redazione il torinese

Pugaciòff, "luposki della steppaff”

Nella sua prima storia, “Il lupo della steppa” (“Cucciolo” n.10/1959), verrà presentato a Cucciolo e Beppe, che lo “adotteranno” come cane da guardia, da un buffo ometto, cosacco del Don, chiamato Ivan Ilià.In seguito assunse le fattezze di un animale antropomorfo ed eretto (come, del resto, fecero Cucciolo e Beppe), acquisendo anche il “dono” della parola, esprimendosi con un russo maccheronico esilarante ( il pane era il paneff, l’acqua acquoski, macchina macchinawsky, e così via…)

Pugaciòff, il “luposki della steppaff“, è un personaggio dei fumetti ideato nel 1959 da Giorgio Rebuffi che lo inserì, come comprimario, nelle storie di Cucciolo e Beppe, pubblicate dalle Edizioni Alpe. Gianpaolo Bombara, vicepresidente dell’associazione culturale ComixCommunity, sul sito di Rebuffi (morto a 86 anni,nel 2014 ) raccontò che alla guida della grande insurrezione cosacca sul finire del Settecento, c’era un rivoluzionario cosacco del Don, Emel’jan Ivanovič Pugačëv (talvolta italianizzato in Emiliano Pugaciòf ), dal cui nome, probabilmente,  Rebuffi si era ispirato per il suo personaggio. All’inizio, e per parecchio tempo, Pugaciòff si presentò come un vero e proprio canide a quattro zampe, capace di esprimersi solo attraverso la rappresentazione dei propri pensieri. Infatti, nella sua prima storia, “Il lupo della steppa” (“Cucciolo” n.10/1959), verrà presentato a Cucciolo e Beppe, che lo “adotteranno” come cane da guardia, da un buffo ometto, cosacco del Don, chiamato Ivan Ilià.In seguito assunse le fattezze di un animale antropomorfo ed eretto (come, del resto, fecero Cucciolo e Beppe), acquisendo anche il “dono” della parola, esprimendosi con un russo maccheronico esilarante ( il pane era il paneff, l’acqua acquoski, macchina macchinawsky, e così via…). Il “luposki della steppaff” era un personaggio dal carattere deciso, irascibile, sovversivo e “divorato” da una fame atavica. Il suo bersaglio preferito (e unico scopo della vita, al punto di volerselo mangiare, crudo o cotto) era il grasso malfattore Bombarda, antagonista storico di Cucciolo, Beppe e Tiramolla.

Il povero Bombarda– con il suo degno socio Salsiccia –, terrorizzato dal luposky, prese poi le sue contromisure, piazzando nella piscina del suo giardino una guardia del corpo efficacissima, lo squalo Geraldo. Il successo del lupo fu clamoroso, in Italia e all’estero.Tra il 1959 e il 1970 furono pubblicate un centinaio di storie sull’ albo “Cucciolo” e sugli “Almanacchi e Strenne di Cucciolo”, pubblicate da Edizioni Alpe. In seguito alla chiusura della casa editrice, a metà anni ottanta, altre storie videro la luce per conto della Vittorio Pavesio Production, sul Tiramolla di A. Vallardi Editore ed altri. Luciano Tamagnini, capo redattore della rivista “Fumetto”, presentando il volume “Pugaciòff & dintorni”, scrisse così del “luposki” : “..forse è proprio perché Pugaciòff non rinuncia ad essere se’ stesso che ancora oggi è fresco e vivace. […] E allora “Attenti al lupo”, cioè attenti a non dimenticarlo perché è uno dei più bei personaggi dell’immaginario italico e perderlo sarebbe come perdere un po’ di noi stessi”. Parole sante, anzi – per dirla come il lupo della steppa –  “parolaski santeff”.

Marco Travaglini

Freschi involtini di manzo affumicato

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Un’idea gustosa, fresca e veloce da preparare

Il manzo affumicato e’ una carne saporita, nutriente e dietetica che consente di portare in tavola gusto e leggerezza, e’ ottima come antipasto freddo o servita come secondo con verdure di stagione.

Ingredienti:

8 fette di manzo affumicato

100gr. di ricotta fresca

10 gherigli di noci tritati

Sale, pepe q.b.

Rucola fresca

Olio evo

In una piccola terrina mescolare la ricotta con sale, pepe e i gherigli di noce. Stendere la crema sulle fette di manzo e avvolgere ad involtino. Sistemare su un piatto di portata con rucola fresca. Conservare in frigo. Servire fresco irrorato con un filo di olio evo.

