redazione il torinese

Valle Formazza, la “piccola repubblica” dei walser

Incuneata nel cuore della Alpi, fino al centro delle “Alpi Somme” da cui partono le acque nelle quattro direzioni dei venti, la valle Formazza ha una storia singolare e affascinante, irripetibile in qualsiasi altra valle dell’arco alpino

La prima e più importante delle colonie walser, il  “nido d’aquila” di questo grande popolo di montanari che disseminò di comunità i due versanti dell’arco alpino. Lo storico Enrico Rizzi, scrivendo per l’editore Grossi la “Storia della Valle Formazza” , ha consegnato ai lettori un lavoro monumentale, frutto di anni di certosine ricerche, raccogliendo documenti e testimonianze. Un’opera davvero completa che illustra la storia ricca e spesso imprevedibile della Valle Formazza. “ La nostra posizione strategica, quasi fosse un cuneo nel cuore delle alpi centrali – afferma la vulcanica sindaca di Formazza, Bruna Papa – ha consentito al nostro territorio di essere per secoli un’arteria di traffici mercantili, scambi e contatti con il nord delle Alpi più di qualsiasi altra vallata dell’eco alpino”. Una valle “sospesa tra sud e nord” a far da cerniera e punto d’incontro anche per motivi artistici, religiosi e civili. Il nodo dei passi attraversati nei secoli dai someggiatori lungo le vie europee del sale, del vino, dei formaggi, la sua eccezionale posizione strategica, hanno fatto della più antica colonia fondata dai Walser nel medioevo, una “piccola repubblica” sospesa tra la Lombardia e la Svizzera . Territorio conteso con agli Svizzeri che cercavano un altro sbocco verso il Mezzogiorno, allargando e rettificando il confine meridionale della Val Leventina, venne aggregato al ducato di Milano, e seguì le vicende di tutto il restante della Val d’Ossola rimanendo sotto la dominazione spagnola fino al 1714, e passando poi sotto le dominazioni austriaca (1714-48), sabauda (1748-97), francese (1797-1814) e italiana.Retta per secoli autonomamente, con il proprio tribunale valligiano e rustiche magistrature democratiche, Formazza  ha sempre coltivato la sua fiera indipendenza, la sua lingua, lo stile delle sue case di legno, le sue antiche tradizioni, un ricchissimo paesaggio naturale che ha nella superba Cascata della Toce il suo monumento più suggestivo, ammirato nei loro viaggi alpini da naturalisti e scienziati, poeti e artisti come Saussure, Dolomieu, Coolidge, Ermanno Olmi,Carlo Rubbia. Un luogo  che Mario Rigoni Stern  raccontò nel suo libro “L’ultima partita a carte”, descrivendo  il suo “corso sciatori” in alta Val Formazza nel gennaio del 1939 : “Mi ricordo ancora bene che vicino alla diga di Morasco avevamo fatto una gara sci-alpinistica partendo dalla Cascata del Toce. Nella neve si viveva e si moriva. Un aspirante che era con noi era rimasto sotto una valanga durante un allenamento. Noi sciavamo, bevevamo il vin brulé, vincevamo la coppa, ma poi, nel gennaio del 1943 eravamo andati a morire per il freddo, nella neve, in guerra”. Tornando al libro di Rizzi  va detto che lo storico delle Alpi e autore di molti libri sui Walser nelle 480 pagine di quest’opera straordinaria, corredata di foto e documenti, non tralascia nulla nel ricostruire la storia di questa bellissima valle.

Marco Travaglini

La sentinella di pietra sul lago d’Orta

Grigia e serissima, la Torre di Buccione – che non ha, evidentemente, un’anima – non può sapere che la sua  citazione più conosciuta è contenuta in uno dei libri più belli e più ironici di Gianni Rodari, quel “C’era due volte il barone Lamberto”, ambientato lì attorno

C’è chi, nel lento trascorrere del tempo, vigila. Infatti, d’inverno , quando il lago è velato, a pelo d’acqua, dalla nebbia, sembra che stia lì, sentinella di pietra sul colle, a difesa del silenzio e della pace di questa terra cusiana, sulla sponda orientale del lago d’Orta.Grigia e serissima, la Torre di Buccione – che non ha, evidentemente, un’anima – non può sapere che la sua  citazione più conosciuta è contenuta in uno dei libri più belli e più ironici di Gianni Rodari, quel “C’era due volte il barone Lamberto”, ambientato lì attorno. Nel racconto del grande scrittore omegnese,  dopo l’invasione dell’isola di S.Giulio da parte dei banditi che sequestrarono il barone, i giornalisti di mezzo mondo si disputarono gli “osservatori “migliori per seguire le varie fasi della vicenda. E se i giapponesi ( i più sistematici.. ) occuparono i punti più alti, cioè l’Alpe Quaggione e la vetta del Mottarone, scrutando il lago da nord a sud, da Omegna a Gozzano, l’unico punto altrettanto alto e panoramico per guardare il lago da sud a nord era proprio la Torre di Buccione, “occupata in forze dalla Tv messicana”.

Non male come “utilizzo” nel XX secolo. Ma , riposta la fantasia e ripristinando la storia per com’è stata, bisogna dire che il primo documento che cita la fortificazione risale al 1200: il castello di Buccione fu teatro di un accordo stipulato alla presenza del vescovo Pietro IV tra i feudatari locali ed i rappresentanti del comune di Novara. Incontratisi nel prato sotto la Torre, che svettava con i suoi quasi trenta metri d’altezza sul colle, cercarono un’intesa per mettere fine alle dispute sulle questioni territoriali della Riviera. Nel 1205 il castello venne indicato come dimora del Vescovo e trent’anni dopo, in un altro documento, si ribadiva che la Torre e le fortificazioni di Buccione erano “indiscussa proprietà vescovile”. Il filo che lega questi documenti non solo testimonia la “presenza” della fortificazione di Buccione ma rappresenta tre momenti della originale evoluzione della Riviera di S.Giulio sotto il profilo istituzionale ed amministrativo, con i passaggi – nell’arco di trecento anni , dal Mille al XIII secolo – da signoria di “possesso territoriale” a signoria di “potere giurisdizionale” del vescovo di Novara, tant’è che per sbrogliare la complessa matassa fu persino necessario l’intervento degli arbitri dell’Imperatore.

Una mediazione non proprio pacifica visto che il Comune di Novara – impegnato ad espandere i suoi possedimenti – aveva creato ex-novo un suo avamposto tra il castello di Mesma e la Torre di Buccione ( il “borgo” della Mesmella ), insinuandosi come un cuneo nei possediemnti del vescovo così che , di conseguenza, gli arbitri imperiali dovettero ordinare la distruzione del borgo, restituendo all’autorità vescovile i castelli ed i villaggi posti a nord della Baraggia di Briga, con tutti gli annessi e connessi, cioè  i diritti ed i poteri. Ma l’origine della Torre, secondo alcuni studiosi, ha radici ben più antiche dei cenni documentali già citati: radici che affondano nelle ombre e nei chiaroscuri dell’alto medioevo. Uno studioso che ha minuziosamente “rivisitato” la storia dell’imponente fortificazione – il Marzi – scrisse che “ si estendeva fino a coprire la vetta del colle”, identificandone due fasi di costruzione: “l’erezione della cortina e delle stanze del presidio sono da collocarsi intorno agli anni 1150-1175” mentre  risultavano “troppo esigui gli elementi per datare i recinti successivi e il ridotto avanzato”. Resta il fatto che a rivelare le due fasi si possono citare almeno un paio di elementi: i parametri murari e la disposizione delle buche per il ponteggio. Le opinioni di carattere storiografico sono disparate: c’è chi giura si tratti di un manufatto di epoca romana, chi lo giudica invece opera dei Longobardi e  chi ancora frutto di scelte ed indicazioni dei vescovi novaresi. Secondo il Marzi, nel suo “ Sulle origini del castello di Buccione “, edito dal comune di Orta S.Giulio nel 1984, gli autori vanno ricercati invece nei signori locali, legati da vincoli feudali al vescovo, forse i da Castello di Crusinallo.

