Orsini e Branciaroli, due “ragazzi irresistibili” e grandiosi

Sino a domenica 9 febbraio, sul palcoscenico del Carignano

Willy Clarck e Al Lewis sono stati compagni di palcoscenico per una vita intera: poi il meccanismo s’è rotto. Vita travagliata intendiamoci, ma sopportata, digerita, mandata giù a fatica con un paio di pastiglie di quell’Alka-Seltzer di cui il primo avrebbe sempre voluto accaparrarsi la pubblicità: certo per i bigliettoni verdi ma soprattutto perché quelle due paroline di Alka-Seltzer, ne è sempre stato convinto, fanno ridere. Come fanno ridere le parole con la “z”, zuzzurellone in prima linea. Si sono guardati in cagnesco più del solito, il vecchio Willy certo molto di più, e si sono salutati una volta per tutte. Willy adesso sciabatta per casa tutto il giorno, ha fatto la punta a un carattere diavolesco e irritante che più non si potrebbe, ogni mercoledì ha la visita del diligente e paziente nipote che gli porta sù scatolette di cibo e la copia di Variety, tanto per sapere chi è morto e chi è vivo del mondo di luci di Broadway. E gli procura qualche scrittura: rarissima. Vuoi che la CBS, a undici anni da quella divisione, decida di dare una bella spolverata al vecchio teatro leggero americano, il duo non può certo mancare, il buon cachet aiuterebbe ma con la ricomparsa di Al – carattere serafico ma quantomai graniticamente pistino, faticosamente evocato da quell’angolo del New Jersey dove vive con figlia e nipotini – schermaglie e mugugni e bisticci riprendono a circolare. Ricucire lo strappo è difficile, riaffiora la vecchia rivalità, i ricordi amari e i pochi e camuffati tratti di solidarietà, si fa strada con parecchi inciampi tutta la comicità che li ha uniti, imbastita oggi con un pizzico di soffusa malinconia. Nel tentativo di ridar vita a quel numero che li ha resi famosi, ricircolano le battute di un tempo, ricircolano i tic e le certezze che hanno fatto vivere e imbestialire l’arte di Willy, pensando ancora una volta che il sodalizio s’è rotto perché Al lo riempiva di sputacchi con tutta la saliva possibile nell’emettere quelle parole infarcite di “t” che lui sceglieva a bella posta, perché lo picchiettava sul petto ad ogni battuta, perché ad inizio dello sketch del dottore e dell’impiegato delle tasse, al primo “toc toc” di entrata di Al il compagno in luogo dello stabilito “avanti” sonorizzava un irritante “s’accomodi”.

Non andiamo avanti nel racconto della trama dei “Ragazzi irresistibili” che tutti conosciamo, festosa quanto crepuscolare commedia di Neil Simon del 1972, che tre anni dopo divenne film sotto il ricamo interpretativo fornito da Walter Matthau e George Burns (Oscar a quest’ultimo), storia che ricalcava la vita di una vera coppia di artisti del vaudevelle, Joe Smith e Charles Dale. Oggi, vedendola ancora una volta in palcoscenico (se non sbaglio, all’inizio dei Novanta, la proposero per ultimi Scaccia e Fiorentini), al Carignano per la stagione dello Stabile torinese sino a domenica 9 febbraio, appare forse datata, a ripercorrere momenti e battute e situazioni già visitate: ma rimane una efficace macchina di pieno divertimento, soprattutto l’impareggiabile esempio del mondo del teatro e della recitazione – il “piacere” del recitare -, l’occasione di lasciar scivolare la scena dentro la vita, la rappresentazione delle rivalità e delle debolezze, dei tramonti e della felicità (“The Sunshine Boys” è il titolo originale), dello spegnersi delle luci, dell’elenco – ormai vuoto ma ancora tutto da sogno – dei teatri in cui potrebbero ancora risuonare gli applausi. Simon, con i suoi più che trenta titoli per il palcoscenico, occasione molti per vivacissime sceneggiature, è stato un maestro della risata e di un intrecciarsi di umanità varie, anche qui si dimostra un maestro, se mai ancora ce ne fosse bisogno: catturando non soltanto la comicità ma angoli di zona d’ombra, sottilmente soffusa, grazie alla regia di egregio servizio, nell’affettuoso rispetto per la classe dei protagonisti, di Massimo Popolizio, angoli che guardano con altrettanto rispetto alle atmosfere di Checov e di Beckett.

Diceva Franco Branciaroli (nell’osservanza del dato anagrafico, classe 1947) in un’intervista tempo fa: “È più difficile far questo tipo di teatro piuttosto che gli Shakespeare brutti che ci sono in giro, là è tutto bla bla bla e vai!, qui scatta la controprova e se non fai ridere hai fallito. In più, se un autore europeo avesse considerato lo stesso argomento, il teatro e la vecchiaia e la morte, avrebbe annoiato a morte. Al contrario, il drammaturgo americano ha una qualità rara, ha ricoperto tutto di una bella crema pasticciera e li ha fatti passare divertendo”. Lui e Umberto Orsini (nell’osservanza del dato anagrafico, classe 1934) hanno affrontato repertori vari, dai classici ai contemporanei, da Euripide a Hofmannsthal a Strauß – e voi capite quanto l’elenco potrebbe continuare -, quante volte sotto lo sguardo modernissimo di Ronconi) e oggi ci entusiasmano con il divertimento. Suona una battuta dello spettacolo: “Dove c’è talento non ci può essere vecchiaia”. Al di là di ogni retorica, è il loro marchio di fabbrica, e il pubblico non fa che al termine applaudirli, mentre loro nella loro seriosa staticità sembrano due bravi soldatini che hanno “soltanto” fatto bene il loro lavoro. Non perdeteveli nelle poche repliche che restano e saprete dalla serata che cosa sia la Grandezza di un Attore.

Elio Rabbione

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