 

Paperita Patty

Foto Di Fanny Schertzer – Opera propria

Il Duca sul cavallo ferito

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Alla scoperta dei monumenti di Torino

Viste le dimensioni dell’opera e l’impossibilità di realizzarla nello studio fino ad allora utilizzato presso la Cavallerizza Reale, il re gli fece costruire per lo scultore un locale apposta all’interno dei Giardini Reali nel quale, a partire dal mese di apriledel 1863, l’artista iniziò a lavorare

Situato al centro di Piazza Solferino, in asse con via Vittorio Alfieri, nello spazio compreso dalle due aiuole rialzate, il Duca di Savoia in alta uniforme è rappresentato in sella al suo destriero in azione di battaglia. Il cavallo viene rappresentato ferito al petto, mentre stramazza al suolo con le zampe posteriori a terra; il cavaliere invece si volge verso destra e alla ricerca dell’equilibrio, punta lo stivale destro in appoggio, volgendo il capo tiene sollevata orizzontalmente la spada mentre con la mano sinistra regge le briglie. La statua poggia su un piedistallo lapideo quadrangolare sui cui lati destro e sinistro campeggiano due altorilievi dedicati alla battaglia della Bicocca e all’assedio di Peschiera. Ferdinando di Savoia, secondogenito del re Carlo Alberto, nacque a Firenze nel 1822. Entrato giovanissimo nell’esercito piemontese, nel 1848divenne a capo dell’assedio di Peschiera. Durante i Moti, al comando della quarta Divisione, combatté valorosamente per l’indipendenza italiana; morìa Torino nel febbraio 1855. Qualche anno dopo il re Vittorio Emanuele II, in memoria delle imprese militari compiute dal fratello, decise di innalzargli un monumento in Torino: una statua equestre che lo rappresentasse in azione durante la memorabile battaglia della Bicocca. Nell’aprile 1862 Alfonso Balzico, scultore della Casa Reale di Savoia, venne incaricato ufficialmente, con regolare convenzione, dell’esecuzione del monumento e messosi subito al lavoro, dopo numerosi tentativi poiché mai si accontentava del risultato, realizzò il bozzetto definitivo, approvato dal re nel novembre dello stesso anno. Viste le dimensioni dell’opera e l’impossibilità di realizzarla nello studio fino ad allora utilizzato presso la Cavallerizza Reale, il re gli fece costruire un locale apposta all’interno dei Giardini Reali nel quale, a partire dal mese di aprile del 1863, l’artista iniziò a lavorare. Trasporre l’idea in un modello realizzabile risultò un processo tutt’altro che semplice, sia per il difficile equilibrio statico dell’opera, sia per i rapporti armonici che dovevano essere impostati tra cavallo e cavaliere: la postura eretta del duca si trovava, infatti, a dialogare con un cavallo inglese prostrato, posa tutt’altro che consueta per un monumento equestre. Fu così che per giungere al modello definitivo Balzico dovette realizzarne tre. 

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Finalmente soddisfatto del risultato, dopo svariati tentativi, gli sembrò di aver completato l’opera. Tuttavia, tornato a Torino dopo un viaggio a Firenze, quando avrebbe dovuto porre mano ai preparativi per la fusione, venne ancora tormentato dal dubbio che qualcosa non andasse. Gli venne allora in soccorso l’amico Vincenzo Vela che, dopo aver visto il suo lavoro, commentò così: “Vedi, non è buona la piega del calzone al ginocchio destro, correggila e metti un puntale di ferro sotto la mascella sinistra del cavallo. Poi, basta! Se non hai altre commissioni, cercane, perché questo lavoro è finito, ed è finito in modo che ti farà grande onore. Vorrei averlo fatto io!”. Il monumento, finito, rappresentava il duca nel momento di incitamento ai suoi soldati per riprendere la Bicocca durante la battaglia di Novara del 1849, mentre il suo terzo cavallo cadeva, ferito a morte da un proiettile al petto. Nel febbraio del 1867 l’opera venne portata a Firenze, dove Clemente Papi si apprestò al delicato lavoro della fusione che, a causa di una serie di vicende difficoltose, si concluse solo nel 1870. Tra il 1872 e il 1873 Balzico modellò i due altorilievi da apporre sul basamento, anch’essi inviati a Firenze; la fusione, eseguita da Pietro e Leopoldo Galli, successori del Papi, si concluse nei primi mesi del 1877. Per quanto riguarda invece la collocazione della statua, bisogna tener presente che il Re desiderava fosse posta dal Municipio all’Arsenale Militare. In questo senso, nel maggio 1866, la Commissione d’Ornato nominò una sottocommissione con lo scopo di individuare il sito più adatto; già nel mese di giugno la sottocommissione, dopo aver valutato alcune piazze torinesi, suggerì di posizionarlo al centro di piazza Solferino. Tuttavia il Sindaco Felice Rignon, forse non pienamente convinto della proposta, chiese alla Giunta di nominare una nuova Commissione per esprimere un giudizio definitivo da sottoporre all’approvazione del Consiglio Comunale. Il 26 giugno 1874 il Consiglio Comunale approvò la soluzione definitiva che vedeva il monumento posto al centro di piazza Solferino sul protendimento di via Alfieri. In seguito il professor Balzico venne incaricato dalla Casa Reale di fornire al Municipio, al quale l’opera venne donata, i disegni del basamento e della cancellata, per la realizzazione dei quali il Municipio promosse un’asta pubblica.

