Una decisione rivoluzionaria quella assunta il 13 gennaio da Intesa San Paolo, che ha deciso di acquistare 11 bitcoin sborsando un milione di euro.
Da tempo Intesa San Paolo aveva costituito un desk all’interno della divisione Imi Cib denominato Digital asset & trading, per studiare il mercato, e ad inizio anno ha deciso che i tempi erano maturi per “saltare il fosso”.
Ricordiamo che il bitcoin è nato da un’idea del fantomatico Satoshi Nakamoto che ha lanciato la sua creatura come” moneta digitale”. Lo stesso nome prescelto per individuarlo lo esprime chiaramente: un bit in informatica è l’unità standard di misura della quantità di informazione, e deriva dal mix dei termini “binary” (binario) e “digit” (cifra), mentre coin significa “moneta”.
In realtà come moneta non ha mai avuto spazi significativi: dopo il primo leggendario acquisto di due pizze a Miami pagate 10 bitcoin (oggi un milione di dollari!) non ci sono mai state consistenti operazioni di compravendite utilizzando valute digitali.
In Italia, ad esempio, sono censiti poco più di 1.000 esercizi commerciali che accettano bitcoin in pagamento di merci o servizi; ed alcuni di questi, interpellati per avere dettagli, hanno candidamente ammesso di non aver mai venduto nulla ricevendo criptovalute…
Però queste entità, diventate ormai numerose (sono ormai quasi 10.000) hanno avuto un’enorme diffusione quando hanno mutato pelle, trasformandosi (grazie ad efficaci azioni di comunicazione organizzata dai player) in “riserva di valore”, cioè in una forma di investimento.
Basti pensare che il bitcoin è reclamizzato abbinandolo ad una moneta d’oro (oro, sinonimo di valore eterno, riconoscibile ed accettato ovunque nel mondo) sulla quale campeggia una B con due trattini verticali che scimmiotta il simbolo del dollaro USA (una S con due trattini verticali). Altrettanto avviene con Ethereum, Dogecoin, Polkadot… monete fisiche scintillanti, altro che impalpabili entità vaganti del cloud, per rimuovere resistenze psicologiche verso la novità dando loro un’apparente concretezza.
Ciò premesso, riprendiamo la posizione delle autorità che controllano e regolano i mercati monetarie, che non apprezzano uno strumento finanziario che pretende di essere una moneta svincolata dai controlli pubblici a tutela dei risparmiatori.
Da alcuni anni le autorità monetarie dei principali paesi hanno cominciato a studiare il problema di cosa fare per evitare le conseguenze dell’anarchia monetaria.
In Italia il 28 aprile 2021 le due massime autorità di vigilanza e controllo italiane, Consob (responsabile della regolarità dei mercati finanziari) e Banca d’Italia (responsabile del sistema bancario) hanno ritenuto opportuno lanciare un avvertimento al pubblico, con la diffusione di un comunicato stampa congiunto (primo in assoluto, segno significativo dell’importanza annessa al tema), dal titolo chiarissimo: Consob e Banca d’Italia mettono in guardia contro i rischi insiti nelle cripto-attività.
Si legge fra l’altro che: “L’operatività in cripto-attività presenta rischi di diversa natura, tra cui: la scarsa disponibilità di informazioni in merito alle modalità di determinazione dei prezzi; la volatilità delle quotazioni; la complessità delle tecnologie sottostanti; l’assenza di tutele legali e contrattuali, di obblighi informativi da parte degli operatori e di specifiche forme di supervisione su tali operatori nonché di regole a salvaguardia delle somme impiegate. Si segnala, altresì, il rischio di perdite a causa di malfunzionamenti, attacchi informatici o smarrimento delle credenziali di accesso ai portafogli elettronici.
Ritengo inoltre opportuno citare quanto affermato dal Governatore della banca centrale italiana Fabio Panetta in occasione dell’assemblea del 2024 dell’ABI (Associazione Bancaria Italiana).
In quell’occasione Panetta aveva definito le criptovalute “prive di valore intrinseco”, aggiungendo che “sono create mediante scritture informatiche e non vi è alcun soggetto né alcuna attività reale o finanziaria che ne assicuri il valore”. E ancora. “Sono talvolta scambiate su circuiti informali e opachi, su piattaforme non sottoposte ad adeguati controlli. Coloro che le detengono hanno l’obiettivo principale di rivenderle a prezzi maggiori, in alcuni casi quello di eludere le norme fiscali, di lotta al riciclaggio di denaro e al finanziamento del terrorismo”. Ed ha concluso affermando che: “In genere, queste cripto attività rappresentano di fatto una scommessa speculativa ad alto rischio il cui valore è svincolato da fondamentali. Per questi motivi il loro valore registra fortissime oscillazioni. Come è evidente, esse non hanno le caratteristiche per svolgere le tre funzioni proprie della moneta: pagamento, riserva di valore e unità di conto”.
Parole pesanti come pietre, inequivocabili, eppure…
Eppure Intesa San Paolo ha destinato un milione di euro per comprare 11 bitcoin.
In un comunicato la banca (evidentemente conscia delle reazioni dell’opinione pubblica) ha messo le mani avanti precisando che non si tratta di un primo passo per offrire criptovalute ai clienti, né di entrare come operatore attivo sul mercato, ma di un “esperimento” e di un “adeguamento a quanto altre banche internazionali hanno già fatto”.
Precisazioni che al momento tranquillizzano correntisti e clienti della banca che non potranno essere stimolati ad operare su questi mercati estremamente speculativi.
L’auspicio è che, dopo anni di discussioni, moniti, avvertimenti, si possa giungere ad una definitiva regolamentazione di bitcoin e simili, giungendo ad una posizione netta e chiara: se le autorità monetarie le accetteranno, via libera per tutti, altrimenti occorrerebbe bloccare alla fonte ogni possibilità di “contaminazione” tra mercati ufficiali e regolamentati e mercati privati dalla dubbia consistenza.
Gianluigi De Marchi
- Giornalista e scrittore finanziario demarketing2008@libero.it