Resta un fatto, abbastanza chiaro: il castello divenne una piazzaforte vescovile, in stretto contatto con il castello dell’isola di S.Giulio – eretto nel V secolo – di cui costituiva, insieme ad altre “torri” edificate sulle sponde del Cusio, una delle “teste di ponte” di un fitto ed articolato sistema di fortificazioni poste a guardia dello stato episcopale, una sorta di “enclave” indipendente nell’ambito dell’Italia del nord, nell’arco di ben sei secoli, dal 1219 al 1817. In cima alla torre, come si usava dire “..sospesa tra terra e cielo”, era posta la campana con cui si annunciavano gli imminenti pericoli: l’ultimo, prezioso, esemplare – fatto  fondere nel 1610 – è  tutt’oggi custodito nel giardino della sede del municipio di Orta. Il “castello di strada” e la torre, nei fatti, rappresentavano un’unica turrita fortezza alta, per l’esattezza, ventitre metri, con funzioni di segnalazione, suddivisa al suo interno in tre impalcati di legno che ne  consentivano l’abitazione da parte della guarnigione . Il piano inferiore ( dove si apre l’ingresso attuale, risalente al 1800, mentre l’antico ingresso si trovava a circa sette metri da terra ) serviva da “caneva”, cioè da magazzino per i viveri e per l’acqua, necessari in caso d’assedio. Al secondo ed al terzo piano erano situate le latrine, con condotte convogliate verso il cortile per lo scarico dei liquami.

Al piano alto si trovava la cella – con la volta a crociera – munita di una bertesca organizzata su mensole, dalla quale si potevano spiare e combattere i nemici che minacciavano l’ingresso inviando loro dei “gentili omaggi” a base di pietre e, nei casi più ostinati,  calderoni d’olio bollente. La fortificazione si completava di una cortina muraria esterna con camminamenti, feritoie, merli, ancora visibili all’inizio del ‘700 quando vennero descritte  dallo storico rivierasco Lazzaro Agostino Cotta. Le mura, al loro interno, ospitavano un cortile rettangolare che includeva la “nostra” torre, mentre – in epoca successiva – venne edificato sul lato a nord un altro recinto che, stando ai resoconti del Cotta, poteva contenere fino a cinquecento soldati, ed un ridotto avanzato – situato sul crinale verso il lago – studiato come punto di controllo sulla strada che veniva percorsa da merci e viandanti. Oggi la Torre, impavida ed altera costruzione che domina il Cusio meridionale, dopo aver  subito – in passato- le offese di vandali e teppisti, merita le cure di chi – per generazioni – è nato e cresciuto alla sua ombra. E la Riserva Regionale che oggi la tutela è stata pensata proprio per questo. Un nobile scopo per la nobile causa di una nobile ed ardita costruzione medioevale.

 

Marco Travaglini

Oh, Lucrezia…

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E ora, che si fa?”, chiese Gioacchino, rivolgendosi incredulo agli altri compagni. “Che si fa, che si fa…Si cerca qualcuno che se la senta, che trovi le parole giuste. Del resto si sapeva che, prima o poi, ci sarebbe capitato un funerale civile anche qui da noi, no? C’è sempre una prima volta”, rispose sbrigativo Carletto Barelli, il segretario della Camera del Lavoro

 Lucrezia l’aveva detto a tutti e, da qualche anno, ormai anziana, l’aveva anche scritto – nero su bianco –  nel testamento. Così non c’erano dubbi: il giorno dell’ultimo saluto, prima di finire sotto terra, non voleva tra i piedi preti e suore. “Niente omelie e fumo di candele;niente fiori e rosari da sgranare. Solo una breve orazione civile”. Così aveva scritto, di suo pugno, Lucrezia Dolcini,  dopo la premessa di rito (…nel pieno possesso delle mie facoltà mentali e in piena libertà, volendo disporre per il tempo in cui avrò cessato di vivere, dichiaro con il presente atto le mie ultime volontà come di seguito espresse…). 

 

Essendo nubile e senza prole, non aveva parenti stretti a cui lasciare l’unico bene di cui disponeva: una vecchia casa con annesso fienile che aveva ereditato dal padre, morto di silicosi a meno di quarant’anni. E così aveva disposto che fosse la CGIL a beneficiare di ciò che possedeva. In cambio, come unica contropartita, voleva che l’impronta dell’ultimo saluto fosse laica in tutto e per tutto. La sua storia, del resto, parlava per lei. Nata nel 1892 poco distante dalla Pieve di Montesorbo a Ciola, una frazione di Mercato Saraceno, in Romagna, Lucrezia – con i genitori – era emigrata in tenera età in Ossola dove il padre, Duilio, aveva trovato lavoro nel cantiere del traforo del Sempione. Un’opera imponente che, all’epoca della sua costruzione, nei primi anni del ‘900 , collegando Domodossola a Briga, si fregiava di essere la più lunga galleria ferroviaria del mondo. D’indole ribelle, era cresciuta in una famiglia di fede repubblicana. Il padre era stato anche segretario, in gioventù, del più antico partito politico italiano in una località limitrofa, Talamello. Quel nome e il simbolo della foglia d’edera, in Romagna, spiccavano fieramente su fiammanti bandiere rosse e gli aderenti cantavano feroci canzoni contro i Savoia e tutte le teste coronate. La giovane Lucrezia, cresciuta con il mito dei “tre Giuseppe” (Mazzini, Garibaldi e Verdi) stravedeva per il padre che, al posto delle favole, le leggeva brani della Costituzione della Repubblica romana, che Aurelio Saffi , romagnolo purosangue, aveva contributo a scrivere con gli altri due membri del “triumvirato”, Armellini e Mazzini, dopo aver sottratto il potere al Pontefice, al tempo Pio IX. Papà Dolcini, rimasto vedovo, crebbe la sua unica figlia con amore, mettendola in guardia sulle fatiche della vita. Per rappresentarle meglio, usava un’immagine piuttosto forte, presa in prestito dal poeta Olindo Guerrini, in arte “Stecchetti”, anch’esso romagnolo: “La vita l’è coma la schèla de puler: cùrta, in salìda e pìna ad merda” (la vita è come la scala del pollaio: corta in salita e piena di sterco). Così, lavorando sodo, con il magro guadagno riuscì anche a far studiare la figlia e Lucrezia, tra un sacrificio e l’altro, si diplomò maestra e insegnò a leggere e scrivere nella scuola elementare di uno dei più popolosi rioni di Domodossola. Lo fece riponendo nel suo lavoro la stessa passione con cui, alla sera, partecipava agli incontri e alle iniziative promosse dal sindacato e dai partiti progressisti. Se c’era da predisporre un manifesto pubblico o organizzare una serata di solidarietà con le famiglie degli operai in sciopero di questa o di quell’altra fabbrica, la “maestra Lucrezia” non si tirava mai indietro, offrendo impegno e tempo senza nulla pretendere in cambio. Per questo era benvoluta e stimata in tutta la valle. E la notizia del suo decesso era stata accolta con tristezza e dolore. Chi poteva porgerle l’ultimo saluto? Carletto Barelli ebbe un’idea: “si potrebbe chiedere a Germinale Festelli, il maremmano. Che ne dite? ”. Convennero tutti che l’idea era ottima e  venne incaricato Libero Fusini, che lavorava  con Germinale all’acciaieria della “Pietro Maria Ceretti“.

