Sugli schermi “Lee Miller” con Kate Winslet
PIANETA CINEMA a cura di Elio Rabbione
Elizabeth “Lee” Miller fu musa e amante (di Man Ray), fu modella e fotografa di guerra, fu artista ambiziosa – una leggenda del mondo dell’editoria e della moda racconta che a bella posta si sia messa davanti a un’auto in corsa per essere salvata da Condé Montrose Nast, all’epoca l’uomo più influente di quei mondi; realtà che, nel 1929, ventiduenne, abbia visto pubblicata una sua foto a pubblicizzare degli assorbenti – e donna anticonformista e capace di farsi desiderare, una vita spericolata e avventurosa in un mondo che prevedeva soltanto uomini, e infaticabile, che la vide attraversare le stanze della sede inglese di “Vogue” (in cui s’aggirava il “nemico” Cecil Beaton) come gli scenari di combattimenti (la battaglia di Saint-Malo dopo lo sbarco in Normandia) e i campi di concentramento, a descrivere corpi scheletriti e buttati in orribili mucchi e bambine dagli occhi terrorizzati alla ricerca di una pagnotta di pane (la rabbia successiva quando quelle foto non verranno pubblicate perché ”troppo sconvolgenti”), obbligata a camuffarsi tra le file dei soldati americani le cui gerarchie la respingevano, rifiutando l’idea di una donna al fronte. Una donna dalla giovinezza non facile, la perdita della madre e la coabitazione con il padre, anch’egli fotografo che la usò giovanissima per le sue immagini di nudo, un rapporto per cui qualcuno ha avanzato anche l’idea di violenza. Una donna che aveva come amici Paul Eluard e Picasso e Jean Cocteau, la Dietrich e Colette, con i quali anche collaborò in vario modo, una donna che, arrivata nella casa di Monaco del dittatore tedesco, all’indomani della resa, si fece fotografare da Dave Sherman, collega di “Life”, nella vasca da bagno, in “quella” vasca da bagno, gli stivali usati per mesi a imbrattare di fango il piccolo tappeto e preoccupata che “le tette non si devono vedere, la censura non approverebbe”. Le nozze niente affatto tranquille con Roland Penrose, il bicchiere perennemente in mano e l’immagine di una sigaretta sempre chiusa tra le labbra, un passato che continuava a tormentarla, il sospetto di spionaggio per conto dell’Unione Sovietica, le memorie dettate al figlio Anthony (ne nascerà “The Lives of Lee Miller”), il cancro che la porta via a settant’anni.
Alcuni di questi tratti di vita racconta Ellen Kuras in “Lee Miller”, un racconto frammentato, una sequenza di immagini ed episodi, in ampi flashback, di circa due ore per riempire il volto e il corpo della donna e dell’artista. Forse il tutto si snoda con assoluta tranquillità, troppa, senza che ci siano nel racconto impennate o improvvisi battiti d’ali, tutto resta troppo raccontato, un episodio attaccato all’altro, un ricordo che segue a un ricordo, l’orrore rischia per assurdo di rimanere chiuso in quelle fotografie e di non essere trasmesso appieno a chi lo sta guardando. Si ha l’impressione di déjà vu. Si ha l’impressione – vera – che la volontà prima della Kuras sia stata “rifare” le immagini personali e costruite di Lee, fare un copia e incolla dal passato, giocare con la eccessiva “identificazione” e con una classicità di scrittura (una sceneggiatura rifinita a sei mani) e d’impostazione del progetto che avrebbero dovuto nutrire un ben altro respiro. Il film finisce con l’appassionare a balzelloni, a colpire a tratti, a far amare una donna che ha fatto dell’irruenza e della sfrontatezza la propria ragione di vita.
Irruente e decisa, aspramente testarda, come la sua fotografa, Kate Winslet – candidata ai Golden Globe -, anche in veste di coproduttrice, ha atteso quindici anni perché il progetto si consolidasse e ne fosse a capo la Kuras con cui, nella veste di fotografa, aveva già collaborato nel 2004 per “Se mi lasci ti cancello” – oggi il direttore della fotografia è Pawel Edelman, già dietro la macchina per “Il pianista” di Polanski. Tutta la rabbia, le lotte portate avanti giorno dopo giorno, le risate che precedono il conflitto e le delusioni, i ricordi e le visioni di corpi martoriati e già in putrefazione, il puzzo e l’orrore all’apertura dei vagoni dei treni, il buio degli spazi, la trasgressione delle regole, le trincee e gli scoppi, la volontà a costruire un proprio personalissimo mondo, una vita a repentaglio, le tante testimonianze, l’attrice di “Titanic” e di “Revolutionary Road” e dell’Oscar “The Reader” se li porta al contrario appresso, in maniera autenticamente viscerale, offrendo una delle sue più convincenti interpretazioni (che vale da sola il biglietto). Tutti gli altri compagni di viaggio, pur bravi, inevitabilmente, ridotti a figurine che finiscono per avere un leggerissimo spessore (Alexander Skarsgård, Marion Cotillard, Andrea Riseborough), le restano indietro. “Lee Miller” “è” lei, con la dimostrazione, se ancora ce ne fosse bisogno, d’essere una delle attrici più affascinanti del nostro tempo.
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