Sulla fiancata, spiccava – scritto con la vernice rossa – il nome : “Stella della Castagnola”. Su quella barca ci viveva alcuni mesi l’anno, giorno e notte, buttando le reti dove le correnti lo consentivano e dove il pescato poteva soddisfare almeno i bisogni primari, una volta venduto al mercato ed alle pescherie. “Non ci si arricchisce,caro mio, cùn al pèss dal lag. Ma almeno, puoi star sicuro, si resta liberi. Con il vento in faccia e le stelle sopra la testa. E la libertà non ha prezzo”
Un fremito. Leggero, quasi impercettibile. Se la vista non lo ingannava, il galleggiante si era mosso. D’altronde, il lago era fermo come una macchia d’olio. Non c’era nemmeno la solita brezza che, a quell’ora del mattino, scendendo dai contrafforti del Mottarone ,increspava lievemente la superficie. L’acqua era immobile e il galleggiante – ne era certo – aveva sussultato. Un breve tremolio. Una volta. Due volte… Mario “Alborella” strinse più forte, con entrambe le mani, la canna. Gli occhi guardavano fissi la lenza e il galleggiante di sughero. Era sicurissimo che quel tappo tondo, colorato di bianco e di rosso, con quel tremolio appena percettibile stava “segnando”. Sulla sua fronte, tra le rughe, si incanalavano goccioline di sudore. Era teso come un archetto, pronto a dare il colpo appena la preda abboccava. Un colpo secco per prenderla all’amo e poi, finalmente, avrebbe chiuso i conti con quella trota di lago che lo faceva ammattire. Era un sacco di tempo che tra i due era aperta la sfida. E, fino ad allora, il risultato era sempre stato lo stesso: la trota gli fregava l’esca e lui restava lì con un palmo di naso, beffato. “Forse, stavolta la frego io”, diceva tra se. Ed ecco che, all’improvviso, il galleggiante sparì di botto sotto il pelo dell’acqua. All’istante Mario “frustò” la canna con uno strappo secco. Ma la sentì leggera , leggera e vide luccicare al sole – con un beffardo bagliore argentato – l’amo pulito, senza esca e – soprattutto – senza trota. “Maledetta bestiaccia”, imprecò Mario “Alborella”, agitando il pugno impotente verso il lago, come se la trota lo stesse a guardare , sogghignando. “ Anche stavolta mi ha fregato il verme e mi ha fatto fare la figura del pirla. Ma un giorno o l’altro la piglio e poi, com’è vero che c’è un Dio, la metto giù in carpione”. Così, ciondolando sulle gambe malferme, con il cestino dove aveva riposto due dozzine di alborelle lunghe più o meno un dito, frutto della pesca di un paio d’ore, se ne andò verso casa. Quei pescetti erano l’unica specie che riusciva a pescare e che gli era valsa il soprannome che portava. Mentre quella trota di lago, furba e scaltra, era la sua ossessione. Tutti i giorni provava a farle fare il salto dal lago alla padella e tutti i giorni quella si prendeva la soddisfazione di far fare a lui la figura del pesce, soffiandogli l’esca dall’amo dopo avergli dato l’impressione della cattura. Mario “Alborella” era così. Pescatore da terra e da canna, non amava salire in barca nonostante fosse nato sull’isola dei Pescatori. E da quand’era in pensione, dopo aver fatto il giardiniere dei Borromeo, aveva ingaggiato quella sfida quotidiana dall’esito ormai scontato. Altra storia era quella di Giorgio Merati, detto “ Giorgio dell’Inverna” perché sentiva i venti e in quelli leggeva il tempo. Già da piccolo, suo padre l’aveva avviato alla pesca. Com’era accaduto a lui – che aveva appreso abitudini e tradizioni da suo padre – aveva trasmesso al figlio, fin dall’età di 5 anni, i primi segreti della pesca sul lago. Gli aveva parlato delle correnti e dei venti, delle reti e di come andavano calate. Ma soprattutto di quando e dove si poteva fare una buona pesca. “Ci vuole rispetto per il lago e per le creature che ci vivono”, gli diceva sempre.”Noi peschiamo, certo. E questo ci dà da vivere ma mai abbiamo esagerato. Bisogna sapersi accontentare, perché ogni cosa deve rispettare gli equilibri”.Ancora oggi, nelle notti più chiare, quando si vedevano nitide le sponde da una parte e dall’altra del lago, gettava la sua rete al largo, nel golfo Borromeo. Era di Baveno ma avrebbe voluto vivere a Pallanza. “ E’ la regina del lago. Dal portamento così signorile che lascia senza fiato e , al tempo stesso,così schietta e sincera da sembrare una donna del popolo”. Sì, gli piaceva Pallanza ma dopotutto amava guardarla dal lago più che da riva. Da quand’era nato aveva