricovero da Mariolino, alla Bagnera di Orta. Una soluzione abbastanza comoda, dato che possiede uno sgabbiotto, chiuso con catena e lucchetto, dove si possono ritirare remi e motore. A far la guardia c’è Lupo, il cane di Mariolino: un bastardino bianco e nero che tira fuori i denti e ringhia proprio come un lupo quando s’avvicina un estraneo. “ Il tuo motore è come in banca, lì dentro”, rassicura Mariolino. Non ne dubito affatto. Lupo  esegue l’incarico come un mastino. E se il suo padrone gli dice di star di sentinella ( proprio così..”di sentinella” ) si può scommettere che lui ci mette una grinta sufficiente a scoraggiare i malintenzionati. Mariolino è fortunato ad avere, come “migliore amico dell’uomo” quel cagnetto. Sono sempre insieme, anche quando Mariolino guida la sua vecchia NSU Prinz. Lupo guarda fuori dal finestrino laterale, ringhia alle auto, abbaia alle luci colorate del semaforo, scodinzola quando si passa davanti all’osteria dove la signora Maria spesso gli “allunga” un cartoccio d’avanzi. Il problema è che  Mariolino, con la sua guida da “uomo col cappello”,  fa venire i brividi gelati lungo la schiena. Avete presente quella categoria di automobilisti che, con il loro stile di guida, fanno dannare l’anima? Se si ha la sventura di incontrarne uno così, magari su una strada stretta e tutta curve, o – peggio – essere costretti a stargli dietro mentre arranca sui tornanti, non ci sarà alcun bisogno di usare la tenaglia per strapparvi dalla gola il peggior campionario di accidenti, riversandoglielo addosso. Perché quando si mette al volante un “uomo col cappello” sono guai seri. Non superano mai i trenta all’ora, viaggiano a centro strada, frenano in continuazione, pigiano continuamente il clacson. Impermeabili a tutto: impettiti, con gli avambracci tesi e le mani intente a strangolare il volante. In più, come un distintivo, l’immancabile copricapo ben calcato sulla nuca. In casi come questi il vero malcapitato sei tu, povero diavolo, costretto a guidare a passo d’uomo, alternando il piede da un pedale all’altro: acceleratore ,freno, frizione. Cambio. Freno, acceleratore. Attento a non tamponarlo,  roso dall’indecisione sull’eventuale sorpasso. Manovra, quest’ultima, caldamente sconsigliata: l’uomo col cappello può decidere di svoltare da un momento all’altro, senza preavviso e, dunque, senza mettere la freccia. L’assoluta certezza che lo anima è proporzionale all’incapacità che manifesta impugnando il volante. Dunque, mai sottovalutare chi guida con il cappello. Non conviene contraddirlo. Non mettetegli fretta, armatevi di pazienza e fatevene una ragione. Ecco, Mariolino è uno di questi. L’ esatto contrario del mito futurista della velocità. Più lento della lentezza ma senza alternativa: prendere o lasciare. Si vede proprio che chi nasce uomo d’acqua fa fatica a muoversi con quattro ruote sulla terraferma.

Marco Travaglini

Duecentomila Lire per il monumento di piazza Bodoni

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Alla scoperta dei monumenti di Torino / Il monumento equestre si erge fiero ed imponente nel centro della piazza. Il generale Alfonso Ferrero della Marmora viene rappresentato con indosso la sua divisa militare, il mantello sulle spalle ed il capo calzato di feluca voltato verso sinistra, mentre è in sella ad un elegante cavallo con la zampa sinistra sollevata in segno di forza ed autorevolezza

Eccoci di nuovo pronti ad accompagnare i nostri lettori alla scoperta delle meravigliose opere d’arte presenti a Torino. Oggi vogliamo soffermarci sulle maestosità equestri, prendendo come soggetto della nostra usuale passeggiata “con il naso all’insù”, il monumento dedicato ad Alfonso Ferrero della Marmora. (Essepiesse)