 

Uno schietto e diretto, un po’ fumino e permaloso, il Festelli passava per uno che aveva un caratteraccio ma in realtà era solo allergico ai  compromessi e non aveva mezze misure, nel bene e nel male. Se un amico aveva bisogno, si faceva in quattro per dargli l’aiuto necessario ma se qualcuno gli faceva saltare la mosca al naso erano guai e dolori. “Quando Germinale diventa brusco è come il temporale che si scatena in agosto”, dicevano in fabbrica, alludendo ai fulmini e alle saette che accompagnavano le sfuriate del “toscanaccio” quando aveva la luna storta. Il Festelli, livornese di Cecina, saputo della morte di Lucrezia, sbottò con un solenne: “Maremma maiala! Che triste notizia mi date! L’era una donna decisa come l’omo. C’aveva dù ‘oglioni!”. Sinceramente dispiaciuto, non esitò a dare l’assenso alla richiesta che Libero gli sottopose a nome delle sezioni comunista e socialista, della Fiom  e della Camera del Lavoro, oltre che di alcuni dei vecchi repubblicani che erano rimasti fedeli alle loro origini. Il funerale si sarebbe svolto due giorni dopo, partendo dall’abitazione di Lucrezia, alla Noga, di fianco all’edificio seicentesco della  vecchia parrocchiale, dedicata alla Vergine del Rosario. Il corteo, prima di raggiungere il cimitero, avrebbe fatto una sosta in piazza Mercato dove avrebbero preso la parola Carletto Barelli e , soprattutto, Germinale Festelli, l’oratore ufficiale. Il cecinese preparò con cura il discorso, deciso a non farsi prendere la mano dall’ardore della passione che l’avrebbe, senza alcun dubbio, portato all’esagerazione. Scrivendo, cancellando, aggiungendo arrivò a quella che, per lui, era la perfezione possibile: un’orazione civile che si proponeva di omaggiare la memoria di Lucrezia, toccando le corde dei sentimenti più veri. Provò più volte il discorso davanti allo specchio, calcolando con l’orologio quanto tempo gli era necessario per leggere quel testo senza andar troppo piano, strascicando le parole, e neppure troppo veloce, con il rischio di mangiarsele. Cronometro ventitre minuti esatti. Né troppo, né troppo poco. Sì, poteva andare.

 

Così, con i fogli infilati nella tasca della giacca di fustagno del dì di festa, in testa al corteo composto da alcune centinaia di persone, affiancato da labari delle cooperative  e bandiere rosse, Germinale avvertiva su di sé tutto il peso della responsabilità. In piazza, dopo il telegrafico intervento del segretario della Camera del Lavoro, il Festelli s’avvicinò al microfono. Con un colpo di tosse si schiarì la voce e alzando lo sguardo sulla folla, appoggiò la mano sinistra sul feretro coperto da una bandiera sulla quale spiccava il simbolo dell’edera e fece per prendere i fogli dalla tasca. In quel momento, vuoi per l’emozione, vuoi perché non aveva toccato cibo dal giorno prima, gli si annebbiò la vista e – per un istante – si sentì mancare la terra sotto i piedi. Rendendosi conto che non era in condizione di leggere, prese coraggio e pronunciò, con voce di tuono, una delle più brevi orazioni funebri della storia: “ Oh, Lucrezia.  Noi ci s’ha fatto le lotte insieme e  ora siamo più soli.  L’è ‘nda’ via una compagna che valeva, maremma maiala ‘mpestaha ‘hane. E mi domando: oh, Lucrezia, perché sei morta se cinque minuti prima di morire, eri così piena di vita ?”. Dopo qualche attimo di smarrimento iniziarono i primi applausi e, in breve, l’intera piazza tributò l’ultimo, caloroso addio alla “maestra Lucrezia”, senza però trovare una risposta alla domanda di Germinale.

Marco Travaglini

Risotto raffinato al pesce Persico 

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Un delizioso risotto realizzato con un pesce di lago tra i più pregiati

Il pesce Persico ha carni morbide e delicate, perfette abbinate al riso. Un primo piatto raffinato e ricco di gusto. 

Ingredienti per il brodo: 
1 pesce da zuppa e 2 teste 
1 carota 
1 gambo di sedano 
1/2 cipolla 
2 spicchi di aglio 
Sale e pepe q.b. 
1 foglia di alloro, rosmarino, prezzemolo q.b 

Ingredienti per il risotto: 
1 Filetto di pesce Persico (350gr) 
2 pomodori maturi 
1 piccola cipolla 
1 spicchio di aglio 
1 noce di burro e poco olio evo 
Vino bianco secco, sale e pepe q.b. 

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Preparare il brodo: cuocere tutti gli ingredienti in due litri di acqua per circa un’ora. 
Risotto: in una larga padella rosolare la cipolla e l’aglio poi, aggiungere i pomodori tagliati a dadini e il filetto di pesce tagliato a pezzi. Aggiungere il riso, farlo tostare per qualche minuto, spruzzare con il vino bianco, lasciar evaporare poi, continuare la cottura versando a poco a poco il brodo caldo. Servire ben caldo cosparso di prezzemolo tritato. 

Paperita Patty

Giovanni Melampo, il fabbro Giuanin

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Giovanni Melampo, noto a tutti come “Giùanin”, l’ho conosciuto negli anni in cui veniva in banca a chiedere prestiti per la sua attività di fabbro. Camminava sempre a zig e zag, con passo incerto e le mani in tasca dove teneva sempre due mele, una per parte:” Vùna par tegna via luntan al dùtur e l’altra parché a lè mej veglà drèe“, mi diceva. Che, tradotto, era la sintesi del proverbiale “una mela al giorno leva il medico di torno” con l’aggiunta di un po’ di previdenza al fine di non farsi trovare sprovvisto di cibo quando i morsi della fame reclamavano udienza. Giùanin era, per certi versi, un artista. Possedeva una straordinaria abilità nel lavorare i metalli e una bacchetta di ferro, nelle sue mani, poteva diventare davvero un oggetto prezioso.

 