le spalle coperte dall’ombra lunga del Mottarone e lo sguardo che incrociava il tondo e rassicurante profilo del Monte Rosso , che scendeva su Suna per bagnarsi i piedi nel lago. L’isola Madre l’aveva ospitato tante volte che neppure più teneva il conto. E l’isola Pescatori era un po’ la sua seconda casa. Lì, sulla lingua di terra che andava dal Verbano, il bell’albergo rossiccio che guardava in faccia la patrizia dimora sull’isola Bella, al “codino” che puntava dritto il suo naso curioso in direzione di Feriolo e Fondotoce, c’era quel lembo di terra che qualcuno, in passato, chiamava – non si sapeva bene il perché – la “Repubblica dei Pescatori”. Quante notti aveva passato, tutte intere fino all’alba, solcando lentamente il dolce movimento delle onde, sotto il cielo scuro che veniva bucato dalle piccole stelle lucenti o rischiarato dalla luna che faceva correre le ombre sull’acqua. E le barche le “spezzavano”, con la loro scia lenta mentre si muovevano a colpi di remo verso il largo. “Se hai un cuore e una camicia, vendi la camicia e visita i dintorni del Lago Maggiore” , scriveva Stendhal. E come dar torto a lui ed a quei viaggiatori colti che, fin dall’Ottocento avevano scoperto il lago Maggiore e – con le loro descrizioni – contribuirono a fare del Verbano la meta privilegiata di un turismo europeo d’élite affascinato dall’ambiente lacustre nel quale, come delle perle rare, facevano bella mostra di se le isole Borromee. Certo, le isole Borromee erano dei gioielli. Tre belle pietre preziose che arricchivano il diadema del lago. E se l’isola Madre e l’isola Bella spiccavano per grazia, signorilità, la terza era un po’ quella scapigliata, più ribelle. Un po’ come lo spirito, avventuroso, di chi ci abitava. Sì, perché l’isola dei pescatori, conosciuta anche come Isola Superiore, era l’unica isola di quel piccolo arcipelago ad essere stabilmente abitata. Quei suoi 350 metri di lunghezza per 100 di larghezza ospitavano un piccolo centro abitato, dalle caratteristiche case a più piani (con lunghi balconi per essiccare il pesce), con la piazzetta, i caratteristici vicoli stretti, molto simili ai “carruggi” o alle “mulattiere di mare” liguri. E poi il lungolago e la via principale , dove le poche decine di abitanti – da sempre – potevano permettersi gli spostamenti ,ovviamente e rigorosamente a piedi, da un capo all’altro dell’isola. Quella era la sua “casa” e , senza ombra di dubbio, la conosceva come le sue tasche. E così anche per i paesi della costa più vicini. Praticava quasi ad occhi chiusi il suo braccio di lago per averlo navigato un infinità di volte, dall’alba al tramonto ed anche di notte. Ma l’insieme del Verbano, la terra dov’era nato e dove viveva, aveva imparato a scoprirlo soprattutto grazie ai libri. A scuola e soprattutto fuori dalla scuola, sfogliando avidamente i testi che trovava nella piccola biblioteca della parrocchia. C’era poi un testo di geografia molto dettagliato sul lago che, quasi quasi, era in grado di ricordarsene interi capitoli a memoria. “ Il Lago Maggiore si trova ad un’altezza di circa 193 m s.l.m., la sua superficie è di 212 km2 di cui circa l’80% è situata in territorio italiano e il rimanente 20% in territorio svizzero. Ha un perimetro di 170 km, è lungo 54 km, la larghezza massima è di 10 km e quella media di 3,9 km. Il volume d’acqua contenuto è pari a 37,5 miliardi di m
o, cresce di livello”. Poi, preso ancora fiato, raccontò della “buzzasca”, aria che portava la neve; della “vachera” che, scendendo dalle pendici del Mottarone, annusandola, portava con se l’odore delle mucche al pascolo. Il “muscendrin”, originato dal Monte Ceneri ( “tùta roba svizzera”) muoveva l’aria fredda ma secca. Puliva il cielo e portava il sereno. “Vedi, ragazzo mio. Come ti avrà già detto tuo padre, il vento può far bene o far male alla pesca. Quando soffia quello da nord, in primavera, l’è una disgrazia. Raffredda l’acqua e i pesce va più in profondità e chi s’è visto s’è visto..non lo peschi più. Mentre invece quando soffia il marenco si va sul liscio con coregoni e bondelle perché l’acqua sale, entra quella dei fiumi e l’acqua dal lagh la sa fa turbula, e nel torbido si pesca che è un piacere”. Ma ormai si era fatto tardi ed era ora d’andare a dormire. E se era vero che “chi dorme non piglia pesci”, quella sera – calate le ombre sul lago dove il “maggiore” spazzava le onde – non