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Essendo però l’opera a Firenze, nell’aprile del 1877 il Municipio di Torino e la Brigata Ferrovieri del Genio stipularono una convenzione che regolava il trasporto del monumento. Partito da Firenze il 18 aprile 1877, il monumento a Ferdinando di Savoia giunse finalmente nella città di Torino nel maggio di quello stesso anno. La sera del 10 giugno 1877 venne inaugurato solennemente alla presenza di Ministri, Senatori, Deputati, numerose personalità e “un’onda interminabile di popolo”; l’opera, svelata tra l’ammirazione generale, venne donata, alla fine della cerimonia, dal re Vittorio Emanuele II alla città. Parlando dell’opera del Balzico non si può non fare un piccolo accenno per quel che concerne piazza Solferino,forse una delle piazze della città più “chiacchierate” negli ultimi anni. Sostanzialmente polo nodale di allacciamento e saldatura tra la città barocca e il tessuto di espansione tardo-ottocentesca, piazza Solferino vide il suo primo progetto di sistemazione nel 1870. Se in quell’epoca la piazza presentava tipici caratteri di perifericità, nel progetto il prolungamento di via Alfieri diviene l’asse portante trasversale del nuovo spazio urbano, caratterizzato da due aiuole simmetriche rettangolari e dal 1872, si dà inizio alla costruzione di alcune palazzine di due o tre piani con giardino. Solo quattro anni dopo, nel 1876, le palazzine appena costruite vennero trasformate in edifici da reddito; in questo scenario, nel 1877, venne inaugurato il monumento a Ferdinando di Savoia. A partire dal 2004 però, lo scenario che costituiva il fondale percettivo del monumento è stato temporaneamente modificato; in questi anni infatti le aiuole centrali hanno ospitato i padiglioni di Atrium, nati per la promozione dei Giochi Olimpici Invernali del 2006, poi dedicati alla comunicazione istituzionale della Città. E proprio l’evento olimpico è stato così l’occasione per impostare un nuovo uso di piazza Solferino, divenuta un nucleo centrale di attività aggregative e di comunicazione, portando anche parallelamente una ridefinizione degli usi dello spazio gravitante intorno a Ferdinando di Savoia. Come ogni settimana anche questo appuntamento si conclude qui. Sperando di avere allietato i nostri lettori, non possiamo far altro che ricordare l’appuntamento alla prossima settimana per la nostra passeggiata “con il naso all’insù”.

Simona Pili Stella

(Foto: il Torinese)

Bottero, il “papà” della Gazzetta del Popolo

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Alla scoperta dei monumenti di Torino / Oggi parleremo del monumento dedicato al giornalista e politico italiano Giovanni Battista Bottero, situato in Largo IV Marzo meglio conosciuta come piazzetta IV Marzo. (Essepiesse)

Su un ampio basamento in pietra al lato del giardino, verso il Duomo, si erge la figura in bronzo di Giovanni Battista Bottero. L’uomo è rappresentato in piedi con una redingote abbottonata (abbigliamento che il giornalista usava abitualmente nelle sue giornate di lavoro), mentre nella mano destra tiene una copia del giornale “La Gazzetta del Popolo” 

La statua poggia su un imponente basamento realizzato in prezioso marmo Botticino e sul cui fronte è posizionata una lastra con sopra delle epigrafi dedicatorie che, essendo posta alle spalle del monumento, funge da elemento architettonico di sfondo. In quest’opera è particolarmente ricercato l’effetto di contrasto tra la patina scura del bronzo e il bianco avorio del marmo del basamento.

Giovanni Battista Bottero nacque a Nizza il 16 dicembre del 1822. Dopo aver conseguito nel 1847 la laurea in medicina, decise di dedicarsi alla carriera giornalistica (sua passione fin da quando era ragazzo) e così il 16 giugno 1848 fondò a Torino, insieme allo scrittore Felice Goevan e al medico Alessandro Bottella, il quotidiano “La Gazzetta del Popolo”.Per Bottero gli anni che seguirono furono impregnati di grande passione politica: essendo il quotidiano più diffuso durante gli anni del Risorgimento, egli riuscì tramite il suo giornale a compiere azioni incredibili, come ad esempio far firmare (il 10 settembre 1849) il proclama agli elettori di Bobbio per la nomina a deputato di Giuseppe Garibaldi, oppure lanciare una sottoscrizione (il 14 gennaio 1850) per consegnare una spada d’onore sempre a Garibaldi che all’epoca si trovava in esilio.

Nel 1855, dopo diverse battaglie “mediatiche” portate a termine dal suo quotidiano, Bottero decise di entrare in politica e si presentò nel collegio elettorale di Nizza, dove vinse con 411 voti su 625 votanti; il 27 giugno 1855 entrò nel Parlamento subalpino. Nonostante si affermò come figura politica, nel 1870 decise di abbandonare la sua carriera all’interno del Parlamento per dedicarsi completamente al suo giornale.Prese la direzione del quotidiano nel maggio del 1861 (quando prese il posto di Govean) e mantenne tale posizione fino al 1897. In quegli anni “La Gazzetta del Popolo” fu un punto di incontro per personaggi di grande rilievo: in campo politico seguì un orientamento liberale, anticlericale e monarchico, appoggiando la politica di Cavour e il programma risorgimentale di unificazione italiana. Il quotidiano svolse inoltre una importante funzione sociale propulsiva e di coordinamento nei confronti dell’intero movimento delle società di mutuo soccorso dello Stato sardo.Giovanni Battista Bottero morì il 16 novembre del 1897 all’età di 75 anni.

