La famiglia di Bovell costruita su una falsa felicità

Inaugurata al Carignano la stagione dello Stabile torinese

Prima o poi, si finisce sempre a quell’inizio folgorante, non soltanto per ricordi scolastici o per la scoperta di una lettura, sempre lì, a quel “Tutte le famiglie felici sono uguali, ogni famiglia infelice è infelice a modo suo” di Tolstoj, ad aprire la storia della sua Anna. La famiglia eterna sempre a proteggere e a scardinare, a ordinare e a confondere. Tra la commedia e il dramma. L’australiano Andrew Bovell, classe 1962, sceneggiatore di successo – “Ballroom” diretto da Baz Luhrmann nel ’92, “Lantana” diretto da Ray Lawrence nel 2001 -, premiatissimo autore con “When the Rain Stops Falling”, visto anche qui da noi un paio di anni fa, “una saga familiare lunga ottant’anni, che si snoda tra colpe taciute, tentativi di redenzione e condanne”, coglie una nuova occasione per addentrarsi dentro la foresta intricata di uno di quei nuclei, disperati e di tanto in tanto con la risata acida a fior di pelle, con “Cose che so essere vere”, messo in scena (e cointerpretato) da Valerio Binasco per la stagione dello Stabile torinese (repliche sino al 27 ottobre, al Carignano). Uno Stabile che, guardando a un suo passato recentissimo, sembra aver fatto suo il tema della famiglia, dovendo ancora a Binasco le scelte del Nobel Jon Fosse e della sua “Ragazza sul divano” e del Pirandello dei “Sei personaggi”, a Filippo Dini quella di ”Casa di bambola” e il successo di “Agosto a Osage County” dell’americano Tracy Letts, senza scordare che Leonardo Lidi proporrà per intero a novembre prossimo la trilogia cecoviana che in quell’ampio sguardo ci naviga.

Cose” (quali? quelle le più normali che ti succedono intorno, giorno dopo giorno, la vita nella sua normalità) è il ritorno a casa della giovanissima Rosie da un viaggio in Europa, nella liberissima Berlino, che le ha dato più gioie che dolori, solitudine e girovagare senza meta zaino in spalla, non ultimo un bellone spagnolo che l’ha piantata in asso, all’improvviso, dopo tre giorni di sesso e di promesse. È il ritorno nel cuore di una casa e di una famiglia, la madre Fran e il padre Bob, la sorella Pip e i due fratelli Ben e Mark, quest’ultimo il suo punto di riferimento, la voce maschile a cui tutto confidare. Gioie, sorrisi, abbracci: poi ogni cosa sembra sgretolarsi, rabbuiarsi, congelarsi, con il trascorrere lento delle stagioni. Come in una complessa partitura, come in ogni via crucis dove si snodano le tante stazioni, ognuno di essi – ogni strumento – ha il proprio spazio, il proprio monologo chiarificatore che lo confronta con il publico, il proprio momento di dolore, la propria occasione di chiedere aiuto in quell’interno che, al riparo di una pretesa, sbandierata felicità (felice, “eccola la parolina magica” urla mamma Fran nello stravolgersi a valanga degli avvenimenti), si sta riempiendo di buio. Rosie è quella che più ha creduto in quella felicità ma vede che tutto è in pieno crollo, Pip ha già deciso di fuggirsene a Vancouver perché dice che gli è stato offerto un lavoro ma in effetti abbandona il marito e due bambine per un legame più forte e sicuro, Ben ha sottratto sul posto di lavoro un bel mucchio di soldi e adesso teme il carcere, Mark ha scelto di diventare Mia, sta iniziando la cura di ormoni in previsione di un’operazione che lo farà diventare quella donna in cui spera e crede da anni.

È il caos che viene a sovrapporsi a un ordine salvaguardato da sempre, l’impianto scenografico, su quel palcoscenico girevole, inventato da Nicolas Bovey, in cui il giardino della casa – l’Eden che ci si accorge ben presto non essere più eterno – sembra invadere quella normalissima cucina, fatta (normalmente) di tavolo e poltrona e vasi verdi e lavello, è messo sottosopra, il fuori invade il dentro, immagine bellissima e appropriata della tragedia che ad un certo punto s’è innestata. Sconvolta la madre altresì, da un macigno troppo grande, lei che è stata esempio di dedizione senza limiti, di forza ma di dolcezza, che ha sempre saputo prevedere le necessità dei figli, che li in ogni momento protetti, indirizzati, tenuti in salvo, lei che peccato di troppo amore (“soverchio”, lo avrebbe definito l’autore di “Così è (se vi pare)”, con un termine ormai cancellato), lei che per la famiglia e per la casa ha scordato immediatamente un improvviso spiraglio di fuga, lei che vorrà trovare ancora una via d’uscita; sconvolto, e inebetito, il padre che non può ammettere una separazione o un’auto nuova per mettersi allo stesso livello di “quella gente nuova che ho conosciuta” o il mutamento con cui non vorrà avere mai nulla a che fare. Una lunga, stretta, ben condotta narrazione che Bovell racchiude in un flashback, un montaggio targato cinema, una telefonata muta e angosciata all’inizio e al termine, una vicenda che sul dolore si chiude in maniera definitiva. La distruzione di quell’eden e di quel giardino, come sarà domani?, “più si crede nella felicità, più si soffre”, sembra dire l’autore.

Forse “Cose” soffre di un che di troppo di prevedibilità, di uno schematismo che delinea in maniera forzata i momenti dell’uno e dell’altro personaggio: per cui in più di un tratto il testo è costretto ad appoggiarsi alla bravura degli interpreti, di Stefania Medri che s’irrobustisce man mano che avanzano i 110’, di Giovanni Drago e di Fabrizio Costella, di Giordana Faggiano già apprezzabilissima in quei primi momenti in proscenio a raccontare della sua sconfitta Rosie, di Valerio Binasco a delineare la debolezza di un padre e in primo luogo di una Giuliana De Sio, che merita un applauso a parte per la forza e la rabbia, le rinunce e la protezione con cui ha costruito la sua Fran, insostituibile perno intorno a cui gira la famiglia di Bovell.

Elio Rabbione

Nelle immagini di Virginia Mingolla, alcuni momenti dello spettacolo “Cose che so essere vere” di Andrew Bovell, messo in scena da Valerio Binasco per la stagione del Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale.

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