era sera d’andare in barca a pescare. Marino Balossi era anche lui pescatore. Ma veniva dall’altra “sponda”.Nel senso che era di Pallanza, cioè della parte più ad est del golfo Borromeo. Dopo un bel po’ di anni da operaio in fabbrica, alla Rhodiatoce, si era licenziato e con la liquidazione aveva comprato un burchiello da lago lungo nove metri. Una bella barca da pesca, con poppa e prua praticamente identiche ed il fondo piatto. I “risciunà”, gli arcioni tondi sui quali andava infilata la tela che riparava dalla pioggia, erano – come di regola – montati a poppa. E, sulla fiancata, spiccava – scritto con la vernice rossa – il nome : “Stella della Castagnola”. Su quella barca ci viveva alcuni mesi l’anno, giorno e notte, buttando le reti dove le correnti lo consentivano e dove il pescato poteva soddisfare almeno i bisogni primari, una volta venduto al mercato ed alle pescherie. “Non ci si arricchisce,caro mio, cùn al pèss dal lag. Ma almeno, puoi star sicuro, si resta liberi. Con il vento in faccia e le stelle sopra la testa. E la libertà non ha prezzo”, diceva sempre Marino a chi gli chiedeva qualcosa sulla pesca. Il Balossi ( “prego..il sciur Balossi”, come diceva a quei milanesi un po’ bauscia che avevano un po’ di grana in sacchetta e pensavano con quella di poter comprare tutto ) era conosciuto anche col soprannome di “Ribelle” un po’ perché aveva fatto in tempo a fare il partigiano su in Val Grande, con i garibaldini della “Redi”, un po’ perché non si tirava mai indietro quando c’era da far valere i diritti dei pescatori e, più in generale, di quelli che avevano sempre avuto di meno. Come quella volta che aveva issato una bandiera rossa sull’albero più alto dell’isolino che divideva l’Isola Bella da quella Superiore. C’era calma di vento, quella sera. Ma le acque del golfo, tra Carciano e l’Isola Bella, era comunque agitate. In tutti i sensi. Il matrimonio di una delle ultime principessine Borromeo con un rampollo di una casata di capitani d’industria era l’evento del momento. Un via vai di motoscafi a far da spola tra l’isola e la terraferma, accompagnati dal fastidioso rumore degli elicotteri che volteggiavano a bassa quota, creava disagi per chi – sul lago e dal lago – traeva di che campare. I pescatori, infatti, piuttosto indifferenti all’appuntamento mondano, stavano il più possibile alla larga. Tutto quel can can aveva scombinato l’esistenza, tranquilla e poco incline alla frenesia, di chi viveva sul lago. Nonostante i turisti che frequentavano i paesi da Arona fino a Cannobio – passandoli tutti in rassegna,quasi sgranando un rosario di nomi, d’alberghi e di ritrovi: Meina, Lesa, Belgirate, Stresa, Baveno, Feriolo, Fondotoce, Suna,Pallanza, Intra, Ghiffa, Oggebbio e Cannero – , la vita per chi era del posto, soprattutto per gli isolani affidata ad un rassicurante “tran tran”.Per questo, per protesta, lui aveva piazzato lì quello straccetto vermiglio, in mezzo al lago. Così, per sfida, tanto per disturbare. E nonostante non sventolasse per colpa dell’aria ferma ( “Oh, santa Madonna.. gheva gnanca un bigulin d’aria “) avevano dovuto mandare due motoscafi con quattro guardie del corpo per tirarlo via. “Una cosa da poco, dai,ma pur sempre uno schiaffo di quelli che lasciano il rossore”, raccontava ridendo e tossendo, con il toscano mezzo mangiato che gli ballava all’angolo della bocca. Aveva anche una nipote, Martina, della stessa età di Filippo. Piccola, minuta, dai capelli corvini raccolti in due trecce, aveva uno sguardo sveglio,intelligente. Studiava che era un piacere ma gli piaceva anche tanto giocare purché fossero giochi avventurosi. Ed aveva le ginocchia sempre sbucciate…”Guarda qui, Giorgio, il mio “maschiaccio”. E’ bella, eh? Tutta suo nonno”, diceva orgoglioso, indicando Martina che – quando usciva in barca con lui – era addetta a metter in acqua la lenza quando bordeggiavano a tirlindana. Questa particolare pesca alla traina si effettuava sfruttando il movimento dell’ imbarcazione. Si calavano in acqua diversi cucchiaini ondulanti con infissi degli ami, pensati e costruiti apposta per questo genere di pesca. Questi – che penzolavano a profondità variabili – , richiamavano le prede , ingannandole con il loro sfarfallio. Il grosso mulinello, applicato sul bordo della barca, consentiva di svolgere la lenza, affidando alla corrente la bava che terminava, in fondo, con un bel peso