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Il monumento equestre si erge fiero ed imponente nel centro di Piazza Bodoni. Il generale Alfonso Ferrero della Marmora viene rappresentato con indosso la sua divisa militare, il mantello sulle spalle ed il capo calzato di feluca voltato verso sinistra, mentre è in sella ad un elegante cavallo con la zampa sinistra sollevata in segno di forza ed autorevolezza. Il generale ha gli stivali infilati nelle staffe e mentre con la mano sinistra stringe le briglie, con la destra impugna la spada puntandola in avanti, di fianco alla gamba. La statua poggia su un piedistallo lapideo quadrangolare arricchito da importanti volute angolari e ornato con elementi in bronzo, foglie d’acanto e teste di leone. Nel gennaio 1878 morì a Firenze Alfonso Ferrero della Marmora, tenente generale e comandante dell’esercito, ministro della Guerra nei governi Pinelli, Gioberti, D’Azeglio e Cavour, governatore di Milano, prefetto di Napoli nel 1861 e primo ministro a Torino dal 1864 al 1866. Due giorni dopo la città di Torino, con una delibera della Giunta, decise di rendere onore alla memoria del generale erigendogli un monumento pubblico, mettendo a disposizione 20.000 lire e aprendo una sottoscrizione di ampiezza nazionale. 

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Il proposito era quello di realizzare un’opera di particolare rilevanza sia dal punto di vista artistico che dimensionale, un “Monumento Nazionale” per l’appunto, il cui costo fu stimato intorno alle 200.000 lire. Al finanziamento dell’opera partecipò anche il capitano Luigi Chiala, deputato al Parlamento e amico intimo di La Marmora, che inviò le 9.011 lire ricavate dalla vendita delle sue memorie, intitolate “Ricordi della giovinezza di Alfonso La Marmora” e “Commemorazione di Alfonso La Marmora”. La raccolta di fondi, nonostante la notevole partecipazione, riscontrò una notevole difficoltà nel raggiungere la cifra necessaria, tanto che il Municipio di Torino dovette mantenere aperta la sottoscrizione per ben dodici anni. Visto l’evolversi della situazione il marchese Tommaso della Marmora, nipote del generale e suo erede, preoccupato per il protrarsi dei tempi e per l’insufficienza dei fondi fino ad allora disponibili (nel 1890, anno della chiusura della sottoscrizione, si era raccolta la cifra di 73.639 lire) propose alla città di occuparsi direttamente della realizzazione dell’opera, integrando la somma raccolta con capitali propri. Tale proposito, che evidentemente aveva in mente da qualche tempo, l’aveva portato ad affidare il disegno del bozzetto di “una statua equestre in bronzo, grande circa due volte il vero, con proporzionato piedistallo” al conte Stanislao Grimaldi, aiutante in campo del generale e Regio disegnatore del re Vittorio Emanuele II che, si presume, portò a compimento l’opera senza ricevere alcun compenso. Nell’ottobre del 1886 Tommaso della Marmora, in accordo con lo scultore Grimaldi, propose al Municipio di collocare la statua al centro della nuova piazza Bodoni. Su richiesta del Sindaco di Torino, nel 1889 il Ministero della Guerra venne coinvolto nella realizzazione dell’opera equestre, rendendosi disponibile a fornire il bronzo necessario; la fusione del monumento venne eseguita nel 1891 nel Regio Arsenale di Torino, a spese del Ministero.Per la protezione del monumento si ebbe l’idea di realizzare una cancellata su disegno dell’Ing. Lorenzo Rivetti, già ideatore dell’elegante piedistallo su cui poggia la statua, ma fotografie di Mario Gabinio del 1924, testimoniano invece la presenza di una delimitazione costituita da catene poggianti su pilastrini in pietra, che venne in seguito rimossa. 

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Finalmente il 25 ottobre 1891, alla presenza di numerose autorità politiche, civili e militari, venne inaugurata l’opera dedicata a Alfonso Ferrero della Marmora; per l’occasione il Municipio di Torino “vestì a festa” piazza Bodoni addobbando i balconi delle case, allestendo alcuni palchi e studiando una “illuminazione straordinaria”.Va ricordato e fatto notare che il monumento a La Marmora è l’unico monumento equestre, presente a Torino, dedicato ad un militare e uomo politico. Per quanto riguarda un piccolo accenno alla piazza che ospita l’opera, va ricordato che Piazza Bodoni (inserita nel cosiddetto Borgo Nuovo), ha origini ottocentesche ed è stata realizzata frammentariamente nel corso di oltre un secolo. Il primo intervento edilizio risale al primo decennio dell’Ottocento ma, per giungere alla conformazione attuale della piazza, bisognerà attendere fino al 1928, anno nel quale venne realizzato l’edificio che accoglie l’Istituto Musicale Giuseppe Verdi, diventato dal 1936 Conservatorio di Stato.Nel 2002 piazza Bodoni è stata interessata da un intervento di riqualificazione: è stata pedonalizzata e ripavimentata con lastre in pietra poste secondo un disegno a cerchi concentrici che hanno come fulcro il monumento a Alfonso Ferrero della Marmora.

