FOCUS INTERNAZIONALE di Filippo Re
Si vedono e si sentono anche i colori e i profumi del celebre Gran Bazar nel libro che Edmondo De Amicis dedicò a Costantinopoli sul finire dell’Ottocento facendo rivivere con pagine di grande eleganza letteraria la capitale dell’Impero ottomano ormai al tramonto
Arrivato via mare dopo oltre dieci giorni di navigazione il cronista-scrittore ligure, ma torinese d’adozione, rimase stupefatto dalla bellezza della città sul Bosforo “davanti alla quale tutti emettono un grido di meraviglia”. Come altri scrittori, anche il viaggiatore di Oneglia, Torino e Pinerolo, ci accompagna all’interno del Bazar scoprendo aromi e fascino nascosti sotto le volte di quel grande edificio di pietra, un tempo di legno, tra odori di spezie, stoffe e pellame, dedalo di vicoli, portici, fontane e piazzette, sovrastati da cupole che lasciano passare la luce, nel quale “si vedono tante di quelle meraviglie che è molto difficile andarsene senza comprarle” come ammettevano i viaggiatori europei dei secoli scorsi visitando la città dei sultani. È notizia di questi giorni che alcune decine di commercianti del Gran Bazar stambuliota, a causa della crisi economica e del netto calo dei turisti, hanno lasciato Istanbul per riprendere la loro attività sulle coste adriatiche del Montenegro. Non è certo un addio al famoso Bazar che oggi dà lavoro a migliaia di negozianti ma la notizia crea comunque un certo stupore pensando al ruolo vitale che questa struttura, vecchia di oltre cinque secoli, ha rappresentato nella storia di Costantinopoli. Centro commerciale di un tempo, il Gran Bazar era soprattutto il più importante luogo di incontro della capitale ottomana. Tutti i mercanti, musulmani, greci, ebrei e armeni si davano appuntamento nel Bazar per discutere di lavoro, affari e viaggi. Fatto costruire da Maometto II pochi anni dopo la conquista turca della capitale bizantina, l’antico Bazar sembrava una piccola città, con negozi, hamam e moschee, circondata e protetta da alte mura tra il Corno d’Oro e il Mar di Marmara. La giornata cominciava alle otto con la tradizionale preghiera per il sultano e finiva alle sei del pomeriggio. Nel Quattrocento le botteghe artigiane erano almeno duecento, in gran parte al coperto e una parte all’aperto, e i proprietari quasi tutti musulmani. Vi trovavano posto bottegai di sete e tessuti, oro e argento, rubini e turchesi, cappelli, vasi dorati e libri. Il Bazar non era solo un punto di riferimento per il commercio e gli acquisti ma anche un luogo dove si pianificava l’economia e si compravano gli schiavi. Era anche una sorta di Banca. C’erano infatti dei forzieri, ben custoditi dietro le botteghe, dove i residenti potevano nascondere denaro e oggetti preziosi. Ci si fidava finchè un tal giorno, verso la fine del Cinquecento, un giovane ladro svuotò di notte molte casseforti. Il clamoroso furto gettò nella disperazione tutta la città a tal punto che il malvivente, appena catturato, fu impiccato davanti al sultano.
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