di piombo di diverse decine di grammi che, a sua volta, consentiva di far rimanere ben stesi i cucchiaini. Martina si divertiva un mondo a recuperare piano il lungo filo ed , a volte, quando le prede non erano troppo grandi, riusciva a portarsele fin sotto lo scafo dove il Marino, con una mossa rapida di guadino, le tirava in secco e le liberava dall’amo. Qualche volta capitava che Giorgio e Marino, con figliolo e nipote, andavano a pesca insieme. Con un ritmo lento ,andavano per agoni con la bedina, una rete che formava una specie di sacco, di catino, per come veniva usata. Ed era una fatica del boia, manovrarla. Allora era meglio essere in due perché – se avevi fortuna e la pesca era generosa – c’era da spezzarsi la schiena a tirarla in secco, sul fondo del burchiello. Ma loro erano così, un po’ matti e un po’ all’antica. Quasi nessuno calava più in acqua la bedina perché non avevano il fisico di una volta quando, in una notte, capitava che la rete andava dentro e fuori per sei, sette volte. “ Ti ricordi,eh? Ci venivano dei muscoli così.. E, quando si tornava a riva, all’alba, la schiena non la sentivamo più dal male”, diceva il Marino. Giorgio si limitava ad annuire. Era di poche parole, piuttosto taciturno. Ma dovette fare la sua parte perché i ragazzi erano curiosi e non ci si poteva sottrarre a lungo a quel fuoco di fila di domande sulle reti, i pesci, le correnti. Ed allora, via, a raccontare delle reti volanti da calare a diverse profondità per poi recuperarle magari ad uno o due chilometri di distanza dato che, per l’appunto, “volavano” via, seguendo le traiettorie delle correnti. “Non erano fissate ed i galleggianti di sughero sulla corda superiore navigavano che era una bellezza.Poi, al lume delle lanterne, le individuavamo e, tirate in secca, rovesciavano in barca il pesce”. “E qualche volta, invece, non c’era imprigionato un bel niente e si andava via con la coda tra le gambe, ad orecchie basse, come dei cani bastonati”, aggiunse il “Ribelle”. Filippo e Martina, tutt’orecchi, si bevevano le parole dei grandi. “Prima che si usasse il nylon le reti erano fatte di canapa, seta e cotone. Erano più spesse, più grosse. E più pesanti”, spiegava Marino. Al quale faceva eco Giorgio, ormai ben disposto al dia
logo:”Non è come adesso che sono belle e robuste. Bisognava “tenerle da conto”, dedicandogli molti lavori di manutenzione. Andavano asciugate, rappezzate, tinte. Le avete viste, no?, quelle vecchie reti stese a prendere il sole sull’Isola? Erano un po’ scure perché erano state tinte. Un po’ per conservarle più a lungo e un po’ per mimetizzarle”. “Come facevano a tingerle?”, chiesero quasi all’unisono Martina e Filippo. “Di tanto in tanto venivano immerse in una grossa caldéra ( “puciate dentro”, precisò Marino ridendo ) dove bollivano nell’acqua insieme alle bucce delle castagne ed alla cenere presa dal camino. Così si irrobustivano e diventavano meno visibili”. “ E come non parlare, poi, delle reti da fondo..“ Quelle le lasciavi lì un bel po’ in acqua. Anche 48 ore. E andavano giù perché avevano dei sassi legati di sotto che le fermavano”. E il tremaglio? Quei ragazzini erano tremendi. Mitragliavano i due pescatori con raffiche di domande e stavano lì, vispi, in attesa delle risposte. “Il tremaglio lo usiamo ancora oggi per il pesce persico, vero Marino?”, disse Giorgio passando la questione al “palanzott”. “ Già, caro il mio socio. E’ una rete a tre maglie che, messa in acqua, resta bella tesa e dritta. Le maglie sono più larghe all’esterno e più strette all’interno, così che il persico resta dentro, impigliato”. “Quelli della sponda “magra”, invece – aggiunge Giorgio – erano molto bravi con i “legné”, con le legnaie. Facevano su delle belle fascine di robinia che, legate, venivano immerse in acqua lungo la riva. I persici ci deponevano le uova e si riproducevano.Poi, quando tornavano lì ed erano di “misura”, cioè oltre i 18 centimetri..zac! Li catturavi senza fatica. Oggi, invece, per l’inquinamento che di là è un bel problema, visto che i depuratori non sono in marcia, le legnaie sono andate quasi tutte a ramengo. E l’è un vero peccato”. Tra una domanda e l’altra, la notte era scesa sul lago. Sulle sponde si vedevano le luci dei lampioni. Una lunga fila gialla tra Suna a Pallanza, interrotta solo dalla massa scura della Castagnola, il “colle più alto” di Verbania, al largo del quale