 

 

Simona Pili Stella

(Foto: www.museotorino.it)

 

L’omaggio di Torino a Giuseppe Mazzini

Alla scoperta dei monumenti di Torino / Oggi il plumbeo monumento si erge fiero in mezzo a quella che è diventata una delle piazzette pedonali della città più “bazzicate” dai giovani, che hanno fatto della maestosa scultura e dei gradoni perimetrali del suo basamento, uno spontaneo ed appartato punto di ritrovo

Collocato in via Andrea Doria, angolo via Dei Mille, precisamente sullo spiazzo di confluenza tra le due vie, Giuseppe Mazzini viene raffigurato in una scultura bronzea, seduto in atteggiamento pensoso, avente una mano poggiata a sostenere il capo e l’altra su un pastrano adagiato sulle gambe. Il piedistallo lapideo è ornato da simboli della classicità rappresentati superiormente da due tripodi, collocati ai lati della statua e inferiormente, da pannelli bronzei disposti in sequenza. Nel pannello centrale è rappresentata la lupa capitolina nell’atto di allattare i gemelli, in riferimento alla Repubblica Romana, mentre sui restanti prospetti figurano corone di lauro che circondano i nomi dei principali sostenitori di Mazzini. Il sottostante basamento presenta, anteriormente, dei gradini simmetrici in ascesa verso la scultura. Nato a Genova il 22 giugno 1805 (quando Genova era ancora parte della Repubblica Ligure annessa al Primo Impero Francese), Mazzini è stato un patriota, uomo politico, filosofo e giurista italiano. Costituì a Marsiglia nel 1831 la Giovine Italia, fondata sui principi di “Dio e popolo” e “pensieri e azioni” volti a promuovere l’indipendenza della penisola dagli stati stranieri e la costituzione dell’Italia fondata sui principi della repubblica. Anche se osteggiato dal protrarsi dell’esilio forzato e dai contrasti in patria con la ragione di stato (promossa da Camillo Benso Conte di Cavour e da Giuseppe Garibaldi), Mazzini perpetuò il suo impegno politico che contribuì in maniera decisiva alla nascita dello Stato Unitario Italiano.

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Nello stato riunificato risiedette nell’ultimo decennio della sua vita come “esule di patria”, sotto falso nome; morì a Pisa il 10 marzo del 1872. In Torino come in altre numerose città della nazione, quale atto di riconoscimento al suo impegno, fu eseguito postumo il monumento in suo onore. Per quanto riguarda la città di Torino, nell’intenso programma delle manifestazioni svolte nella città per il giubileo dell’Unità d’Italia, nel 1911, venne istituito un apposito Comitato per erigere un monumento in memoria di Giuseppe Mazzini, distintosi come uno dei principali rappresentanti del Risorgimento italiano. L’iniziativa, promossa dalla Sezione Repubblicana Torinese, sorse in concomitanza alla ricorrenza del quarantesimo anniversario dal decesso del patriota genovese, di cui erano in corso i preparativi per le celebrazioni. Il Comitato sottopose all’Amministrazione comunale la domanda di aderire all’iniziativa ma la proposta venne osteggiata in quanto, si affermava, fosse avanzata da un gruppo partitico; per non pregiudicare l’esito della richiesta venne costituito un nuovo Comitato dichiarante l’estraneità ad ogni questione politica. Nel 1913 l’istanza di questo nuovo Comitato venne favorevolmente accolta dal Consiglio Comunale. Assunse l’incarico per l’ideazione del complesso scultoreo, Luigi Belli, docente presso la regia Accademia Albertina di Belle Arti ed esecutore di significative opere nella città. Belli accettò l’incarico senza richiedere alcun compenso per la sua attività (consapevole forse che sarebbe anche stata la sua ultima opera data l’avanzata età) ma domandò unicamente il rimborso per le spese sostenute nella realizzazione della proposta.

