“Il cliente” di Asghar Farhadi, angoscia e vendetta nell’Iran di oggi

A Cannes gli è stato conferito il premio per la miglior sceneggiatura (oltre al Palmarès per il miglior attore protagonista a Shahab Hosseini): che può anche essere inteso come il riconoscimento globale al grande lavoro di scrittura, alla costruzione della struttura narrativa che Asghar Fahradi, quarantacinquenne regista iraniano già acclamato autore di “About Elly”, di “Una separazione”, di “Il passato”, mette alla base delle proprie opere. Al racconto che poggiato quasi su un elemento da nulla s’ispessisce poco a poco, alla resa di particolari sminuzzati e sparsi come impercettibili indizi, agli sguardi e alle parole accennate che sottintendono emozioni e rabbie, sentimenti affaticati e ripensamenti, al quotidiano che più realistico non si potrebbe dove s’allineano azioni e contro azioni, correzioni ad un destino non mai scritto in modo definitivo.

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È un approfondire, un calarsi con sguardo sempre preciso e attento, un mezzo per nascondere dietro lo sguardo spoglio della macchina da presa che s’aggira per le stanze una realtà che si fa presto allegoria, portatrice del non detto ma del suggerito. Perché nelle scene iniziali del “Cliente” si va al di là, in una visione in trasparenza dell’oggi iraniano, dell’improvvisa fuga dei coniugi Emad e Rana e dei loro vicini d’appartamento da un palazzo che rischia di crollare e mostra attimo dopo attimo crepe troppo pericolose, mentre gli artigli di una rossa ruspa ripresa dall’alto sembrano sgretolarne le fondamenta. Lui è un insegnante, apertissimo con i propri allievi, ed è pure un attore che, come Willy Loman, con la moglie, come Linda, sta mettendo in scena una versione del dramma di Arthur Miller “Morte di un commesso viaggiatore”, dramma di sogni e di disfacimenti morali e familiari, in un quotidiano provare e vivere tra luci posizionate, ambienti scenografici, costumi, trucchi, parrucche, binario parallelo che a tratti si sovrappone alla vita vera. Che viene mortificata e squassata dall’aggressione che Rana subisce una sera, rientrando sola da una replica, nel provvisorio alloggio in cui la coppia è andata ad abitare, alloggio già affittato da una donna dall’esistenza non proprio cristallina. Farhadi prende esemplarmente la via del giallo, dei piccoli oggetti dimenticati che possono ricostruire un puzzle, dell’indagine, dell’analisi al microscopio di quanto quel fatto abbia prodotto nella vita e nell’animo della coppia: lei ne esce duramente colpita non soltanto nel corpo ma soprattutto nello spirito, poi quietamente rappacificata, pronta a superare lo shock, lui pronto a suggerire per un attimo di buttarsi tutto quanto alle spalle ma poi con il desiderio di una vendetta, sino a sfiorare i tratti dell’aguzzino, che colpisca chi ha ridotto sua moglie in quello stato.

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Allo spettatore che vedrà il film la lenta, devastante scoperta di quel volto preciso; che potrebbe anche passare in secondo piano se messa di fronte agli attimi finali, bellissimi, quando, mentre iniziano a scorrere i titoli di coda, i due personaggi/attori in sala trucco s’impossessano di espressioni che la dicono lunga sul loro domani, o ce lo lasciano immaginare secondo il nostro sguardo, la nostra “simpatia”, mentre ogni cosa rimane impalpabilmente sospesa, inarrivabile. All’ultima immagine ci si arriva con una concreta tensione, senza un cedimento, senza un’immagine eccessiva, sempre catturati dall’aspetto claustrofobico, soffocante che dall’inizio alla fine circola nella storia, senza che né l’uno né l’altro degli attori abbia sovraccaricato il proprio modo d’agire, di pensare, di offrirci la propria verità, tra pubblico e privato, tra realtà e finzione, tra il positivo e il negativo di ogni sentimento.

 

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