il lago era ben profondo. Più chiare, quasi bianche, le luci invece tra Feriolo, Baveno e Stresa, dove – negli alberghi – si faceva festa. Cullati dallo sciabordio delle onde sulle fiancate dell’imbarcazione, coperti con un plaid a quadrettoni e sdraiati sul fondo piatto su di un piccolo materasso, i due ragazzini si erano addormentati. E chissà che cosa sognavano..Un giorno, gettarono le reti a poche centinaia di metri dal “codino” dell’Isola, tanto per vedere “ se si riesce a tirar in barca qualcosa” per far cena e, se andava bene, per vendere una cassetta o due di bondelle per il Carlin “Spina”, il pescivendolo di Carciano che pagava bene il pescato. “Ah, al nostar Carlin! Quello sì che non ha il braccino corto”, diceva il Marino, masticando il toscano spento. “Non fa storie sul prezzo perché sa bene che il pesce fresco si piazza bene alle mense delle ville di quei signoroni di Milano che vengon qua a rifarsi i polmoni con l’aria buona”. Parlavano del più e del meno quando, ormai vicini al vespro, col sole in calo, decisero di tirare in secco le reti. Filippo e Martina, usciti anche loro in barca, si diedero da fare per dar manforte al recupero. In breve le reti, sgocciolando, finirono sul fondo dei due burchielli insieme a due dozzine di bondelle, tre o quattro coregoni e un luccioperca che – ad occhio e croce – poteva pesare sì e no un paio di chili. Ma, insieme al pesce, nella rete era finito anche una specie di cilindro verdastro. Forse, dato che il fondale vicino all’isola non era propriamente un abisso, la rete aveva “raspato sù” quell’affare lì. I ragazzi lo guardavano curiosi e morivano dalla voglia di scoprire cosa fosse. “Altolà,voi. Lontani e fermi”, intimò Marino. “Non si sa mai che possa essere qualcosa che può anche far male. Nel lago ci è finito di tutto e, soprattutto dopo la guerra, con le reti abbiamo tirato in secca un sacco di porcherie, compreso delle bombe inesplose. State un poi lontani, che ci guardiamo noi”, disse, sospettoso. Non pareva però un’ordigno ma una specie di tubo. Lo prese in mano e lo ripulì con uno straccio che usava per le mani quando trafficava con il motore della barca. “Caspita, Giorgio. Vardà anche tì..Luccica.Sembra d’argento”, esclamò, stupito, il vecchio Balossi. “Sì, dev’essere proprio d’argento”, commentò Giorgio dell’Inverna. “E, guarda…sembra sia avvitato. Chissà cosa c’è dentro!?”. Facendo forza con lo straccio, dopo aver cosparso la parte alta del cilindro – che pareva proprio una specie di coperchio- con lo “svitol” che usavano per sbloccare le viti arrugginite dell’argano e del mulinello della tirlindana, lo aprirono. “Guarda,guarda..c’è una specie di documento. Sembra una pergamena. Dev’essere ben vecchia.Forse è meglio lasciarla così, non aprirla e portarla all’Isola, dall’avvocato Montagnoni”, disse Giorgio. E Marino, annuì. Anche i ragazzi erano d’accordo. L’avvocato era un po’ la “memoria storica” dell’Isola. Aveva fatto gli studi di legge a Milano, all’Università Cattolica, e poi si era preso lo sfizio di una seconda laurea – in storia moderna – all’ateneo di Friburgo. Da quando si era trasferito nella casina azzurra vicino alla chiesa di San Gandolfo, che aveva ereditato da suo padre Raniero, si era dedicato ad indagare sulla storia delle isole e dei loro abitanti. Tant’è che ora veniva indicato da tutti come “l’avùcat dà la storia”. E, una volta a riva, era a lui che si sarebbero rivolti per avere il conforto di qualche notizia in più sul ritrovamento. “Mal che vada – disse il Marino, che teneva sempre “i piedi per terra”, anche se viveva gran parte del suo tempo in barca – si può sempre fare due lire con l’astuccio. Se è sul serio d’argento, ci guadagnamo più che con le bondelle”. L’avvocato Gianmario Montagnoni era intento nelle sua lettura quotidiana della “Gazzetta dello Sport”. Gran appassionato di ciclismo, lasciava volentieri i suoi amati libri di storia per analizzare attentamente le cronache sportive degli assi del pedale sulle pagine del “foglio rosa”. Del resto ,cosa poteva farci? Scapolone impenitente ( “nonostante qualche innocente infatuazione”; di se stesso, amava dire,quasi a giustificazione per il non essersi mai sposato, “non sono mai stato colpito dalla freccia di Cupido e forse anche il mio archetto aveva la corda rotta” ), oltre alle ricerche storiche ed alla buona cucina, non aveva altri vizi. La sua passione