Non aveva, però, il senso della misura. Ricordo che, una volta, Ruggero Locati gli commissionò una gabbietta per tenerci un merlo: “Giùanin, mà ràcumandi. Una gabbia che non sia troppo piccola perché il merlo deve potersi muovere ma neanche troppo grande, perché la devo tenere in casa. Ci conto, eh?”. E lui disse di sì. Erano all’osteria della Trappola, seduti uno di fronte all’altro. Ma, come poi s’accorse anche il Locati, Giùanin quand’era “preso” non connetteva più di tanto. Quante volte era capitato anche a me di vederlo. Arrivava al Circolo, si metteva seduto al tavolo vicino alla finestra e comandava il primo mezzino. E poi un’altro , e un’altro ancora. Se gli si diceva qualcosa rispondeva a malo modo: “ L’acqua fa marcire i pali. Lo dicono tutti i  grandi bevitori di vino , e lo dico anch’io. Anzi, caro al mé ragiùnier, lo sai come dicono gli svizzeri? L’acqua fa male ed il vino fa cantare. E, allora, se vuoi farmi compagnia, prendi anche te un bicchiere e beviamo alla nostra salute. E poi , cantiamo”. E attaccava con il repertorio di canti degli alpini. Stonato com’era, era uno strazio doverlo ascoltare. Ma ,ormai, ci avevamo fatto l’abitudine. Tornando alla gabbia del merlo, passarono diverse settimane senza notizie. Locati si stava preoccupando quando, una mattina che era uscito un po’ prima per andare dal medico, incrociò il  fabbro. “Uelà, Giùanin. Incœu pensavì propri a tì. E ma disevi, tra mì e mì: al sarà minga mòrt ? Ed invece, vardatt’chi , ancamò viv. E la me gabbia dal merlo? Ti gh’he semper avùu la bravura de fa ma, madonnina cara, al temp te scarligà via“. Locati, milanese della Bovisa trapiantatosi sul lago Maggiore, non aveva perso l’abitudine del dialetto meneghino. Giùanin gli disse che aveva avuto dei problemi e  che andava di fretta ma anche che non s’era dimenticato e, all’indomani, il Locati avrebbe avuto la sua gabbia. A suo modo era una persona di parola. E così, il mattino dopo di buon ora, Ruggero Locati sentì il rumore di un motocarro fuori casa e un paio di colpi di clacson. Uscì e Giùanin gli chiese di aiutarlo a scaricare la “gabbietta”. Bastava guardare in faccia Locati per cogliere la sua somiglianza con la “rana dalla bocca larga”. Era rimasto lì, a bocca aperta, basito. La”gabbietta” aveva un diametro di circa due metri  ed era alta più di tre. Una voliera, ecco cos’era. Una voliera in piena regola e per più in ferro battuto. “Mah,mah,mah…” inziò a balbettare il Locati, incredulo. “Non c’è ma che tenga. Volevi una gabbia per il merlo,no? Eccola, qui. Larga e spaziosa. E siccome ti ho fatto aspettare un po’ di più, sai che faccio? Te la regalo”. Detto e fatto. Scaricata la gabbia, il Giùanin mise in moto e se ne andò, lasciando il milanese senza parole, ancor più a bocca aperta. Ecco, Giovanni Melampo era così, come dire?.. imprevedibile. Generosissimo e altruista , non sopportava però che  gli si dessero consigli sul lavoro. “ A l’è com’insegnàgh  a rubà ai làdar“. Cioè, era come insegnare a rubare ai ladri. Frase che rivolgeva a chi  aveva il vizio di dare spiegazioni inutili a chi era più esperto e competente. Oppure, bofonchiando tra i denti, sibilava un “ Pastizzee, fà ‘l tò mesté!“, sottolineando come fosse bene che ognuno lavorasse secondo la propria competenza. Poteva permetterselo, essendo un fabbro che “faceva i baffi alle mosche”. Dove abitava, sulla strada tra Loita  e Campino, praticamente sul confine tra Baveno e Stresa, aveva anche la sua bottega. L’incudine in ghisa era imponente. “Più è grossa, meglio è“, mi diceva il Giùanin. E quella, tra le due estremità, aveva una lunghezza di quasi due braccia. Di martelli ce n’era tutta una serie. “Per ogni lavorazione esiste il martello ideale. Vede, ragioniere, il peso è proporzionato a quello del pezzo da lavorare. E tutto dipende dall’efficacia che si vuol dare al colpo. Quello lì, ad esempio, è un martello da due chili. Quell’altro là ne pesa quasi tre mentre quello che sta lì, vicino a lei, pesa solo quattro etti“.

 

Quando parlava del suo mestiere usava un italiano corretto, da “professore”. “ Oggi, sa,  il ferro battuto viene richiesto soprattutto per arredare le case, dentro e fuori. Lampadari, tavolini, cancelli, intelaiature delle finestre. Ho anche molte richieste di cerniere per mobili“. In un angolo, sotto una larga cappa, c’era la forgia con il suo mantice per soffiare l’aria sul fuoco (“così si accelera la combustione e le temperature si mantengono più elevate“). Lo vedevo bene, Giùanin, aggirarsi sicuro tra i suoi attrezzi. Sembrava un direttore d’orchestra che disponeva gli strumenti nel modo migliore per eseguire la sinfonia. Lui, al posto di oboe, violini, violincelli, arpe e percussioni aveva pinze, taglioli, stampi, punzoni, dime, lime, seghe, mole, morse, trance, trapani. Anche in cucina era un mago. Talvolta mi capitava che, giunti ormai alla mezza,alzandomi per andare a casa a buttare un po’ di pasta da condire con pomodoro e parmigiano, com’era mia abitudine, mi teneva per il braccio, dicendomi: “Sù, ragiùnier, venga con me. Stiamo un po’ in compagnia. Le faccio assaggiare un po’ di pesce che m’hanno dato giù dal Luigino“. Tra le sue passioni c’era la pesca. Che condivideva, quando possibile, con Luigino Dovrandi, pescatore professionista ormai pensionato. Luigino, per non “perdere il vizio”, buttava le reti almeno tre volte la settimana e divideva il pescato con lui. A patto che cucinasse per tutti. A me capitava così di fare da “terzo” a questi banchetti. Tra i fornelli, Giùanin si destreggiava con abilità.La sua specialità era  il fritto misto di lago: alborelle in quantità e agoni, da friggere infarinati nella padella di ferro;  bottatrice, filetti di persico e lavarello, da cuocere a loro volta, impanati con l’uovo,  in burro e salvia , aggiungendo un goccio d’olio. Una bontà da leccarsi i baffi. E non finiva lì. Talvolta portava in tavola anche il  pesce in carpione, fritto e poi marinato in aceto, cipolla, alloro. Più raramente me lo proponeva in salsa verde. Si trattava, in quei frangenti, di lavarelli, agoni o salmerini grigliati e marinati in una salsa di prezzemolo, mollica di pane, aceto, capperi, acciughe, aglio, rosso d’uovo, olio d’oliva. D’inverno ci serviva i “missultitt” con la polenta. Questi agoni essiccati li trovava Luigino nella parte alta del lago, tra Ghiffa e Oggebbio. Lì, a dispetto del tempo e delle tradizioni che lasciavano il passo, alcuni vecchi pescatori suoi amici trasformavano gli agoni pescati in tarda primavera in missoltini, essicandoli al sole e conservandoli,  strato su strato – con foglie d’alloro – pressati nella “dissolta”, un recipiente chiuso da un coperchio di legno sul quale gravavano dei pesi, così che i missoltini restassero “sotto pressione” per alcuni mesi. Una volta “liberati”, Giùanin li passava per pochi istanti sulla griglia rovente, irrorandoli d’olio e aceto, per poi servirli sui nostri piatti con delle larghe fette di polenta abbrustolita e tre bicchieri di vino rosso. Un’allegria per il palato e una gioia per la compagnia.

 

Marco Travaglini

L’on. Figurelli e l’imprevisto

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Ma, Castagnetti che fine ha fatto?“. Anselmo Ruspanti lo chiese, con sguardo interrogativo, ad Albano Galavotti che a sua volta, allargando le braccia, lasciò intendere che lui non ne aveva la più pallida idea.