A pochi giorni dalla sua morte un Comitato di cittadini presieduto da Tomaso Villa, si attivò per la realizzazione di un monumento alla sua memoria e grazie ad una sottoscrizione pubblica nazionale, vennero raccolti i fondi necessari e fu incaricato lo scultore Odoardo Tabacchi, che lavorò all’opera tra il 1898 e il 1899. Il monumento venne concluso nel settembre del 1899 e si decise di collocarlo proprio in Largo IV Marzo, dove vi era la sede della “Gazzetta del Popolo”; su consiglio di Odoardo Tabacchi e del Sovrintendente dei Giardini municipali, venne posizionato nella parte orientale dell’aiuola IV Marzo, proprio di fronte alla sede del quotidiano.Venne inaugurato e ceduto alla città, il 12 novembre del 1899 con una solenne cerimonia a cui parteciparono centinaia di persone.

Anche per oggi la nostra passeggiata “con il naso all’insù” termina qui. Vi aspetto per il prossimo appuntamento con Torino e le sue meravigliose opere da scoprire.

 (Foto: www.museotorino.it)

Simona Pili Stella

Linguine in crema di noci: avvolgenti e cremose

In pochi minuti avrete una salsa delicata, avvolgente e cremosa per condire in modo semplice la vostra pasta

 

Le noci, come tutta la frutta secca, hanno molto da offrire, sono ottime per le loro proprieta’ nutrizionali e si possono utilizzare in tantissimi modi. Vi suggerisco questo primo piatto che si prepara molto velocemente, a crudo, utilizzando un mortaio o un mixer. In pochi minuti avrete una salsa delicata, avvolgente e cremosa per condire in modo semplice la vostra pasta.

 

Ingredienti per 4 persone:

 

320gr. di pasta tipo linguine

200gr. di ricotta piemontese

50gr. di gherigli di noci

½ spicchio di aglio

Olio evo, latte,pepe,sale q.b.

2 foglioline di menta fresca (facoltativo)

 

Nel mortaio, o nel mixer, mettere i gherigli di noce, l’aglio, il pepe il sale, la menta e tritare tutto grossolanamente. In una ciotola mescolare bene la ricotta, aggiungere il trito di noci, qualche cucchiaio di latte e l’olio evo. Quando la pasta e’ cotta, scolare e condire subito. Servire immediatamente poiche’ tende ad asciugare in fretta.

 

Paperita Patty

Calamari, speciali in tutte le stagioni

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Gusto e colore per questa deliziosa insalata di pesce.

Delicata e leggera è adatta come antipasto o come secondo, speciale in estate ma ottima da servire durante tutto l’anno, anche tiepida. 

Ingredienti 

2 Calamari freschi 
1 patata 
1 carota 
Pomodori Pachino q.b. 
1 limone 
Olio evo, sale, pepe, prezzemolo q.b. 

Lavare e pulire i calamari, cuocerli per alcuni minuti in acqua salata (fino a quando risultano teneri, dipende dalle dimensioni). Lasciar intiepidire e tagliare a pezzi. 
Cuocere a vapore la patata e la carota, lasciar raffreddare e tagliare a pezzi. Lavare i pomodorini e tagliarli a metà. In una terrina unire tutti gli ingredienti, condire con olio evo, succo e buccia grattugiata di limone, sale, pepe e prezzemolo tritato. Servire tiepido o freddo. 

Paperita Patty 

Lagrange, un monumento per il “sommo geometra”

Alla scoperta dei monumenti di Torino Joseph Louis Lagrange, nacque a Torino il 25 gennaio del 1736. All’età di quattordici anni si iscrisse all’Università per intraprendere gli studi giuridici, ma la passione e l’interesse per la matematica furono talmente forti che si dedicò completamente alle materie scientifiche

La statua, collocata al centro di Piazza Lagrange, rappresenta il matematico in piedi, in posizione eretta su un alto basamento con indosso abiti borghesi. Il viso di Luigi Lagrange è leggermente chino, mentre con la mano destra tiene quel che rimane di una matita, e con la sinistra dei fogli piegati; a terra vicino alla gamba destra vi sono dei libri impilati.

 

Joseph Louis Lagrange, nacque a Torino il 25 gennaio del 1736 da Giuseppe Francesco Lodovico Lagrange (tesoriere dell’Artiglieria del Re di Sardegna), e da Maria Teresa Grosso (figlia unica di un medico benestante di Cambiano). All’età di quattordici anni si iscrisse all’Università per intraprendere gli studi giuridici, ma la passione e l’interesse per la matematica furono talmente forti che si dedicò completamente alle materie scientifiche (geometria, fisica e matematica) abbandonando completamente la giurisprudenza. Professore di matematica alla scuola d’artiglieria a soli 19 anni, fu tra i fondatori, insieme a Francesco Cigna e Luigi Saluzzo, della Regia Accademia delle Scienze di Torino; in contatto con Eulero, venne anche iscritto tra i soci dell’Accademia di Berlino.

All’età di ventotto anni vinse il premio dell’Accademia di Parigi per la migliore opera sulla librazione della luna mentre a trentanni lasciò il Piemonte per sostituire Eulero alla presidenza dell’Accademia di Berlino. Rimase nella città una ventina d’anni, poi si trasferì definitivamente a Parigi, chiamato per invito di Luigi XVI dall’Accademia delle Scienze come “pensionato veterano”.Nel corso della sua carriera compì ricerche di fondamentale importanza sul calcolo delle variazioni, sulla teoria delle funzioni e sulla sistemazione matematica della meccanica; svolse inoltre studi di astronomia, trattando soprattutto il problema della mutua attrazione gravitazionale fra tre corpi.Visse e operò (come detto prima) per ventuno anni a Berlino e per ventisei a Parigi e nel 1788 pubblicò la sua più importante opera, il testo Mécanique analytiquesi spense a Parigi il 10 aprile 1813.

