stalker selfie

Qualità o quantità?

Sarà capitato anche a voi di osservare una mostra fotografica, la produzione editoriale di uno scrittore oppure il semplice scatto postato sui social da un pinco pallino qualsiasi e pensare che a tanta quantità non corrisponde altrettanta qualità.

Prendiamo per esempio le classiche foto di compleanno, delle vacanze estive, di un viaggio o di un evento qualsiasi per mettere in mostra soltanto la voglia da parte del fotografo (o fotografa, non c’è differenza) di mostrare qualcosa di sé, della propria attività, e non anche una qualità, un impegno nel realizzare lo scatto.

Sempre più spesso assistiamo alla presenza maniacale, compulsiva, di alcune persone sui social attraverso i propri lavori, spesso di pessima qualità, eccessivi, insignificanti anziché farsi valere per la qualità dei propri lavori, anche se poco frequenti.

Quando fotografavamo con la pellicola, in un viaggio di 5 giorni mediamente si scattavano circa 150 scatti, pari a 4 rullini da 36, perché ogni scatto era studiato, aveva un significato per il fotografo, e lo dove va avere anche per i futuri osservatori dell’immagine.

Ora, nella maggior parte dei casi, quei 150 scatti vengono effettuati prima di varcare il casello di partenza dell’autostrada perché dobbiamo compulsivamente fotografare i cartelli, i semafori, il giocoliere, le auto, la prostituta che sta per staccare dal lavoro, l’autista del bus su cui viaggiamo, i vicini, quelli meno vicini e, altrettanto compulsivamente, metterli sui social dove resteranno come unica destinazione, perché più nessuno stampa le immagini, né le archivia ordinatamente su un hard disk.

A nessuno veniva in mente di fotografarsi nello specchio del bagno, rigorosamente con la tavoletta del wc alzato, mentre con la bocca a culo di gallina mostra al mondo il meglio di sé.

Forse il bisogno di affermazione spinge, soprattutto i giovani a transitare nella storia (dove resteranno davvero poco) attraverso le proprie esperienze fotografiche o video: tecnica 0, consequenzialità idem, appropriatezza dello scatto neppure.

Ma questa aberrazione è diventata la norma: se non pubblichi decine di scatti ogni giorno del tuo viaggio vieni subito interrogato da amici e conoscenti per conoscere il motivo di tale assenza dai social.

Ai miei allievi insegno che l’immagine deve esprimere qualcosa, anche nel caso di un reportage di cronaca, sportivo, di guerra o altro, che l’immagine nasce prima dello scatto, nella testa del fotografo, componendola e, magari, inserendo una cornice naturale (finestra, ramo fiorito, ringhiera) per renderla meno banale. Uno degli esercizi migliori è immaginare come verrà la foto, comporla, scattarla e guardarla: è come ti aspettavi? Bene. Altrimenti devi cambiare il tuo approccio alle scene.

Ma occorre avere voglia di creare davvero, di sviluppare una creatività che ti renda differente dagli altri, diverso ma non necessariamente più bravo o meno bravo, solo con un tuo stile personale.

Uniformarsi va bene quando si tratta di osservare le leggi, di adeguarsi alle consuetudini di una società, ma è svilente, spersonalizzante quando ripetiamo ciò che fanno gli altri, ci appiattiamo sulle abitudini altrui anziché ritagliarci uno stile nostro, creare una nostra cifra stilistica che ci faccia immediatamente emergere dalla massa.

Se il nostro desiderio è farci notare, non credete che diventando diversi dagli altri saremo più notati, più famosi, più apprezzati?

Via dalla pazza folla.

Sergio Motta

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