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Nonostante la rinuncia dell’artista, il bozzetto dell’opera venne approvato stimando un importo considerevolmente superiore a quello stabilito per l’esecuzione del monumento, quindi per arginare i limiti economici incorsi, l’Amministrazione concesse una agevolazione per il pagamento del dazio sui materiali, contrattò con il Ministro della Guerra in Roma per l’acquisizione del bronzo necessario ad un prezzo agevolato, mentre il Comitato promosse una pubblica sottoscrizione presso municipi, istituti civili e militari nazionali. Successivamente i modelli in creta a scala reale della statua e di un altorilievo, furono inviati alla fonderia scelta dal Belli, con sede presso Milano, per eseguirne la fusione in bronzo; la statua bronzea ed il relativo modello in gesso, vennero recapitati a Torino, su un carro ferroviario atto al trasporto speciale, l’11 maggio 1917. Il complesso scultoreo fu posto in opera, nonostante fosse privo dell’altorilievo rappresentante la “Libertà” (non consegnata forse a causa di un compenso non corrisposto dal Comitato), figurando ugualmente come un altare alla repubblicana libertà. L’inaugurazione della scultura commemorativa dedicata a Mazzini si svolse il 22 luglio 1917. La cerimonia del monumento si celebrò in presenza di autorità nazionali e cittadine, in una città dall’atmosfera poco festosa a causa della popolazione mobilitata sui fronti della Prima Guerra Mondiale. Oggi il plumbeo monumento si erge fiero in mezzo a quella che è diventata una delle piazzette pedonali della città più “bazzicate” dai giovani, che hanno fatto della maestosa scultura e dei gradoni perimetrali del suo basamento, uno spontaneo ed appartato punto di ritrovo.

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(Foto: www.museo.torino.it)

Simona Pili Stella

Le polpette al forno di nonna Graziella

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La cottura al forno le rende leggere, croccanti fuori e morbide dentro

Un ottimo secondo adatto ad ogni occasione. Le polpette sono semplici e veloci da realizzare, apprezzate da grandi e piccini si possono preparare con svariati ingredienti e non deludono mai. La cottura al forno le rende leggere, croccanti fuori e morbide dentro.

Tutte da gustare!

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Ingredienti:

300gr. di avanzi di carne di pollo o vitello arrosto

2 patate lesse

3 uova intere

2 cucchiai di olive taggiasche

40gr. di parmigiano grattugiato

1 limone

Un ciuffo di prezzemolo

Pangrattato q.b.

Sale, pepe q.b.

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Mettere nel mixer la carne con le patate, due uova intere, il parmigiano, il prezzemolo e la buccia del limone grattugiata. Tritare il tutto sino ad ottenere un composto omogeneo ma non troppo fine. Tritare le olive ed aggiungere al composto, salare e pepare. Formare le polpette pressandole leggermente, passarle prima nel rimanente uovo sbattuto e poi nel pangrattato. Cuocere in forno a 200 gradi per circa 25 minuti o sino a doratura.

Paperita Patty

Il Duca sul cavallo ferito

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Alla scoperta dei monumenti di Torino

Viste le dimensioni dell’opera e l’impossibilità di realizzarla nello studio fino ad allora utilizzato presso la Cavallerizza Reale, il re gli fece costruire per lo scultore un locale apposta all’interno dei Giardini Reali nel quale, a partire dal mese di apriledel 1863, l’artista iniziò a lavorare