Nel luglio del 1856 (una quarantina di anni dopo la morte), per iniziativa di alcuni rappresentanti dell’Accademia delle Scienze di Torino, venne lanciata dai giornali una pubblica sottoscrizione di raccolta fondi per realizzare un monumento in onore del “sommo geometra” ( siccome a Firenze si era realizzata la statua a Galileo Galilei e a Milano quella di Bonaventura Cavalieri, Torino non voleva essere da meno nei confronti di un degno rappresentante delle scienze matematiche). La realizzazione della statua venne inizialmente commissionata a Vincenzo Vela ma in seguito Giuseppe Albertoni subentrò alla commessa e vi lavorò tra 1865 e il 1867, circa una decina di anni dopo l’inizio della sottoscrizione. La commissione individuò piazza Bonelli, detta oggi Lagrange, come luogo più idoneo per ospitare la statua e nella seduta del 13 marzo 1865 la Giunta municipale sostenne e approvò la proposta decidendo anche che il nuovo nome della piazza dovesse essere omonima al monumento da collocarvi.

Riguardo alla posizione della statua nella piazza, due mesi prima dell’inaugurazione, Municipio e Commissione si confrontarono su due punti di vista opposti: il Municipio proponeva che fosse posta con il viso rivolto verso piazza Carlo Felice, mentre la Commissione voleva che fosse rivolta verso la via che portava il suo nome (via dei Conciatori, detta Lagrange dal 1860) e dove era posta la casa in cui abitò per molti anni l’illustre matematico. Dopo una serie di dibattiti e confronti, la Commissione ebbe la meglio ed il monumento venne posizionato in centro alla piazza, rivolto verso via Lagrange.

Il giorno dell’inaugurazione, l’ufficiale scoprimento della statua venne anticipato da una adunanza letteraria presso la Reale Accademia, dove intervennero eruditi da tutte le parti d’Italia per disquisire non soltanto sui meriti scientifici di Lagrange, ma anche su ogni sorta di argomento ed impegnarono l’attenzione della folla per diverse ore. Si parlò di un saggio sulla parola “Plebiscito”, si tenne una lezione sulla pressione atmosferica e sulla comunanza d’origine dei popoli indo-europei ed infine si discusse anche del primato del Piemonte nella letteratura drammatica. Lo stesso giorno dell’inaugurazione il monumento venne ufficialmente consegnato al Municipio. Non si hanno informazioni attendibili sul lavoro di realizzazione del monumento.

 

Simona Pili

 