Forse la Marietta ci può essere d’aiuto”, intervenne Flavio Rizzato, più noto come “cìaparatt”, grazie all’abilità con cui liberava cantine e solai dalla presenza dei roditori. E infatti Marietta, abituata a farsi gli affari di tutti in paese, s’affrettò ad informare i tre che lo “spelafil”, l’elettricista Giuseppe Castagnetti, era andato per funghi  alle “Cascine” e, probabilmente da lì era salito al monte Vago. “Oh, Madonna! Ma è diventato matto? E adesso? Come facciamo a metter su l’impianto elettrico dato che i fili li ha lui?”. Carmine Degrelli, che aveva sentito tutto, diede voce alla preoccupazione dei presenti. Senza l’elettricista non c’era modo di collegare il cavo elettrico alla batteria da camion che Galavotti portava nel baule della sua “giardinetta”, una Fiat 1100 familiare color caffelatte. E senza il collegamento elettrico le “trombe” dell’impianto di amplificazione sarebbero rimaste mute e l’onorevole Figurelli non poteva fare il suo comizio. “Bisogna inventarsi qualcosa perché tra poco arriva e se vede in che stato siamo conciati, s’incazza come una belva e poi, apriti cielo..”, lamentò Anselmo che, in quel momento, rappresentava la massima autorità sul campo, in quanto responsabile del PCI per i comuni della sponda occidentale del lago. Per l’onorevole Figurelli, dopo i discorsi  in piazza  Motta a Orta e al circolo operaio di Lavignino ad Armeno, quello in piazza Marconi ad Ameno era il terzo e penultimo appuntamento del giorno, prima di passare da Omegna e risalire la valle Strona fino a Luzzogno per l’ultimo appuntamento, sul calar della sera. Tutto era programmato con precisione poichè d’autunno il sole tramontava prima e alla sera in pochi sarebbero usciti di casa per andare a sentire Figurelli, nonostante fosse conosciuto e ben stimato. Un ritardo ad Ameno avrebbe compromesso il resto della giornata. E non andava per niente bene. Mentre Galavotti stava armeggiando attorno alla batteria per capire cosa si potesse fare spuntò da un vicolo, allegro e fischiettante, il Castagnetti. “Giuseppe, testa di legno, dove ti eri cacciato, eh?”, l’apostrofò Ruspanti, rosso in volto. Per tutta risposta l’elettricista mostrò il cestino di vimini  che portava a tracolla, colmo di sanissimi porcini. Per un attimo i presenti temettero che Anselmo volasse addosso allo “spelafil” ma l’intervento provvidenziale di Flavio, il  “cìaparatt”, riportò tutti alla realtà: “Non c’è tempo da perdere. Tra poco arriverà l’onorevole e bisogna essere pronti. Dai, Giuseppe, corri a prendere i cavi mentre noi prepariamo il resto”. Detto e fatto, quando il sidecar guidato da Paulin Nobelli entrò in piazza, con l’onorevole seduto nel carrozzino ,l’allestimento era completato: impianto collegato, microfono funzionante, due bandiere rosse posizionate ai lati di un piccolo leggio. Figurelli, da esperto oratore, sapeva “tenere” i comizi. E quando capitava su di una piazza, una piccola folla s’accalcava e spesso non si trattava solo di sostenitori. Talvolta anche i curiosi s’intrattenevano perché i comizi erano vissuti come degli spettacoli, per  di più se si svolgevano  all’ aria aperta e l’oratore di turno era capace di catturare l’attenzione degli astanti. In quel caso raccoglieva  più di un applauso. Ma, prima di ogni altra cosa, il saper affrontare e risolvere gli imprevisti  rappresentava un’arte che disponeva di pochi maestri e di moltissimi intenditori. Tra i primi senz’altro s’annoverava il Figurelli. Così, quando nel bel mezzo del suo appassionato discorso sopraggiunse una grande auto bianca che si fermò sul ciglio della piazza, lui non tradì nessuna emozione o turbamento, infilando frasi e concetti con proprietà di linguaggio.Lo stesso non si potè  dire del pubblico che guardò con stupore quell’auto, una sfavillante e lussuosa Cadillac Eldorado in versione berlina, bianca come il latte. Un modello di quel genere, con le pinne posteriori che la rendevano unica e le sue dimensioni inusuali in lunghezza e larghezza, era impossibile non notarlo. Quando poi dalla vettura scese un signore di mezza età, fasciato in un abito di alta sartoria, con un bastone dal pomello d’avorio pronunciando con voce sonora il nome di battaglia dell’onorevole quand’era partigiano ( “Cippo!”), sulla piazza cadde il  silenzio. Figurelli lo guardò dritto negli occhi e, allargando le braccia, gli andò incontro  gridando a sua volta: “Amico mio!”. I due parlarono fitto per una decina di minuti sotto gli sguardi increduli e curiosi del pubblico.Poi, salutato l’onorevole con una vigorosa stretta di mano, lo sconosciuto signore risalì sulla Cadillac e proseguì per la via che portava fuori dal paese guidando lentamente e restando a centro strada, attento a non rovinare la carrozzeria di quel gioiello. L’onorevole Figurelli, a sua volta, riprese il comizio dal punto in cui l’aveva interrotto e nel breve di un quarto d’ora terminò tra applausi e grida d’approvazione.Salutato il pubblico, prima di risalire sul sidecar che Paulin aveva già messo in moto,venne avvicinato da Ruspanti e Galavotti che chiesero lumi sull’episodio. Chi era quell’uomo? Come mai si conoscevano?La risposta di Figurelli li lasciò di stucco: “Cari compagni, non ho proprio la benchè minima idea. Non l’avevo mai visto prima d’ora anche se mi ha parlato di un suo prossimo viaggio a Roma quasi fossimo grandi amici. Ho persino il sospetto che  mi abbia scambiato per un altro anche se si è rivolto con il mio nome di battaglia che però è noto a tutti. Io, comunque, non mi sono fatto scappare l’occasione: uno così, con un macchinone tale, fa sempre scena in paesi piccoli dove noi comunisti siamo visti con un pò di sospetto”. Ecco cosa significava, in concreto, saper dominare gli imprevisti.

Marco Travaglini

Giacomo e la briscola chiamata

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Quando il cielo lacrimava e sul lago soffiava quell’arietta fresca che intirizziva, la passeggiata sul lungolago verso la Villa Branca finiva immancabilmente davanti alla porta dell’amico Giacomo dove ci attendevano le sfida a briscola e tresette

 

Giacomo Verdi, detto “balengo” perché amava spingere la sua barca a remi tra le onde del lago in tempesta, infischiandosene dei rischi, da un bel po’ di tempo era costretto a stare in casa. Un brutta sciatalgia e i reumatismi rimediati  nel far la spola tra le due sponde del lago e le isole, gli impedivano di stare troppo in piedi. E allora, con la scusa di andarlo a trovare, ingaggiavamo delle tremende sfide all’ultima mano. “ Ah, amici miei, sapeste che rottura di balle dover star qui recluso. Per uno come me che non trovava mai terraferma e che fin da piccolo stava con la faccia contro vento, star qui costretto tra seggiola e divano, tra poltrona e letto, è proprio una gran brutta cosa. Quelle volte che non sento il cambio del tempo e riesco a metter il naso fuori dall’uscio, è una tal festa che non mi potete credere. Guardate, è come se fosse un Natale o una Pasqua fuori stagione. Ah, è talmente bello che mi sento un re”. Ogni volta, prima di tirar fuori il mazzo delle carte dal cassetto, Giacomo –  quasi stesse sgranando un rosario – ci faceva partecipi delle sue lamentele. Ma bastavano due o tre smazzate per sparigliare tutto e come d’incanto si dimenticava di acciacchi e malanni. Faceva smorfie, imprecava, sbatteva le carte sul tavolo. Non nascondeva l’ira o la gioia, a seconda di come gli “giravano” le carte, ma era un’altra persona. Amava quei giochi, vantandosi di essere un grande esperto. A volte ci teneva delle vere e proprie lezioni. “ Vedete, il mazzo con cui stiamo giocando è composto da 40 carte di 4 diversi semi. Ma c’è una grande varietà stilistica nel disegno.