Situato al centro di Piazza Solferino, in asse con via Vittorio Alfieri, nello spazio compreso dalle due aiuole rialzate, il Duca di Savoia in alta uniforme è rappresentato in sella al suo destriero in azione di battaglia. Il cavallo viene rappresentato ferito al petto, mentre stramazza al suolo con le zampe posteriori a terra; il cavaliere invece si volge verso destra e alla ricerca dell’equilibrio, punta lo stivale destro in appoggio, volgendo il capo tiene sollevata orizzontalmente la spada mentre con la mano sinistra regge le briglie. La statua poggia su un piedistallo lapideo quadrangolare sui cui lati destro e sinistro campeggiano due altorilievi dedicati alla battaglia della Bicocca e all’assedio di Peschiera. Ferdinando di Savoia, secondogenito del re Carlo Alberto, nacque a Firenze nel 1822. Entrato giovanissimo nell’esercito piemontese, nel 1848divenne a capo dell’assedio di Peschiera. Durante i Moti, al comando della quarta Divisione, combatté valorosamente per l’indipendenza italiana; morìa Torino nel febbraio 1855. Qualche anno dopo il re Vittorio Emanuele II, in memoria delle imprese militari compiute dal fratello, decise di innalzargli un monumento in Torino: una statua equestre che lo rappresentasse in azione durante la memorabile battaglia della Bicocca. Nell’aprile 1862 Alfonso Balzico, scultore della Casa Reale di Savoia, venne incaricato ufficialmente, con regolare convenzione, dell’esecuzione del monumento e messosi subito al lavoro, dopo numerosi tentativi poiché mai si accontentava del risultato, realizzò il bozzetto definitivo, approvato dal re nel novembre dello stesso anno. Viste le dimensioni dell’opera e l’impossibilità di realizzarla nello studio fino ad allora utilizzato presso la Cavallerizza Reale, il re gli fece costruire un locale apposta all’interno dei Giardini Reali nel quale, a partire dal mese di aprile del 1863, l’artista iniziò a lavorare. Trasporre l’idea in un modello realizzabile risultò un processo tutt’altro che semplice, sia per il difficile equilibrio statico dell’opera, sia per i rapporti armonici che dovevano essere impostati tra cavallo e cavaliere: la postura eretta del duca si trovava, infatti, a dialogare con un cavallo inglese prostrato, posa tutt’altro che consueta per un monumento equestre. Fu così che per giungere al modello definitivo Balzico dovette realizzarne tre. 

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Finalmente soddisfatto del risultato, dopo svariati tentativi, gli sembrò di aver completato l’opera. Tuttavia, tornato a Torino dopo un viaggio a Firenze, quando avrebbe dovuto porre mano ai preparativi per la fusione, venne ancora tormentato dal dubbio che qualcosa non andasse. Gli venne allora in soccorso l’amico Vincenzo Vela che, dopo aver visto il suo lavoro, commentò così: “Vedi, non è buona la piega del calzone al ginocchio destro, correggila e metti un puntale di ferro sotto la mascella sinistra del cavallo. Poi, basta! Se non hai altre commissioni, cercane, perché questo lavoro è finito, ed è finito in modo che ti farà grande onore. Vorrei averlo fatto io!”. Il monumento, finito, rappresentava il duca nel momento di incitamento ai suoi soldati per riprendere la Bicocca durante la battaglia di Novara del 1849, mentre il suo terzo cavallo cadeva, ferito a morte da un proiettile al petto. Nel febbraio del 1867 l’opera venne portata a Firenze, dove Clemente Papi si apprestò al delicato lavoro della fusione che, a causa di una serie di vicende difficoltose, si concluse solo nel 1870. Tra il 1872 e il 1873 Balzico modellò i due altorilievi da apporre sul basamento, anch’essi inviati a Firenze; la fusione, eseguita da Pietro e Leopoldo Galli, successori del Papi, si concluse nei primi mesi del 1877. Per quanto riguarda invece la collocazione della statua, bisogna tener presente che il Re desiderava fosse posta dal Municipio all’Arsenale Militare. In questo senso, nel maggio 1866, la Commissione d’Ornato nominò una sottocommissione con lo scopo di individuare il sito più adatto; già nel mese di giugno la sottocommissione, dopo aver valutato alcune piazze torinesi, suggerì di posizionarlo al centro di piazza Solferino. Tuttavia il Sindaco Felice Rignon, forse non pienamente convinto della proposta, chiese alla Giunta di nominare una nuova Commissione per esprimere un giudizio definitivo da sottoporre all’approvazione del Consiglio Comunale. Il 26 giugno 1874 il Consiglio Comunale approvò la soluzione definitiva che vedeva il monumento posto al centro di piazza Solferino sul protendimento di via Alfieri. In seguito il professor Balzico venne incaricato dalla Casa Reale di fornire al Municipio, al quale l’opera venne donata, i disegni del basamento e della cancellata, per la realizzazione dei quali il Municipio promosse un’asta pubblica.