Con le scarpe tutte rotte

Chi ha paura delle masche?
Le storie spesso iniziano là dove la Storia finisce
Folletti e satanassi, gnomi e spiriti malvagi, fate e streghe, questi sono i protagonisti delle leggende del folcklore, personaggi grotteschi, nati per incutere paura e per far sorridere, sempre pronti ad impartire qualche lezione. Parlano una lingua tutta loro, il dialetto dei nonni e dei contadini, vivono in posti strani, dove è meglio non avventurarsi, tra bizzarri massi giganti, calderoni e boschi vastissimi. Mettono in atto magie, molestie, fastidi, sgambetti, ci nascondono le cose,sghignazzano alle nostre spalle, cambiano forma e non si fanno vedere, ma ogni tanto, se siamo buoni e risultiamo loro simpatici, ci portano anche dei regali. Gli articoli qui di seguito vogliono soffermarsi su una figura della tradizione popolare in particolare, le masche, le streghe del Piemonte, scontrose e dispettose, mai eccessivamente inique, donne magiche che si perdono nel tempo e nella memoria, di cui pochi ancora raccontano, ma se le loro peripezie paiono svanire nei meandri dei secoli passati, esse, le masche, non se ne andranno mai. Continueranno ad aggirarsi tra noi, non viste, facendoci i dispetti, mentre tutti fingiamo di non crederci, e continuiamo a “toccare ferro” affinchè la sfortuna e le masche, non ci sfiorino. (ac)
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Con le scarpe tutte rotte
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«La Befana vien di notte
con le scarpe tutte rotte
con le toppe alla sottana
viva viva la Befana!»
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Le streghe non esistono e non ci piacciono, ma una di esse, in un momento particolare dell’anno, la aspettiamo con benevolenza, e lasciamo per lei sulla finestra una tazza di the e del latte caldo con biscotti, in modo che possa ristorarsi durante i suoi viaggi notturni. E’ la “Befana”.  Il termine “Befana” deriva da una corruzione lessicale di “Epifania”, attraverso “bifanìa” o “befanìa”. Figura del folklore italiano, essa è conosciuta principalmente nelle nostre regioni settentrionali e centrali, tuttavia col passare del tempo si è andata diffondendo in tutta la penisola. Meno nota nel resto del mondo. Secondo la tradizione, si tratta di una donna molto anziana, che, nella notte tra il 5 e il 6 gennaio, viaggia a cavallo di una logora e antiquata scopa e va a far visita ai bambini, portando dolcetti e caramelle a quelli che sono stati buoni durante tutto l’anno, e carbone e aglio a coloro che, invece, si sono comportati male. Le origini di tale festività vanno ricercate in epoche lontane, probabilmente da considerare in stretta connessione con i riti propiziatori pagani, legati al susseguirsi delle stagioni e attinenti alla sfera dell’agricoltura. Queste abitudini vennero ereditate e assimilate dai Romani, i quali, associando tali rituali al proprio calendario, celebrarono il collegamento tra l’anno solare, il solstizio invernale e la ricorrenza del “Sol Invictus”, “Il Sole invitto”, ossia la “rinascita” del sole quando la durata del giorno incominciava ad aumentare e a prolungarsi. 
Secondo altre fonti, invece, la Befana è da riferirsi alla antica dea Diana, protettrice della natura e dei boschi, e collegata ai riti di fertilità nei campi: moltitudini di figure femminili in volo aleggiavano sui campi, benedicevano il terreno, facendo sì che i raccolti fossero abbondanti e generosi. Vi sono studiosi che associano la festività della Befana ad un altro culto romano, che si svolgeva in inverno in onore delle divinità di Giano e Strenia, (“Strenia” è termine connesso con “strena”, voce latina che significa “strenna, dono augurale”), durante il quale era uso scambiarsi dei doni. Nel IV secolo d.C. la Chiesa di Roma condannò i riti e le credenze pagane, tuttavia gran parte della popolazione faticò a staccarsi dalle proprie usanze, e trovò l’escamotage di “far finta” di dimenticarsi della natura stregonesca dell’anziana signora e sottolineandone invece le caratteristiche di generosa bonarietà.   Fu il Vescovo Epifanio di Salamina (315-403 d.C.) a recuperare l’antica simbologia numerica pagana, proponendo di fissare la data dell’Epifania nella dodicesima notte dopo il Natale. Esiste anche una versione cristianizzata della leggenda: si narra che i Re Magi, diretti a Betlemme per portare i doni al Bambino Gesù, persero la strada e chiesero allora aiuto ad una anziana donna, che rispose gentilmente con precise indicazioni. I Magi, per ringraziare la vecchietta della cortesia, la invitarono ad andare con loro a far visita al piccolo Gesù, ma lei rifiutò e non li seguì. Si racconta che poco dopo la donna si pentì della decisione presa e provò a mettersi alla ricerca dei Magi che aveva soccorso, ma, non trovandoli, iniziò a fermarsi in ogni casa, lasciando doni ai bambini, nella speranza che uno di quelli fosse il piccolo Gesù. La strega buona continuò a “volare” anche in epoca fascista: nel 1928, infatti, il regime introdusse la festività della “Befana Fascista”, (nota anche con l’appellativo di “Befana del Duce”), giorno in cui si distribuivano regali ai bambini delle classi più povere. 
L’anziana signora riuscì a scampare alle innominabili brutture delle Guerre Mondiali, ma non poté dimenticare la malvagità degli uomini, così, ancora oggi, si dimostra scontrosa e antipatica nei confronti degli adulti, al contrario è amorevole e premurosa con i bambini. A motivo dell’estrema gentilezza con cui essa si pone nei confronti dei più piccoli, questi ultimi non rimangono intimoriti dal suo brutto aspetto; essa è vecchia, rugosa, con pochi denti e con un naso prominente, tutta curva sul manico di scopa. Il freddo pungente dell’inverno la costringe a ripararsi con lunghi gonnelloni, lisi e rattoppati con pezze di colore sgargiante; indossa calzettoni pesanti contro il gelo e scarpe comode e scollate, sulle spalle ingobbite ha sempre uno scialle di lana pesante e colorata, talvolta ha anche un mantello svolazzante: se fa freddo per strada, figuriamoci in volo! Alla fine della storia l’unico mistero che rimane da risolvere è in che rapporti siano Babbo Natale e la Befana, perché alcuni li vogliono parenti, altri acerrimi nemici, in quanto l’ormai vestito di rosso signore con la barba sembra spettegolare sul conto della donna, assicurando che l’unico vero portatore di regali sia lui, e non quella “vecchia Befana”.L’eterno battibecco tra uomini e donne non trova pace, anche tra le figure del folklore gli uomini si impuntano e alzano la voce, ma le donne continuano imperterrite nelle loro faccende.
Alessia Cagnotto

Quando la notte si mangia le stelle

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Con passo deciso ma non frettoloso, ci si accompagnava agli altri avventori giù ai “Quattro Cantoni”. Lì, tra un bicchiere e un piatto di polenta “concia” accompagnato dai pesciolini in carpione ( una vera “mazzata” per il fegato, soprattutto alla sera, ma era quello che passava il convento e non era bello dire di no quando l’oste – il Luisin – era in vena di “offrire” il merendino fuori-orario) s’inanellavano ricordi, ritratti ed aneddoti