In alcune regioni sono diffuse le carte di stile italiano o spagnolo, con i semi di bastoni, coppe, denari e spade e con le figure del fante, del cavallo e del re. In altre si usano le carte con i semi francesi .Sono cuori, quadri, fiori e picche, con le figure del fante, della donna e del re.Ecco, sono proprio queste che stiamo usando per la nostra partita”. Parlava come un libro stampato, in un italiano corretto e persino raffinato. “Fate attenzione a queste.Sono carte bergamasche, tipicamente nordiche.Hanno caratteristiche in comune con le figure dei tarocchi lombardi. L’asso di coppe si ispira alle insegne della famiglia Sforza”. Era capace di andar avanti così per un bel po’ se non cambiavamo discorso. E allora ci raccontava delle sue avventure, partendo sempre da quella volta che aveva portato sull’isolino una contessa ( omettendo di dire chi fosse, precisando “sapete,io sono una persona discreta e non mi piace far nomi” ) che per tutto il tragitto continuò a fargli l’occhiolino. Immaginando una qualche complicità e una sorta d’invito, appena toccato terra, tentò di abbracciarla e baciarla, guadagnandosi una sberla tremenda. “Madonna, che botta mi ha dato! Cinque dita cinque, in faccia, secche come un chiodo. Ero diventato rosso come un tumatis, un pomodoro, restando lì a bocca aperta, come un baccalà”. “ Ah, cari miei, se beccavo quel maledetto Luigino dell’Osteria dei Quattro Cantoni lo facevo nero come il carbone”. Quella storia l’aveva raccontata un infinità di volte ma, per non contraddirlo, ci fingevamo interessati e lo incalzavamo con le solite domande (“Come mai,Giacomo? Cosa c’entrava Luigino?”). E lui s’infervorava. “Cosa c’entrava, quella carogna? Cosa c’entrava? C’entrava che se l’avevo tra le mani gli davo un bel ripassoLo pettinavo per bene quel mascalzone. Mi aveva assicurato che la contessa era una che ci stava, che gli piacevano i barcaioli. Mi disse che se gli fossi piaciuto mi avrebbe fatto l’occhiolino. E me l’aveva fatto, porco boia; altro che se me l’aveva fatto. Ma era per via di un tic nervoso. Altro che starci. Sembrava una iena. E quel saltafossi lo sapeva, capite? Lo sapeva e mi ha tirato uno scherzo”. Sbollita la rabbia per quella brutta figura che ormai faceva parte dei ricordi, ricominciava a giocare, picchiando le carte sul tavolo come se quello fosse la testa pelata di Luigino. Giacomo abitava in una casa che dava su via Domo. Dalla parrocchiale , dove c’è Largo Locatelli, si scendeva verso l’abitazione per una viuzza stretta, tortuosa, lastricata a boccette che finiva nella piazzetta.

Lì, al numero 12, in una casa piuttosto bassa, coperta da un tetto di piode, stava il Verdi. Quasi in faccia alla cappelletta che ,si diceva, fosse stata eretta come ex-voto per la liberazione dalla peste. Sotto l’arco s’intravedevano ancora gli affreschi raffiguranti la Madonna con il Bambino e ben due coppie di santi : Giuseppe e Defendente, da una parte;Gervaso e Protaso, dall’altra. Era lì che la povera Marietta posava il cero nei giorni in cui suo marito, quel matto di Giacomo, metteva la barca in acqua incurante del “maggiore” che spazzava le onde, gonfiando minacciosamente il lago. Ora che Marietta era  passata a miglior vita era Giacomo – ormai prigioniero a terra per via dei malanni – a dare qualche soldo a Cecilio, il sacrestano, perché non si perdesse quell’abitudine che – diceva, sospirando – “ in fondo, mi ha sempre portato bene”. Ecco, le giornate più uggiose le passavamo in casa di Giacomo, in uno dei rioni più antichi di Baveno.Lì c’è ,ancora adesso, la “Casa Morandi”, un edificio settecentesco di quattro piani, con scale esterne e ballatoi. È forse l’angolo più apprezzato dai pittori e dai fotografi di tutta la cittadina. Sono in tanti, in Italia e all’estero, a tenere sulle pareti del salotto un acquerello, una china o più semplicemente una foto incorniciata della casa Morandi. Segno inequivocabile che da lì è passata un sacco di gente ,portando con sé la storia, quella vera, quella che si legge sui libri. E magari incrociando le carte con Giacomo.

Marco Travaglini

La pasta è saporita con fave, pecorino e salsiccia

Un’idea per un primo piatto insolito e gustoso?

Linguine fave e salsiccia.

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Ingredienti per 4 persone:

320gr. di linguine o trenette

400gr. di fave fresche o surgelate

300gr. di salsiccia o salamella

Cipolla, sale,pepe, olio

1 ciuffetto di menta.

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Sbollentare le fave (conservare un mestolino di acqua di cottura), privarle della pellicina, lasciar raffreddare e frullarne meta’ con l’acqua di cottura, il ciuffo di menta, sale, pepe. Nel frattempo soffriggere un pezzetto di cipolla con un cucchiaio di olio, aggiungere la salsiccia ridotta a pezzettini, lasciar rosolare, unire il pure’ di fave e le fave intere rimaste. Cuocere la pasta al dente e spadellarla nel sugo. Servire con pecorino grattugiato fresco.

 

Paperita Patty

(Foto: il Torinese)

L’imbarazzante presentazione…

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File di lampadine illuminavano la festa. I tavoli e le panche di legno, per l’occasione, erano stati rimessi a nuovo da Bepi Venier. Ripuliti, passati meticolosamente con la spessa carta vetrata e tonificati con una mano abbondante di essenza di trementina e poi di coppale, una resina dura, traslucida, delicata d’odore

La scelta del colore, un bel marrone carico, non era stata dettata da ragioni estetiche ma dalla necessità: erano le uniche due latte di vernice che Aquilino Bonello era riuscito a recuperare gratis da un suo vecchio cliente. Dunque, di necessità si fece virtù. La cucina, protetta da una struttura in tubi Innocenti, era stata montata su di un pavimento in mattonelle di ceramica posato da Teresio che in gioventù si era distinto come onesto artigiano piastrellista. Mariuccia era stata nominata, con il consenso di tutti, comandante in capo per le operazioni di cucina. Insieme a due amiche, Luisella e Adelaide, e a tre aiutanti a far da garzoni aveva predisposto un piano di battaglia adeguato. “Mettere insieme pranzo e cena per un oltre un centinaio di commensali per volta non è semplice”, ripeté per giorni, facendosi pregare. Maria era fatta così. Le piaceva fare la preziosa ma era solo scena; in fondo era ben contenta di farsi in due per la buona riuscita della prima festa dei pescatori del lago di Viverone, al campo sportivo di Azeglio. Lo specchio d’acqua dolce era il terzo lago più grande del Piemonte, situato tra l’estrema parte nord-orientale del Canavese e  e l’estrema parte meridionale del Biellese. E quella festa era davvero molto importante. Così come il contributo di Maria. La sua era una presenza indispensabile. Senza i suoi consigli e, quando capitava, senza il suo tocco, non ci sarebbero state quelle cene a base di pescato del lago che ogni mese venivano organizzate all’Osteria del Coregone Dorato. Nell’occasione aveva deciso di chiudere per tre giorni il locale, trasferendosi alla festa. Gran cuoca, dal cuore generoso e senza un’ombra di avarizia, non vedeva l’ora di poter raccontare a tutti i segreti della sua cucina. Immaginiamo che possa apparire come una stranezza, visto e considerato che i cuochi, di norma, sono gelosissimi dei loro segreti. Ma la nostra Maria  era convintissima di un fatto: a fare la differenza non erano solo ingredienti e tecniche ma il tocco, lamano. E su quello non temeva confronti. Un esempio, così a caso? La scorsa settimana, mentre si parlava del più e del meno, ci disse a bruciapelo: “Volete sapere come si fa la pastella per la frittura delle alborelle?” Non abbiamo fatto in tempo ad aprir bocca  che stava già declinando la ricetta. “Dovete versare in una terrina duecentocinquanta grammi di farina. Ci aggiungete due cucchiai di olio extra-vergine di oliva  e un pizzico di sale fino. Versate a poco a poco un bicchiere di birra chiara. Fatelo molto lentamente, sbattendo man mano con una forchetta, così evitate che si formino grumi. Con una quantità d’acqua sufficiente, a occhio, si ottiene una bella crema. Sapete montare gli albumi a neve? Bene. Ce ne vogliono sei. Quando sono pronti, li aggiungete alla pastella, mescolando ben bene dal basso verso l’alto. A questo punto non vi rimane che passarci i pescetti prima di tuffarli nell’olio bollente”. Tirò il fiato solo al termine della lezione,servendoci un gran piattone di quelle prelibatezze poichè Maria, mentre parlava, cucinava.