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Essendo però l’opera a Firenze, nell’aprile del 1877 il Municipio di Torino e la Brigata Ferrovieri del Genio stipularono una convenzione che regolava il trasporto del monumento. Partito da Firenze il 18 aprile 1877, il monumento a Ferdinando di Savoia giunse finalmente nella città di Torino nel maggio di quello stesso anno. La sera del 10 giugno 1877 venne inaugurato solennemente alla presenza di Ministri, Senatori, Deputati, numerose personalità e “un’onda interminabile di popolo”; l’opera, svelata tra l’ammirazione generale, venne donata, alla fine della cerimonia, dal re Vittorio Emanuele II alla città. Parlando dell’opera del Balzico non si può non fare un piccolo accenno per quel che concerne piazza Solferino,forse una delle piazze della città più “chiacchierate” negli ultimi anni. Sostanzialmente polo nodale di allacciamento e saldatura tra la città barocca e il tessuto di espansione tardo-ottocentesca, piazza Solferino vide il suo primo progetto di sistemazione nel 1870. Se in quell’epoca la piazza presentava tipici caratteri di perifericità, nel progetto il prolungamento di via Alfieri diviene l’asse portante trasversale del nuovo spazio urbano, caratterizzato da due aiuole simmetriche rettangolari e dal 1872, si dà inizio alla costruzione di alcune palazzine di due o tre piani con giardino. Solo quattro anni dopo, nel 1876, le palazzine appena costruite vennero trasformate in edifici da reddito; in questo scenario, nel 1877, venne inaugurato il monumento a Ferdinando di Savoia. A partire dal 2004 però, lo scenario che costituiva il fondale percettivo del monumento è stato temporaneamente modificato; in questi anni infatti le aiuole centrali hanno ospitato i padiglioni di Atrium, nati per la promozione dei Giochi Olimpici Invernali del 2006, poi dedicati alla comunicazione istituzionale della Città. E proprio l’evento olimpico è stato così l’occasione per impostare un nuovo uso di piazza Solferino, divenuta un nucleo centrale di attività aggregative e di comunicazione, portando anche parallelamente una ridefinizione degli usi dello spazio gravitante intorno a Ferdinando di Savoia. Come ogni settimana anche questo appuntamento si conclude qui. Sperando di avere allietato i nostri lettori, non possiamo far altro che ricordare l’appuntamento alla prossima settimana per la nostra passeggiata “con il naso all’insù”.

Simona Pili Stella

(Foto: il Torinese)

Bottero, il “papà” della Gazzetta del Popolo

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Alla scoperta dei monumenti di Torino / Oggi parleremo del monumento dedicato al giornalista e politico italiano Giovanni Battista Bottero, situato in Largo IV Marzo meglio conosciuta come piazzetta IV Marzo. (Essepiesse)

Su un ampio basamento in pietra al lato del giardino, verso il Duomo, si erge la figura in bronzo di Giovanni Battista Bottero. L’uomo è rappresentato in piedi con una redingote abbottonata (abbigliamento che il giornalista usava abitualmente nelle sue giornate di lavoro), mentre nella mano destra tiene una copia del giornale “La Gazzetta del Popolo” 

La statua poggia su un imponente basamento realizzato in prezioso marmo Botticino e sul cui fronte è posizionata una lastra con sopra delle epigrafi dedicatorie che, essendo posta alle spalle del monumento, funge da elemento architettonico di sfondo. In quest’opera è particolarmente ricercato l’effetto di contrasto tra la patina scura del bronzo e il bianco avorio del marmo del basamento.

Giovanni Battista Bottero nacque a Nizza il 16 dicembre del 1822. Dopo aver conseguito nel 1847 la laurea in medicina, decise di dedicarsi alla carriera giornalistica (sua passione fin da quando era ragazzo) e così il 16 giugno 1848 fondò a Torino, insieme allo scrittore Felice Goevan e al medico Alessandro Bottella, il quotidiano “La Gazzetta del Popolo”.Per Bottero gli anni che seguirono furono impregnati di grande passione politica: essendo il quotidiano più diffuso durante gli anni del Risorgimento, egli riuscì tramite il suo giornale a compiere azioni incredibili, come ad esempio far firmare (il 10 settembre 1849) il proclama agli elettori di Bobbio per la nomina a deputato di Giuseppe Garibaldi, oppure lanciare una sottoscrizione (il 14 gennaio 1850) per consegnare una spada d’onore sempre a Garibaldi che all’epoca si trovava in esilio.

