Sino al 14 settembre 2025, è in corso “Una Mostra”, duplice esposizione di opere di Guglielmo Caccia, uno dei massimi manieristi secenteschi, che si svolge contemporaneamente in due sedi diverse (ma legate dallo stesso intento) il Palazzo Mazzetti di Asti attraverso la Fondazione Asti Musei in collaborazione con la Fondazione Cassa di Risparmio, e il Museo Civico di Moncalvo con A.L.E.R.A.M.O. Onlus. È disponibile un prezioso esauriente catalogo, ideato da Giancarlo Boglietti, a cura del direttore scientifico Alberto Cottino e del conservatore di Palazzo Mazzetti Andrea Rocco, con i contributi critici di Giuliana Romano Bussola e Carlo Prosperi.
Proponiamo un breve commento sull’evoluzione dell’iconografia Mariana, della collaboratrice del “Il Torinese”, Giuliana Romano Bussola.
Per celebrare i quattrocento anni dalla morte di Guglielmo Caccia, quale sede più consona del Museo civico di Moncalvo situato nell’ex Convento delle Orsoline, da lui fatto costruire per collocarvi le figlie monache ed in particolare Orsola che avviò la sua scuola di pittura.
Massimo esponente del Manierismo piemontese durante la Controriforma, il Moncalvo proseguì il movimento sorto nel 1510, ancor vivo Raffaello, che diede artisti dallo stile personalissimo sfatando il malinteso che il termine Manierismo sia da associare all’accademismo ripetitivo come mera imitazione di illustri formule precedenti..
Se altri piemontesi, come il superbo Tanzio da Varallo e il casalese Nicolò Musso, si ispirarono alla drammaticità caravaggesca, al contrario Guglielmo si nutrì piuttosto di armoniose reminiscenze raffaellesche, di delicate suggestioni fiorentine, di insegnamenti della scuola dei figli di Bernardino Lanino, guardando alle morbidezze tonali del Correggio, alle luminosità carraccesche e alle trasparenze madreperlacee di Gaudenzio Ferrari.
Fu facile per lui, di temperamento mite, pietoso e sinceramente religioso, inserirsi nei dettami dell’arte tridentina improntati alla pittura decorosa, escludendo atteggiamenti considerati immorali e nudità provocanti, propagando le sacre scritture di forte presa sulle masse popolari, senza ne venisse soffocata la libertà stilistica.
I bellissimi dipinti con madonne dai delicati colori e i tenui atteggiamenti presenti in mostra, sono conferma di come il Caccia prediligesse il culto mariano nelle varie tipologie, rifiorito dopo le ostilità della riforma protestante.
L’arte tridentina, perdurata per l’intero seicento, iniziò ad affievolirsi con l’avvento della filosofia dell’illuminismo che contribuì alla crisi dell’arte sacra per cui si passò dalla trascendenza all’immanenza.
Con il Preromanticismo iniziò l’arte moderna portando una nuova sensibilità che, priva del sostegno divino foriero di certezze e verità assolute, provocherà la cosiddetta “infelicità romantica” e la disperata solitudine di molti artisti, basti pensare a Caspar Friedrich che, nello sperduto Crocifisso invocato nel “Mattino sul Riesengebirgen” simboleggia, attraverso la poetica del Sublime, la nostalgia dell’Infinito a cui si aspira ma che mai più si potrà raggiungere.
Per tutto l’ottocento e una parte del novecento si vedono ancora madonne di stampo raffaellesco e una invasione di oleografie a basso costo ma si muovono anche importanti artisti che propongono nuove iconografie.
Spesso sono la donna amata o una figura femminile appartenente alla famiglia che danno il proprio volto alla Vergine, come Teresa moglie di Giuseppe Pellizza da Volpedo che diventa madonna laica mentre Gala, ritratta da Salvator Dalì in “Madonna di Guadalupe” mantiene un forte sentimento religioso pur in atmosfera surreale.
Paul Gauguin in “Orana Maria” ritrae la compagna Pahura in abito taytiano interpretando il bisogno di religiosità polinesiana primitiva e incontaminata.
Dante Gabriel Rossetti invece demitizza la sorella Cristina in veste di madonna mentre rannicchiata su un umile lettuccio indossando una semplice camiciola, spaventata, accoglie l’angelo annunziante.
Van Gogh si serve della sorella Willemein dandole il ruolo di Madonna dolorosa con in braccio il Cristo, dal suo stesso volto, per simboleggiare la propria sofferenza.
Sconvolgente nel 1895 la Madonna del grande simbolista Edward Munch che, rappresentandola come perversa femme fatale, seminuda e seducente ammaliatrice, tra Eros e Tanathos anticipa l’espressionismo.
Ancor più dissacrante la litografia contornata da spermatozoi per negarne la verginità; al contrario di Gaetano Previati che nella “Vergine dei gigli” la avvolge in un clima di misticismo visionario esaltandone la purezza.
Più semplici le madonne di Fernando Botero che, tra ricordi rubensiani e realtà colombiane, si diverte e ci diverte rendendole voluminose.
Il massimo della demitizzazione iconografica sarà però attuato da Andy Warool con la serigrafia di Jakee Kennedy come madonna resa icona della cultura di massa del consumismo Pop Art alla stregua delle lattine di soup Campbell e della Coca Cola.
Giuliana Romano Bussola
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