Gli architravi della nostra organizzazione, oltre a lei, erano Duilio e Giurgin. Per la scelta del vino occorreva un intenditore. Chi meglio di Jacopo di Piverone poteva vantare competenza e passione? Marcato stretto, evitando che si perdesse via in troppi assaggi, indicò nel vino da tavola di un produttore di Carema il migliore in assoluto. “Questo va bene per tutti i palati, anche per quelli più esigenti”, sentenziò, accompagnando le parole con un sonoro schiocco della lingua. Occorreva però una padella bella grande, larga quanto le braccia di Goffredo. Ma a questa aveva pensato Tomboli, che di nome faceva Mariano, operaio in un’impresa artigiana. L’aveva costruita un po’ per volta, sfruttando la pausa del pasto di mezzogiorno. Svuotata con quattro avide cucchiaiate la minestra della schiscèta, si metteva al lavoro. Batteva la lastra, ripiegando il metallo per ottenere un bordo abbastanza alto da non far schizzare fuori l’olio. Il fondo era doppio, robusto. Sul manico, saldato alla padella, aveva applicato un’impugnatura di legno, fissata con quattro viti. Per friggere i pesci in quantità era una cannonata. Se quella di Camogli rimaneva la padella per la frittura di pesce più grande d’Italia, quella di Mariano è la più capiente e robusta del lago di Viverone. Oreste si è fatto avanti per averne una uguale ma Mariano non aveva sentito ragioni. “Paganini non ripete. Non è questione di soldi o di tempo. E’ che una volta fatta una padella così, con tutta la passione che ci ho buttato dentro, non credo di poterne fare una uguale. Per non far brutta figura, rinuncio”. Così, tra mega padelle e tanta buona volontà, la festa di Azeglio si aprì con un successo da non credere: tanti, tantissimi in coda per le razioni di frittura dorata, sfrigolante nell’olio d’oliva. Gli amanti del pesce non avevano che l’imbarazzo della scelta, degustando alborelle, trote, salmerini, tinche, carpe, persici, lucci e soprattutto gli immancabili coregoni impanati e fritti, marinati in carpione, proposti in umido con le verdure e il bagnetto. Come tutte le associazioni che si rispettino, anche la Società Pesca Libera Lago Viverone – dall’impronunciabile e scivoloso acronimo SPLLV – aderiva ad un organismo che di tutela e rappresentanza come la Fips, la federazione della pesca sportiva. Così, nell’intenzione di fare le cose per bene, venne invitato il delegato provinciale, un tal Giampiero Nuvoloni di Chivasso, per un saluto.

Il delegato, un omone di oltre cento chili, dal colorito rubizzo e con una imponente zazzera di capelli sale e pepe, si presentò puntuale. Gli avventori riempivano i tavoli e in gran numero stavano già onorando la cucina di Maria. Lui, guardandosi attorno compiaciuto, si avviò verso il microfono con Giurgin , al quale era stata affibbiato l’incarico di cerimoniere. Schiarita la voce con un colpo di tosse, accingendosi a presentare il dirigente della Fips, Giurgin iniziò a sudar freddo. Si era scordato il nome di quest’omone che, alle sue spalle, pareva incombesse su di lui, basso e mingherlino, con tutta la sua mole. Un vuoto di memoria improvviso e imbarazzante. Come diavolo si chiamava? Nugoletti, Nivolini, Nuvolazzi? Oddio, che guaio. Che fare, a quel punto? Non aveva alternative. Decise di stare sul generico e quindi, con tutte le buone intenzioni, provò a dribblare la difficoltà del momento, pronunciando poche ma decise parole: “Amici, cittadini, pescatori. E’ un onore ospitarvi e un privilegio dare la parola al.. mio didietro”. Le risate, soffocate a malapena, si sprecarono. Il Nuvoloni, che si trovava alle  spalle del povero Giurgin, si ritrovò in mano il microfono. Rosso in volto e schiumante di rabbia, lo avvicinò alla bocca quasi volesse morderlo o mangiarlo. L’altoparlante gracchiava di brutto e questo non aiutò la comprensione. Chi poté udire le parole dell’iracondo delegato Fips giurò in seguito che non fu un discorso particolarmente memorabile. Comunque, dopo meno di cinque minuti, il signor Giampiero, scuro in volto come il lago durante una tempesta, restituì il microfono e se ne andò, incavolato nero, senza guardare in faccia nessuno. Giurgin, affranto, piagnucolava: “Non l’ho fatto apposta. Ero in pallone e mi è venuta fuori così”. La sensazione che tutti ebbero era che, per un bel po’, difficilmente si sarebbe ancora visto da quelle parti il Nuvoloni e, molto probabilmente, anche gli altri della Fips. La festa azegliese, comunque, finì in gloria e allegria, consolando Giurgin con un allegro e chiassoso “prosit”!

Marco Travaglini

Daniele Lunelli e la “comunità dei pesci” del lago Maggiore

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Quella dei pesci era ed è una vera “comunità” che vive nel lago Maggiore da Sesto Calende fin su in Svizzera. Ci sono dei  salmonidi diffusissimi  come i coregoni o più rari come le trote fario e marmorata che, finite nel lago dai fiumi, si sono ambientate fino a “cambiar pelle”, assumendo una livrea argentata con pochi e piccoli segni scuri a forma di ics

Il mio amico Daniele Lunelli è l’ultimo discendente di una famiglia di pescatori che si tramandano il mestiere di generazione in generazione. Con il tempo è diventato bravo nel maneggiare le “reti volanti” quasi come suo padre Gioacchino e suo zio “Lisca”, al secolo Mariano Lunelli. Con le “volanti”, zavorrate di sotto coi piombi o con dei sassi tondi e tenute  di sopra a pelo d’acqua grazie alle file dei galleggianti, bisogna saperci fare. Soprattutto occorre aver “naso” per i venti e le correnti e farsi un’idea più o meno precisa sui posti dove si può trovare il pesce. Quasi nulla viene lasciato al caso anche se  il movimento di quelle reti calate al largo nel tardo pomeriggio e lasciate libere di muoversi fino all’alba, a seconda delle “rotte” delle correnti dominanti, può apparire casuale. “ In realtà, quando le ritiriamo in secca – mi dice Daniele – troviamo che sono rimasti impigliati , a seconda delle maglie della rete,  trote di lago e coregoni, agoni ed alborelle”. Quando invece si “punta” su tinche, scardole, persici o lucci sono necessarie le reti fisse, “da posta”,  posizionate sul litorale. Ma la sua vera abilità il pescatore provetto la mette in mostra con il tramaglio. Ormai, sulle rive del lago, erano rimasti in pochi ad utilizzarli con abilità nella cattura dei persici. Formati da tre strati di reti sovrapposte ( i due esterni, le “armature” o “mantelli”, a maglie grosse; quello interno, il “velo” più alto e più fine ), vengono disposti in acqua a perpendicolo così che i pesci – attraversato il mantello – finiscono imprigionati e senza scampo nella trama fitta del “velo”. “ E’ una pesca che richiede occhio e abilità”,dice Daniele, a cui non pare vero poter spiegare le varie tecniche di pesca. “ Oggi non interessa quasi a nessuno conoscere questi particolari. Forse pensano che il pesce persico ci va da solo sul banco della pescheria e, strada facendo, per non far perdere tempo, trova anche il modo di sfilettarsi. Comunque, i tremagli possono essere usati “in posa” o “al salto”. In quest’ultimo caso si calano e si tirano su di giorno, spaventando i pesci con un remo o buttando dei sassi in acqua, così che scappano verso la rete e noi..zacchete!..li catturiamo, appunto, al salto” .