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Quando la notte si mangia le stelle e si fa nera come l’inchiostro, è segno che il tempo cambia. Le nuvole, scure e cariche di pioggia, riempiono il cielo formando una coltre spessa. “E’ notte di fiaschi e di chiacchiere da osteria”, diceva Ugo Pollastri, titolare della pescheria di Feriolo, prendendomi sotto braccio. E così, con passo deciso ma non frettoloso, ci si accompagnava agli altri avventori giù ai “Quattro Cantoni”. Lì, tra un bicchiere e un piatto di polenta “concia” accompagnato dai pesciolini in carpione ( una vera “mazzata” per il fegato, soprattutto alla sera, ma era quello che passava il convento e non era bello dire di no quando l’oste – il Luisin – era in vena di “offrire” il merendino fuori-orario) s’inanellavano ricordi, ritratti ed aneddoti. Prendevano forma e si animavano i personaggi più conosciuti. Ad esempio, il Tino Bagutti ed il suo “Motom”. Tino era stato tra i primi, subito dopo la seconda guerra mondiale, ad aver tra le mani quel ciclomotore robusto ed economico ( una specie di piccola motocicletta), di buone prestazioni ed elevata affidabilità, pur essendo confinato nei limiti di cilindrata dei più classici “cinquantini”. Il Motom, creato dal fantasioso ingegner Battista Falchetto, un ex-progettista della Lancia, in collaborazione con gli industriali De Angelis Frua , venne presentato al salone di Ginevra del 1947 con il mome di Motomic ( era l’abbreviazione di “Moto Atomica”..). Come lo teneva il Bagutti era uno spettacolo: sempre lucido, in ordine.

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Dietro al sellino aveva applicato una coda di volpe che, nelle intenzioni, doveva svolazzare davanti agli occhi dei passanti quando transitava la rombante motocicletta. In realtà, la coda restò quasi sempre giù, moscia, tristemente penzolante. Il Motom, infatti, andava a passo d’uomo sulla salita che dall’incrocio sopra il circolo di Oltrefiume saliva – tra due file di alberi – verso la Tranquilla. Tino Bagutti teneva molto “all’assetto del pilota”: guidava in posizione da corsa,proteso in avanti sul manubrio, vestito di pelle nera con cuffia di cuoio ed un paio di enormi occhialoni. Noi, all’epoca ragazzini, gli correvamo appresso, lo affiancavamo, lo guardavamo e lo sorpassavamo. Lui, umiliato, ci guardava digrignando i denti ma non ci diceva mai nulla. Non usciva nemmeno una sillaba dalla sua bocca anche se non era difficile intuirne i pensieri bellicosi. Così, lo ribattezzammo “il centauro della volpe triste”. E lui, con qualche ragione, non ci ringraziò. Un altro personaggio che veniva evocato spesso era il Balloni. Il nome non lo ricordo bene: forse si chiamava Alberto o Gilberto o qualcosa del genere. Comunque, era un bel personaggio. Era stato militare nella “Légion étrangère”,da giovane. Con la Legione aveva combattuto in Indocina, partecipando alla tragica battaglia di Dien Bien Phu, nel 1954. Era un uomo d’azione, sprezzante del rischio.Si definiva un “fascista-comunista”. La sua famiglia era stata dalla parte del Duce durante il ventennio ed alcuni avevano combattuto sotto le insegne della Repubblica di Salò. Lui, negli anni che seguirono alla Liberazione, continuò a coltivare il mito dell’ uomo forte e dell’ordine“. Dove aveva fallito il Duce, c’è sempre la possibilità che andasse bene a Stalin”, diceva ad alta voce, quando alzava un po’ il gomito, a riprova che “nel vino c’è la verità”.L’ideologia, non era opposta? L’ideologia, per lui, non c’entrava un tubo. “Ciò che conta è la dittatura. Qui ognuno fa i cavoli suoi e non risponde a nessun altro che ai propri interessi. Ed allora, caro mio, ci vuole ordine, disciplina. Un tempo era il fascismo a far rigare diritti questi lazzaroni, ora ci potrebbe pensare il comunismo”. Quel “ci potrebbe” veniva espresso in forma dubitativa poiché aveva scarsa considerazione dei comunisti locali ed italiani in genere. “Gente troppo democratica, troppo perbene. Vogliono cambiare le cose con le elezioni, con il consenso. Non capiscono che qui ci vuole lo schioppo e non il voto. Quelli lì son molli, si perdono dietro alle parole quando invece c’è bisogno di agire, di tirar fuori le palle”. Lo diceva mettendo in mostra un sorrisetto sardonico, enigmatico, sotto i baffetti radi. Non capivi mai se scherzasse o se facesse sul serio. Sono tanti anni che è trapassato ma, pensandoci, ho sempre più la convinzione che incarnasse davvero, a modo suo, il paradosso dell’essere un “fascista-comunista”.