per Coppi e per i “grimpeur”, gli scalatori che s’alzavano sui pedali quando la strada iniziava a salire e lasciavano gli altri impiantati sull’asfalto o lo sterrato, con un palmo di naso, era proverbiale. Qualcuno all’Isola, bonariamente, lo aveva ribattezzato “ Pordoi”, ricordando così il suo incontenibile entusiasmo quando parlava della “cima Coppi” del Giro d’Italia. I due pescatori ed i ragazzi, dopo aver bussato alla sua porta ed ottenuto il permesso d’entrare, lo trovarono così: intento a leggere con la lente d’ingrandimento in mano, seduto vicino alla finestra sulla sua grande sedia impagliata. Dopo i saluti e una rapida descrizione degli eventi accaduti, specificando bene dove si trovavano con la barca quando il cilindro d’argento era finito nella rete da pesca, l’avvocato – leggendo avidamente il testo della pergamena, chiaramente vergato a mano e miracolosamente conservatosi grazie all’involucro che
l’aveva mantenuto in buono stato, difendendolo dall’acqua e dall’umidità – si mise a pensare. Ci furono alcuni minuti di totale silenzio. Nessuno osava fiatare. Il Montagnoni corrucciava la fronte, leggendo e rileggendo quelle poche righe. Giorgio e Marino scrutavano le sue espressioni. Martina e Filippo si guardavano intorno, incuriositi da tutti quei libri che c’erano in quella stanza. Dopo un po’, l’avvocato disse: “ Amici miei, cari ragazzi..abbiamo avuto una fortuna immensa. Questa pergamena ha una importanza straordinaria. Forse spiega un sacco di cose. Intanto, ve la leggo.Ascoltate bene. Ve la traduco già subito perché è scritta nell’italiano di fine settecento”. L’avvocato non riusciva a celare l’emozione. Le mani gli tremavano. Si schiarì la voce e, finalmente, lesse la pergamena. “ Oggigiorno, primo Messidoro 1798”…cioè, se non ricordo male, il 19 giugno.. “ rifocillati e rimessi in forze dalla generosa ospitalità dei pescatori di questa meravigliosa isola che, soccorrendoci all’indomani del 4 Fiorile ( che corrispondeva al 23 di aprile ) dopo il tragico epilogo della battaglia di Gravellona, ci nascosero nelle loro case a rischio e pericolo della loro stessa vita..”. L’avvocato fece una pausa e disse: “Qui si legge poco e male, perché l’inchiostro ha sbavato un po’, ma il senso è chiaro..Vediamo un po’..”. E riprese la lettura: “..sfidando l’ordine regio in un epoca di temperie e funesti presagi, seppero tener alta la fiaccola della libertà e dell’indomito spirito repubblicano. Noi, patrioti e combattenti, ancora in vita grazie al loro coraggio, in procinto di lasciar l’Isola per riparare verso l’Elvezia, dichiariamo questo lembo di terra, abitato da fieri e orgogliosi patrioti, l’ultimo baluardo di Libertà. Viva la Repubblica Lepontina. Viva la Repubblica dei Pescatori. Evviva le genti che voglion vivere a testa alta”. “Ci sono anche tre firme: Lazzaro Prosperi, Filiberto Orioli, Antonio Merati. Eh, caro Giorgio – esclamò l’avvocato Montagnoni – quest’ultimo forse era un tuo antenato. Ecco cos’era il “segreto” che il vecchio prete d’allora, Don Piero, affidò al lago perché nessuno “potesse ghermirlo e, per tramite suo, cagionar malevoli conseguenze ai generosi pescatori di codesta isola”. I quattro lo ascoltavano sempre più stupiti e chiesero, com’era inevitabile, di poterne capire di più. “ Sciur Avucàt, ci faccia capire anche a noi che non siamo “studiati” come lei. Cos’è questa storia? E cosa c’entrano i patrioti, il prete, la repubblica e compagnia cantando?”, sbottò il Marino, grattandosi la nuca, perplesso. “ Giusto,giusto..Scusate ma mi son fatto prendere un po’ la mano”, intervenne l’avvocato. “ Dovete sapere che, nel corso delle mie ricerche, mi sono imbattuto – consultando le carte dell’archivio della parrocchia – in una specie di memoriale che era stato scritto da Don Piero Lunelli, il parroco che per più di trent’anni officiò la messa e confesso tutti qui all’isola, tra la fine del 1700 e gli inizi del secolo successivo. Si vede che i pescatori avevano tratto in salvo alcuni patrioti scampati dalla carneficina dell’aprile 1798 e questi ultimi, per ringraziarli, avevano messo nero su bianco un attestato di stima nei loro confronti, prima di riparare in Svizzera. Ed il prete, nel dubbio che le guardie dei Savoia potessero metterci su le mani e dar vita ad una rappresaglia contro i pescatori, lo mise in questo cilindro d’argento e lo gettò nel lago”. Infatti, l’anziano