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Da lui ho imparato un sacco di cose. Ad esempio che nelle acque meno profonde, per la cattura del pesce più pregiato, cioè persici , lucci e anguille, si usa il bertovello, “al bartravel”, una specie di “nassa di lago”,  cilindrica e con delle aperture a cono, cosicché il pesce- una volta entrato – non può più uscire, restandovi imprigionato. Sono state vietate, invece, le reti a strascico e le “bedine” con le quali, un tempo,  era stata fatta strage di pesci. Le prime, trascinandosi sul fondale del lago, lo “aravano”, provocando danni seri all’ambiente mentre le seconde- calate a cerchio in pieno lago – “insaccavano” il pesce senza tanti complimenti e senza discriminazioni, mettendo a rischio la fauna ittica. “ Ma sai com’è..Una volta non c’era una gran coscienza e la fame era la fame. Per far guadagno non si andava tanto per il sottile anche se i veri pescatori stavano comunque attenti perché dal lago e dai pesci dipendeva la vita delle loro famiglie”. Quella dei pesci era ed è una vera “comunità” che vive nel lago Maggiore da Sesto Calende fin su in Svizzera. Ci sono dei  salmonidi diffusissimi  come i coregoni o più rari come le trote fario e marmorata che, finite nel lago dai fiumi, si sono ambientate fino a “cambiar pelle”, assumendo una livrea argentata con pochi e piccoli segni scuri a forma di ics. Si narra ancora di quella trota catturata ad Ascona che, lunga più di un metro e mezzo, pesava ben 22 chili, a dimostrazione che ne giravano di belle dentro il lago. Sui coregoni, ad esser sinceri, va fatta qualche precisazione. Alla  loro famiglia , presente nei nostri laghi prealpini, appartengono due specie : il  “lavarello” e la “bondella”. Non si tratta dello stesso pesce, nonostante la bondella sia più minuta, ma spesso solo gli ittiologi – ed i pescatori di mestiere –  sono in grado di distinguerli fra loro. Entrambi non sono propriamente nati qui. Il Lavarello è stato introdotto alla fine dell’800 dai laghi elvetici mentre la Bondella proviene dal lago di Neuchatel ed è stata “introdotta” nel Maggiore nel 1949 ed in quello di Como agli inizi degli anni’ 60. Andando avanti nell’elencazione troviamo, tra i frequentatori più diffusi delle acque del lago, il prelibato Persico e l’Agone. Il Luccioperca, una specie di via di mezzo tra il persico ed il luccio, forte predatore che vive nei  litorali dove  la corrente è modesta e la vegetazione è scarsa, è arrivato nel Maggiore provenendo dal lago di Lugano. Originario dell’est europeo, ai primi del secolo scorso era stato immesso nelle acque del Ceresio e da lì, attraverso il fiume Tresa ,suo principale emissario, che sfocia nei pressi di Luino, ha raggiunto a nuoto il lago Maggiore. E, vista la proliferazione, si dev’essere sentito a suo agio, a casa propria. Viceversa, di anguille ne sono rimaste poche. E quelle poche non hanno tanta voglia di finire in umido o in carpione. Questo pesce ha un ciclo vitale straordinario e misterioso.  Ad un certo punto della sua vita  abbandona le acque dolci  dei fiumi e dei laghi europei per dirigersi verso il mare e, raggiunta la grande tinozza di acqua salata, continuano il loro viaggio fino ad arrivare in una certa zona dell’oceano Atlantico – il mar dei Sargassi –  per deporvi le uova in primavera. E poi ? Poi tornano indietro, affrontando un viaggio a ritroso che dura anche più di tre anni per coprire le migliaia e migliaia di chilometri che separano il Mar dei Sargassi dalle coste europee, dal Mediterraneo, dai fiumi e dai laghi. Da noi, con le dighe sul Po e sul Ticino a far da barriera, il loro ritorno diventa una sorta di “corsa ad ostacoli”.

 

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Chissà perché, dopo tutte queste peripezie,tornata in acqua dolce,  l’anguilla diventa un pesce con abitudini notturne, che durante il giorno vive nascosto in tane oppure immerso nel fondo; forse per riposarsi del viaggio? Se così fosse, bisognerebbe lasciarle un po’ in pace. E i pescatori, quando pescano, stanno zitti e non parlano mai anche per non disturbare il sonno delle anguille. E gli altri pesci? Cavedani, scardole, tinche,alborelle, “trollini”, pighi, savette, persici sole ( i tremendi e famelici “gobbini”) ce ne sono in quantità ed ognuno ha la sua parte della grande famiglia ittica. Infine, sua maestà il luccio che, con la sua bocca a “becco d’anatra”, dominata da robusti e acuminati denti, è il re dei predatori d’acqua dolce. Caccia restando immobile fra le piante acquatiche fino a mimetizzarsi, in attesa che la preda si avvicini. E’ il terrore  dei pesci più piccoli ma, quando ha fame, non disdegna rane, piccoli mammiferi e giovani uccelli acquatici. Un signore di Helsinki, conosciuto un’estate a Feriolo dov’era ospite di un campeggio, mi disse che nel suo paese – e non solo lì – nel corso dei secoli, il luccio è diventato un simbolo araldico,indicante i diritti di pesca ed  usato negli stemmi di famiglie nobili o di  città. Io però ricordo quello che prese Gilberto Camòla, pescando  con il cucchiaino sulla spiaggetta della Villa Fedora, a Baveno. Aveva fatto un lancio lungo e stava recuperando piano piano  quando uno strappo violento quasi gli portò via la canna a mulinello dalle mani. Ci mise poco a capire che aveva abboccato qualcosa di grosso e dopo una battaglia lunga quasi mezz’ora, riuscì – in un bagno di sudore – a portare sulla battigia un luccio enorme. Al peso risultò di quasi undici chili. Una bestia con una bocca che incuteva timore. Provate voi  a pensare com’erano quelli di taglia e di peso quasi doppio, che erano stati pescati sulle due sponde del Verbano. “Se vuoi essere un buon pescatore devi conoscere bene i pesci. Oggi c’è gente a cui capita di pescare così, una volta tanto e di allamare una butrisa, spaventandosi quasi avesse catturato un mostro. E’ vero che la bottatrice ha un aspetto sgradevole, paragonabile a quello di un gigantesco girino e ricorda un po’ il pesce gatto, con quella  grossa testa piatta, gli occhi piccoli e quel corpo cilindrico che si va assottigliando verso la coda ma, vivaddio ,è pur sempre una creatura del nostro lago”.Daniele non si mette mai il cuore in pace e s’arrabbia quando chi vive sulla terraferma non porta rispetto a chi vive sott’acqua. Ricordo quando gli feci conoscere un altro mio amico, un professore che lavora all’istituto Idrobiologico di Pallanza e quest’ultimo gli raccontò che un tempo il lago Maggiore arrivava fino a Bellinzona e che bisognava preservarlo dall’inquinamento. Non ebbe esitazioni: lo abbracciò commosso. Aveva trovato un nuovo amico. Anzi, un altro amico di quel lago che era casa sua. E quella sì che  era una cosa importante, da festeggiare con un mezzo litro di rosso all’osteria dei Gabbiani.

Marco Travaglini