Elaboriamo il lutto

Il lutto è stato, e per alcuni versi lo è tuttora, uno dei temi più sentiti dall’umanità che lo ha percepito (e lo percepisce) in modo diverso a seconda delle epoche, della cultura e della fede.

La morte di un individuo è vissuta, tanto dalla comunità a lui più vicina quanto, se famoso, da un pubblico molto più vasto, secondo regole codificate, a partire dai momenti immediatamente successivi alla morte, alla diffusione della notizia, all’abbigliamento dei parenti più stretti, all’inumazione o cremazione fino al periodo successivo, che può durare anni nel caso di una vedova in alcune zone anche dell’Italia.

Si ha nei confronti del “de cuius” un’attenzione, un senso del dovere che spesso non gli venivano tributati neppure in vita, temendo di attirarsi la sua ira dall’aldilà.

Il lutto assume spesso un aspetto esteriore quasi teatrale, con cori di donne pagate appositamente per lamentarsi, talvolta per persone che neppure conoscevano; è il caso di alcune zone del sud Italia dove, anche se in maniera minore rispetto ad alcuni anni fa, alcune donne siedono nella stanza dove giace il cadavere (se deceduto in casa) e cantano alcune litanie.

Un esempio famoso di cordoglio collettivo è quello citato nell’Iliade quando Ettore muore e la moglie Andromaca, la madre Ecuba e la compagna di suo fratello Paride, Elena, intonano un coro cerimoniale.

I tempi, poi, hanno modificato enormemente il concetto tanto dellutto quanto della concezione della morte stessa: sempre più persone scelgono la cremazione al posto della tradizionale inumazione sottoterra o della tumulazione in un loculo e, tra questi, alcuni scelgono di conservare le ceneri presso la propria abitazione ed altri di disperdere le ceneri in mare o in altro luogo, rinunciando ad avere un luogo dove recarsi a pregare e vedere l’ultima dimora del proprio caro.

Nei casi di morte improvvisa, soprattutto se il defunto era giovane ed in buona salute, è normale lo scoramento per la perdita improvvisa; immaginate, per esempio, quando muore un figlio, un evento innaturale al punto che in nessuna cultura esiste un vocabolo per designare chi perda un figlio come c’è, invece, per chi perde un genitore.

Molte persone non si rassegnano all’idea di perdere un congiunto che, magari dopo mesi o anni di malattia, riesce cessa finalmente di soffrire; l’egoismo ci fa pensare più al nostro dolore, alla perdita di chi ci è caro, di qualcuno che non potremo più vedere, sentire ed incontrare, anziché pensare che il morto ha finalmente raggiunto la pace.

Pensiamo soltanto alla dignità compromessa dalla necessità di farsi cambiare il pannolone, di essere accompagnato in bagno, messo a letto, vestito, lavato, ancor più se la testa è lucida ed è soltanto il fisico a non rispondere più.

Eppure, quasi nessuno ha mai messo al primo posto la serenità acquistata finalmente dal deceduto anziché il proprio personale dolore.

Avete mai visto i funerali a New Orleans? Il tipico rito funebre locale inizia con un corteo cui partecipano la famiglia con conoscenti ed amici, accompagnati da una banda di ottoni fino al luogo di sepoltura. Le musiche sono cupe, tristi: Al termine della sepoltura, il tono della musica cambia e la banda inizia a suonare motivi allegri, spirituals o melodie per indicare che ormai il corpo è stato “liberato” e la vita ricomincia.

Perché non possiamo anche noi concentrarci sulle sofferenze del corpo che cessano in virtù della morte? Il defunto ci vorrebbe tristi, addolorati per la sua dipartita o preferirebbe saperci sereni perché ha smesso di soffrire?

Uno scritto, erroneamente attribuito a Sant’Agostino, in realtà opera dello scrittore Henry Scott Holland recita:

La morte non è niente. Non conta.

Io me ne sono solo andato nella stanza accanto.

Non è successo nulla.

Tutto resta esattamente come era.

Io sono io e tu sei tu e la vita passata che abbiamo vissuto così bene insieme

è immutata, intatta.

Quello che eravamo prima l’uno per l’altro lo siamo ancora.

Chiamami con il vecchio nome familiare.

Parlami nello stesso modo affettuoso che hai sempre usato.

Non cambiare tono di voce,

non assumere un’aria solenne o triste.

Continua a ridere di quello che ci faceva ridere, di quelle piccole cose che tanto ci piacevano quando eravamo insieme.

Sorridi, pensa a me e prega per me.

Il mio nome sia sempre la parola familiare di prima.

Pronuncialo senza la minima traccia d’ombra o di tristezza. [..]”

Sergio Motta

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