studioso , si era già imbattuto in qualche indizio. Come nel caso della descrizione, fatta da Don Piero nel suo diario, dell’ involucro che conteneva alcune reliquie di San Protasio, uno dei due patroni di Baveno, che – svuotato del suo prezioso contenuto religioso – era stato adibito “ ad un compito adatto a suggellar per sempre un temibil segreto”. Eccolo qui, dunque, il “temibile segreto”: la prova di un atto di altruismo e di ribellione degli isolani nei confronti della monarchia sabauda. E si spiegava anche quel riferimento un po’ sibillino alla “prova di generosità manifestata dagli abitanti del basso lago verso la causa giacobina” di cui parlava un vecchio testo sui moti rivoluzionari nell’Ossola e nel Verbano, pubblicata un secolo dopo a Bellinzona, nel canton Ticino. Si era fatta ormai sera. Ma nessuno se la sentiva di rinviare all’indomani il racconto che era stato ormai avviato. Così, preparata alla buona una cena frugale a base di polenta e latte e una mezza dozzina di misultitt appena dissalati, i due pescatori ed i due ragazzi, ascoltarono dalla bocca dell’esperto Montagnoni, la ricostruzione di quanto accadde in quell’epoca. “Intanto, avete mai sentito parlare dell’Azari?”, chiese l’avvocato. “Come no… E’ il nome del viale che attraversa Pallanza, dalla piazza Gramsci fino su al ponte del Plusc”, rispose pronto Marino. “ Beh, sì.Insomma, più o meno. Quello che ha dato il nome al viale, come dici tu, era Giuseppe Antonio Azari, un giovane, brillante, avvocato di idee repubblicane. Aveva studiato giurisprudenza all’Università di Pavia e lì, sulle rive del Ticino, entrò in contatto con dei giacobini. Affascinato dai propositi rivoluzionari aderì alla loro causa prendendo il nome di battaglia di “Giunio Bruto”. Nel 1796, quando Napoleone alla testa delle sue armate d’oltralpe valicò il confine ed invase l’Italia, progettò di impadronirsi degli uffici del capoluogo Pallanza e proclamare la Repubblica Lepontina. Ma il tentativo insurrezionale non andò in porto. Nella notte tra il 22 ed il 23 ottobre venne arrestato a casa sua, insieme a Prospero Bertarelli ed Antonio Bianchi, gli altri capi della congiura.Stessa sorte subirono, a Fondotoce, i piccoli gruppi di rivoluzionari che erano pronti all’azione: le guardie regie li catturarono e li disarmarono. E così, amici miei, in una sola notte, la prospettiva della Repubblica Lepontina andò in fumo”. “E poi, che fine fecero lui ed i suoi amici?”, l’interruppero, ormai completamente “presi” dalla storia, Martina e Filippo. “Eh, finì male. Lo portarono subito a Novara dove venne processato con urgenza e condannato a morte mediante impiccagione. La sentenza, senza possibilità d’ appello, venne eseguita il 3 dicembre nel fossato del Castello. Il suo cadavere venne bruciato e le ceneri sparse al vento. Una lapide, posta 88 anni dopo, nel 1884, sulla sua casa a Pallanza, in “Ruga” al numero civico 45, lo ricordava così: “In questa casa nacque l’avvocato Giuseppe Antonio Azari che nel 1796 a 26 anni scontò colla vita l’onore d’avere capitanate le squadre della libertà a Fondotoce. Gloria al precursore del secolo XIX e del suo martirologio per la unità e libertà d’Italia”. “Porca l’oca”, esclamò il Marino. “E io che non sapevo nemmeno come mai il viale si chiamasse così. Questo Azari era uno che di coraggio ne aveva da vendere se a meno di trent’anni ha fatto quella fine per le sue idee”. “ Sì, Marino. Era un uomo coraggioso”, continuò l’avvocato. “ E la storia non finì lì. Se nel 1796 fallì un complotto del nostro eroe pallanzese , che intendeva sollevare la regione per farne un dipartimento autonomo, passarono meno di due anni e , nel 1798, il generale francese Léotaud sbarcò proprio a Pallanza con una schiera di giacobini armati, ed occupò Cannobbio e parte dell’Ossola. Poi a
ccadde quel accadde, alla battaglia di Gravellona, dove riuscirono a sopravvivere i tre patrioti della pergamena”. “ Signor Montagnoni, ci racconta come andò quella battaglia? Lei che ha studiato la storia lo saprà senz’altro..”, esclamarono insieme Filippo e Martina, eccitatissimi per l’evoluzione che aveva ormai preso quella vicenda. “Ma è tardi, ragazzi..”, provò a resistere, a dire il vero blandamente, l’avvocato. “ A questo punto, cara al mè avucàt, fatto trenta bisogna anche far trentuno e andare fino in fondo con questa storia, non crede?”, disse il papà di Filippo.