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C’era poi il Gùstin, al secolo Aurelio Gustavino. Abilissimo nel fare affari, si era fatto un nome per la capacità di contrattare l’acquisto del riso giù nella “bassa”, tra le risaie del novarese e del vercellese. Portava con se una stadera, una bilancia per la “pesata” a braccio, utilissima per misurazioni che non superassero i 15-20 chili. “A trattare era un mago. Li faceva su con la galla, li infiocchettava con la sua parlantina che alla fine non capivano più niente. Ah, che roba: li fregava sul peso e loro – per la paga – lo ringraziavano anche, al Gùstin”, diceva l’Ennio, con ammirazione. Il meglio di se, però, lo dava nell’acquisto delle uova dalla sciura Marianna. La frase che accomapgnava il lesto movimento delle mani nel contare le uova sembrava quasi uno scioglilingua: “Quatar e quattr’ott , e quatar che fan vott, e quatar dudas..la va ben, Marianna?”. E Marianna annuiva, consegnando sedici uova al prezzo di dodici. “Bisognerebbe tirar su un monumento all’abilità ed alla faccia tosta del Gùstin, cari miei”, sentenziava l’Alfredo. Non aveva torto. Da giovane, nei paesi attorno a Milano, il Gùstin chiedeva l’elemosina con fare dimesso. Guardava, supplicante, negli occhi le vecchie signore, sussurrando loro con un filo di voce: “Fate la carità ad un pover uomo che in una mano ha cinque dita e nell’altra tre e due”. Un po’ di denaro l’aveva raccolto, insieme a cibo, vestiti e qualche legnata sul groppone. Ma gli “incidenti di percorso” non lo dissuasero dal mettere a frutto la sua fantasia. Così passavamo le serate di pioggia all’osteria dei “Quattro Cantoni”. Fuori, la notte si era ormai mangiata le stelle; dentro, tra il fumo del camino e dei sigari e le chiacchiere degli amici, si “lustravano” i ricordi, quasi fossero le pentole della Maria dell’osteria dei Gabbiani.

A proposito del Natale…

“Ho sempre pensato al Natale come ad un bel momento.
Un momento gentile, caritatevole, piacevole e dedicato al perdono.
L’unico momento che conosco, nel lungo anno, in cui gli uomini e le donne
sembrano aprire consensualmente e liberamente i loro cuori, solitamente chiusi”
(Charles Dickens)

 

 

Lo sapevate che la storia del nostro Salvatore e il 25 dicembre non sono proprio originali perché in realtà si sono ripetute nei secoli prima dell’avvento di Gesù? Horus, in Egitto 3000 anni prima di Cristo, nasce il 25 dicembre dalla vergine Isis-meri, la sua nascita è annunciata da una stella proveniente da est, e tre re giunsero a salutare la sua nascita.     Aveva 12 discepoli che viaggiavano con lui ed eseguiva miracoli come curare i malati, camminare sull’acqua, era conosciuto come, Il figlio di Dio, l’Agnello di Dio, ecc. ecc., tradito fu crocifisso e sepolto per tre giorni, poi resuscitò. Sui muri del Tempio a Luxor ci sono immagini dell’Annunciazione, Immacolata Concezione, Nascita ed Adorazione di Horus, con Kneph, lo “Spirito Santo” che impregna la vergine; e con l’infante e la presenza di tre re, o magi, che portavano doni. Virishna nel Medio Oriente, 1200 anni prima di Cristo, nacque da madre vergine per immacolata concezione: quando nacque il tiranno di allora fece uccidere tutti i bambini suoi coetanei. Angeli e pastori presenziarono alla sua nascita in una grotta; compì miracoli come la trasformazione dell’acqua nel vino e resuscitò i morti; fu crocifisso alla fine in mezzo a due ladroni e resuscitò dopo tre giorni. Attis di Frigia 1200 aC, nato dalla vergine Nana il 25 dicembre, crocifisso e poi resuscitato….e tanti altri ancora…. Ci sono quindi tanti salvatori nati il 25 dicembre, per lo più da una vergine, che hanno effettuato miracoli, sono morti su croci, alberi, oggetti fatti di legno, poi sono risorti, e presentano tra loro delle somiglianze impressionanti. La domanda sorge spontanea: perché queste caratteristiche? Una spiegazione si basa sull’effettivo movimento degli astri ed è quella che gli studiosi ed archeologi chiamano l’antico culto del sole. Il 25 dicembre segna l’effettiva nascita del sole. La “stella d’oriente” che dà il messaggio della venuta del Dio, non è altro che Sirio, che il 24 dicembre di ogni anno, si allinea con le tre stelle più brillanti della cintura di Orione :“I tre Re”.    La linea retta descritta idealmente da queste 4 stelle indica esattamente il punto dell’orizzonte dove il sole sorgerà il 25 dicembre. Ecco da dove viene l’allegoria della stella che, insieme ai tre re che la “seguono”, indica il punto dove il sole (cioè la divinità del Sole) nascerà. Il 22 dicembre la “morte” del Sole si realizza completamente quando raggiunge il punto più basso nel cielo. Il Sole è morto sulla croce, morì per 3 giorni per poi risorgere e nascere di nuovo: da qui l’idea di crocifissione, morte per 3 giorni e resurrezione che è comune a tante divinità del Sole come Gesù.  Gli Apostoli sono le 12 costellazioni dello Zodiaco, assieme ai quali Gesù, essendo il Sole, viaggia. La madre vergine del Dio Sole è un tema anch’esso popolare in tutte le religioni dell’antichità: secondo il “mito solare”, infatti, il Sole nacque sotto la costellazione della VergineL’oro, l’incenso e la mirra, infine, erano i doni che gli antichi facevano al sole poco dopo la sua rinascita, in quanto con la sua nuova “luce” avrebbe promesso grano, raccolti e cibo nuovamente a sufficienza.

 

 M a u r i z i o  P l a t o n e