Nel 1855, dopo diverse battaglie “mediatiche” portate a termine dal suo quotidiano, Bottero decise di entrare in politica e si presentò nel collegio elettorale di Nizza, dove vinse con 411 voti su 625 votanti; il 27 giugno 1855 entrò nel Parlamento subalpino. Nonostante si affermò come figura politica, nel 1870 decise di abbandonare la sua carriera all’interno del Parlamento per dedicarsi completamente al suo giornale.Prese la direzione del quotidiano nel maggio del 1861 (quando prese il posto di Govean) e mantenne tale posizione fino al 1897. In quegli anni “La Gazzetta del Popolo” fu un punto di incontro per personaggi di grande rilievo: in campo politico seguì un orientamento liberale, anticlericale e monarchico, appoggiando la politica di Cavour e il programma risorgimentale di unificazione italiana. Il quotidiano svolse inoltre una importante funzione sociale propulsiva e di coordinamento nei confronti dell’intero movimento delle società di mutuo soccorso dello Stato sardo.Giovanni Battista Bottero morì il 16 novembre del 1897 all’età di 75 anni.

A pochi giorni dalla sua morte un Comitato di cittadini presieduto da Tomaso Villa, si attivò per la realizzazione di un monumento alla sua memoria e grazie ad una sottoscrizione pubblica nazionale, vennero raccolti i fondi necessari e fu incaricato lo scultore Odoardo Tabacchi, che lavorò all’opera tra il 1898 e il 1899. Il monumento venne concluso nel settembre del 1899 e si decise di collocarlo proprio in Largo IV Marzo, dove vi era la sede della “Gazzetta del Popolo”; su consiglio di Odoardo Tabacchi e del Sovrintendente dei Giardini municipali, venne posizionato nella parte orientale dell’aiuola IV Marzo, proprio di fronte alla sede del quotidiano.Venne inaugurato e ceduto alla città, il 12 novembre del 1899 con una solenne cerimonia a cui parteciparono centinaia di persone.

Anche per oggi la nostra passeggiata “con il naso all’insù” termina qui. Vi aspetto per il prossimo appuntamento con Torino e le sue meravigliose opere da scoprire.

 (Foto: www.museotorino.it)

Simona Pili Stella

Linguine in crema di noci: avvolgenti e cremose

In pochi minuti avrete una salsa delicata, avvolgente e cremosa per condire in modo semplice la vostra pasta

 

Le noci, come tutta la frutta secca, hanno molto da offrire, sono ottime per le loro proprieta’ nutrizionali e si possono utilizzare in tantissimi modi. Vi suggerisco questo primo piatto che si prepara molto velocemente, a crudo, utilizzando un mortaio o un mixer. In pochi minuti avrete una salsa delicata, avvolgente e cremosa per condire in modo semplice la vostra pasta.

 

Ingredienti per 4 persone:

 

320gr. di pasta tipo linguine

200gr. di ricotta piemontese

50gr. di gherigli di noci

½ spicchio di aglio

Olio evo, latte,pepe,sale q.b.

2 foglioline di menta fresca (facoltativo)

 

Nel mortaio, o nel mixer, mettere i gherigli di noce, l’aglio, il pepe il sale, la menta e tritare tutto grossolanamente. In una ciotola mescolare bene la ricotta, aggiungere il trito di noci, qualche cucchiaio di latte e l’olio evo. Quando la pasta e’ cotta, scolare e condire subito. Servire immediatamente poiche’ tende ad asciugare in fretta.

 

Paperita Patty

Calamari, speciali in tutte le stagioni

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Gusto e colore per questa deliziosa insalata di pesce.

Delicata e leggera è adatta come antipasto o come secondo, speciale in estate ma ottima da servire durante tutto l’anno, anche tiepida. 

Ingredienti 

2 Calamari freschi 
1 patata 
1 carota 
Pomodori Pachino q.b. 
1 limone 
Olio evo, sale, pepe, prezzemolo q.b. 

Lavare e pulire i calamari, cuocerli per alcuni minuti in acqua salata (fino a quando risultano teneri, dipende dalle dimensioni). Lasciar intiepidire e tagliare a pezzi. 
Cuocere a vapore la patata e la carota, lasciar raffreddare e tagliare a pezzi. Lavare i pomodorini e tagliarli a metà. In una terrina unire tutti gli ingredienti, condire con olio evo, succo e buccia grattugiata di limone, sale, pepe e prezzemolo tritato. Servire tiepido o freddo. 

Paperita Patty