“E sia. Ho però bisogno di quel libro lì, Martina. Me lo puoi portare? “, disse il Montagnoni indicando un volume rilegato in cuoio nero che stava appoggiato sul piano della cassapanca vicino alla finestra. Avuto il libro tra le mani, cominciò a raccontare, aiutandosi con il testo. “ Era “ il 3 fiorile”, di domenica mattina, verso l’alba, quando – il 22 aprile 1798 – i reggimenti reali di casa Savoia, composti da dragoni, granatieri e regia marina, schierati nei pressi del borgo di S.Maurizio, lasciarono alle loro spalle Gravellona Toce e marciarono verso i rivoluzionari stanziati nei dintorni di Omavasso. Lo scontro in campo aperto avvenne verso le dieci, nella zona dei prati “primieri”, quella che oggi è conosciuta come il Campone. Il canto della “marsigliese” accompagnò l’attacco dei repubblicani. Si combatté accanitamente tra la sponda destra del Toce e i primi contrafforti della montagna, in un terreno scivoloso, fangoso, reso pesante dalle piogge dei giorni precedenti. I savoiardi erano in difficoltà. Non riuscivano ad avanzare sotto il tiro di un paio di vecchi cannoni caricati a mitraglia. Sbandavano, indietreggiando, nonostante l’assoluta superiorità numerica ed il miglior addestramento militare. Verso mezzogiorno le file dei repubblicani si irrobustirono ma non a sufficienza per reggere le folate offensive dei soldati del Re. Reso innocuo uno dei cannoni , i soldati regi iniziarono a premere contro il lato più debole dello schieramento rivoluzionario. Le sorti si capovolsero del tutto quando giunsero , in ulteriore rinforzo , le truppe regie provenienti da Arona che , sbarcando a Feriolo, arrivarono a Gravellona. Le compagnie di granatieri dei reggimenti di Savoia e della Marina presero d’infilata la compagnia di granatieri della Cisalpina che era stata messa a guardia del fiume , attaccando così alle spalle i patrioti. Gli insorti repubblicani , ormai perduti, si lasciarono alle spalle 150 morti e 400 prigionieri e si diedero alla fuga verso la Svizzera , nascondendosi ovunque fosse possibile. Molti vennero poi scovati e uccisi dai popolani fedeli al Re, soprattutto in Valle Vigezzo .Il Marchese Enrico Costa di Bearengard nelle proprie “Memorie a proposito del fallito tentativo di far insorgere l’Ossola”, descrisse così la vittoria sui repubblicani : “ La metà dei Patrioti, le loro bandiere, i cannoni sono rimasti a noi; il resto e fuggito sulle montagne,dove i contadini ne hanno fatto giustizia sommaria, d’altra parte voi sapete che,checché si faccia, il contadino ama il Re e vuole la stabilità“. La settimana dopo, tra sabato 28 e lunedì 30 aprile, gran parte dei rivoluzionari repubblicani furono fucilati a Domodossola. Ma non finì lì. Le fucilazioni continuarono più tardi,il 26 maggio, quando caddero sotto il piombo del plotone d’esecuzione anche il Comandante Leotto – vale a dire il coraggioso generale francese Giovanni Battista Léotaud – e il suo aiutante Lion. Il 29 giugno stessa sorte toccò al ventiduenne Giulio Albertazzi , a Pallanza , mentre ,all’alba dello stesso giorno, una medesima fine venne riservata ad Omegna al ventenne milanese Graziano Belloni. L’eccidio si concluse con l’esecuzione con la fucilazione , a Vogogna,dell’avvocato Filippo Grolli – uno dei principali artefici dei moti rivoluzionari – guardato a vista da ben 85 soldati regi.
“Ah, quanta amarezza, ragazzi miei, davanti a questa brutta fine “, commentò l’avvocato Montagnoni, togliendosi gli occhiali dalle lenti spesse, sfregandosi gli occhi . “ Eppure il sacrificio di tanti uomini per un ideale di maggior democrazia, non fu vano. Lo volete sapere cosa accadde solo pochi mesi dopo? La Francia ordinò,il 5 dicembre,al Generale Joubert l’attraversamento del Ticino, l’occupazione di Novara e , subito dopo, di Torino. Così, l’8 dicembre 1798 – il 18 Glaciale dell’ Anno VII, secondo il calendario rivoluzionario francese – Carlo Emanuele IV di Savoia abdicò e partì per la Sardegna , scortato dalla flotta inglese. Il territorio piemontese veniva diviso in 6 dipartimenti amministrativi. La casa Savoia , che regnava sul Piemonte e sulla Savoia dal 1418 ( la Sardegna era stata acquisita più tardi, nel 1720 ) non disponeva piu’ di territori continentali e quello che era lo stato sardo prese il nome di Repubblica Cisalpina”. Era ormai notte inoltrata. I due pescatori ed i due ragazzi si congedarono dall’avvocato, lasciando a lui la preziosa pergamena perché potesse poi consegnarla alle autorità e farla esporre in pubblico, magari in quel museo del lago e della pesca che era stato inaugurato a Verbania. L’isola era silenziosa. Le strette viuzze erano illuminate dalla luce fioca della luna che, bella piena, rischiarava il lago. Le stesse ombre sull’acqua e il fruscio della chiglia che rompeva dolcemente le onde nel tragitto verso la terraferma, accompagnavano i pensieri di Giorgio e di Marino, di Martina e di Filippo. Nessuno parlava ma non c’era bisogno. Erano stanchi e felici. La pesca, una volta tanto, non era servita a riempire di pesci luccicanti le cassette del Carlin “Spina”. Era servita a qualcosa di più importante. A qualcosa che non aveva prezzo. Bastava guardar verso l’isola, verso quella sagoma scura che si allungava sul lago, nel mezzo del golfo Borromeo. Bastava guardare verso la Repubblica dei Pescatori.
Marco Travaglini
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