Lady Macbeth efficace opera prima, qualche debolezza e la limpidezza di stile di Clint Eastwood

Le prime opere in concorso

Per chi scrive il Torino Film Festival numero 34 inizia con le immaginiassolutamente da rivedere: non soltanto per Salvatores che le ha inserite tra quelle dei film che gli hanno cambiato la vita, che gli hanno fatto virare il timone dalla professione d’avvocato a quella di regista – di Blow up, con le certezze inconfutabili e tangibili del fotografo David Hammings che se le ritroverà pirandellianamente distrutte tra le mani, ad inseguire in una surreale partita a tennis una inesistente pallina che scivola tra il verde di un parco della Swinging London della metà degli anni Sessanta.

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Poi si entra nel vivo. Con un’opera seconda del regista Rafael Palacio Illingworth, Beetwen us, targato Usa, realizzato a basso costo, rientrante a pieno diritto nelle scelte festivaliere che amano andare alla scoperta di cinematografie appartate, timide, colte nella scommessa dell’esperimento. E’ la storia di due trentenni, fotografati nella crisi inattesa che li coglie all’indomani di una promessa di matrimonio che dovrebbe durare tutta la vita: al contrario scivolano nella vita di ogni giorno i dubbi, soprattutto da parte di lui artista eccentrico, e lo sfaldamento di quelle certezze che in un passato recente si sono coccolate e che si vorrebbero veder crescere. Un tema attuale, tremendamente di oggi, che però il regista non riesce a trattare con mano ferma, scavando con più grinta nei suoi personaggi, non approfondisce, non irrobustisce slegandolo dall’esempio unico per renderlo davvero più coinvolgente. Ai romanticismi improvvisi, alla passione di una notte, alla diversa scelta di lei e all’annientamento di lui – siamo ancora alle prese con una coppia del nostro tempo -, punto centrale di Porto (produzione Usa/Francia/Portogallo/Polonia) del documentarista Gabe Klinger, qui alla sua portoprima prova narrativa, tra spostamenti temporali che cancellano non poco la chiarezza della vicenda, delle sensazioni, degli stati d’animo, con la fragilità di un’azione che alla fine si rivela decisamente inconcludente, si contrappone la durezza del cileno Jesus di Fernando Guzzoni. La storia di un ragazzo, della sua passione per la street dance, dei rapporti tempestosi con il padre, con cui trattare soltanto del maggior ordine nella casa o di una scuola a cui iscriversi, del suo perdersi nell’alcol e nella droga, un ritratto che non risparmia nulla, in cui i rapporti familiari sono pressoché zero con la conseguenza dell’idea che il branco sia l’unica soluzione, che la ragazzina di turno sia prontamente disponibile per un imperativo sessuale, che la stessa cosa possa succedere con l’amico cui si è più legati, in un rapporto omo di irruente immediatezza, senza ripensamenti. In quel perdersi capita che, nel panorama notturno di un parco abbandonato, Jesus e i suoi amici, ubriachi, irresponsabili, pestino a morte un altro ragazzo. La paura che sempre più s’impadronisce del ragazzo, mentre dal branco arrivano avvertimenti e minacce, fa sì che padre e figlio si sentano più vicini, che la richiesta d’aiuto venga ascoltata. Ma sino a quando? Preferirà forse il padre, vittima della propria durezza e disillusione, trovare una soluzione “migliore” per la rieducazione del figlio? A tratti davvero inconcepibile la forza con cui Guzzoni tratteggia e segue i suoi protagonisti, giovani e no, la rabbia e il vuoto che esiste in tutti, li fotografa sino all’annientamento di ogni regola, di ogni prospettiva per il futuro.sully-2

Sino a qui coinvolgimento a tratti, come piena responsabilità, come capacità di narrazione, come tecnica a tratti sbiadita. Invece quando ti trovi davanti alle immagini di Sully di Clint Eastwood ti pare di entrare in un altro mondo. Il salvataggio, la tragedia non consumata, di 155 passeggeri imbarcati sul volo 1549, partito dall’aeroporto La Guardia di New York e diretto a Charlotte in Carolina del Nord il 15 gennaio 2009, costretto a causa di uno stormo d’uccelli che colpirono entrambi i motori mettendoli fuori uso ad ammarare nel bel bel mezzo dell’Hudson, è narrato nella bellezza di ogni inquadratura con spirito forte, con sentimenti autentici, con padronanza e limpidezza di stile, con fedeltà della cronaca, facendo primeggiare quell’eroismo e quella solidarietà in cui Clint crede, senza dimenticare che nell’incubo americano la tragedia delle Torri Gemelle è ancora ben presente. E, nella tensione che non abbandona mai un istante lo schermo anche se sappiamo tutti che ci sarà un auspicato happy end, dando un risalto veritiero, umano, coraggioso al comandante Chesley Sullenberger, che ha i tratti di un Tom Hanks incanutito (come poche altre volte così semplicemente grandioso), artefice primo della riuscita dell’impresa a fianco del copilota Jeff Skiles.

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Ancora da ricordare, in concorso, Lady Macbeth dell’esordiente inglese William Oldroyd, non tanto shakespeariana, quanto di radici russe, trasportato tra il vento e la brughiera del nord della Gran Bretagna dalle pagine di Lady Macbeth del distretto di Mcensk dello scrittore russo Nikolai Leskov (1865) anche care a Shostakovich. Una ragazza ingabbiata in un matrimonio d’interesse, un marito che non la desidera, un suocero che le ricorda i suoi doveri coniugali e la ricerca di un erede. La partenza dei due uomini per affari urgenti fuori città, l’arrivo di un giovane stalliere e il divampare di una nuova passione, un’esistenza senza più freni, condurranno Katherine ad un calcolo, ad un arrivismo, alla consapevolezza di una “libertà” errata, ad una menzogna che la faranno scivolare in una solitudine ai limiti della pazzia. Con al centro un’eroina del tutto negativa, che guarda a Bovary o a Chatterly, interpretata dalla diciannovenne Florence Plugh che negli anni prossimi dovremo tenere ben d’occhio, tesa, calcolatrice, ma altrettanto sincera, innamorata e dolce nel suo rifiuto a ogni legge prestabilita, questa Lady Macbeth è un’opera decisamente matura, nell’essenzialità della struttura narrativa, nella rappresentazione dei personaggi minori (la domestica Anna, uno per tutti), nell’uso dei costumi e degli ambienti, in quello sapiente delle luci come si stesse di volta in volta fissando l’immagine su una tela. Arriverà sui nostri schermi la primavera prossima e avremo occasione di riparlarne, da non perdere.

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Invece da dimenticare tutto e subito Sadie di Craig Goodwill, inutile, arrogante, vuoto, sfrenatezza torinese di una scrittrice divisa tra vecchie e nuove passioni. L’unico merito è inanellare in mezzo alla noia vedute cittadine e no (il foyer del Regio e il Circolo dei Lettori, il Castello di Masino e la Sagra di San Michele, la villa della Regina e la Reggia di Venaria), legate tra loro in modo arruffato, ben maggiore quello di aver riversato un milione di euro di ricaduta economica sul territorio. Con buona pace della qualità.

Elio Rabbione

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