In punta di piedi. La geografia emotiva di Clara Cipollina

Raccontarsi  è una passione che viene da dentro, come una sorta di forza istintiva irrefrenabile; è un atto creativo che ci serve a esprime e comunicare.

“Prima di scrivere sulla vita devi viverla”, diceva Ernest Hemingway. E non vi è dubbio che Clara Cipollina, come confessa nel libro “In punta di piedi e socchiudendo gli occhi” (Impremix Edizioni,Torino) ha vissuto e vive una vita che le ha regalato gioie ma non le ha risparmiato nessun dolore. Per Raccontarsi non è mai facile. Occorre superare pudori, imbarazzi, paure. Spesso non si riesce e, al massimo, lo si fa solo per se stessi, confidando ansie e speranze alle pagine di un diario che difficilmente sarà letto da altri. Quando si trova il coraggio di rendere pubblico il racconto è un atto liberatorio, una testimonianza ad alta voce di una storia che si incrocia con altre. La scrittura di Clara Cipolina è chiara,mai banale,spesso essenziale,talvolta drammatica. Accompagna chi legge in un viaggio introspettivo che inizia da un estate in un campeggio  vicino alla spiaggia di Donoratico, sul Tirreno maremmano e, pagina dopo pagina, diventa una pubblica confessione laica dei pensieri, delle angosce e delle esplosioni di felicità di una vita molto intensa. Storie che s’inframmezzano tra un capitolo e l’altro, diventano un tutt’uno con il dialetto di Gavi e la terra dove l’autrice è nata e cresciuta, con le atmosfere di casa e dell’aia della cascina che rimandando alle origini, alla terra, al tema già sviluppato attorno alla figura del padre – il contadino Mario, mezzadro classe 1911 – protagonista del suo precedente libro, Le mani e la terra. E’ un viaggio a ritroso, con passo lento e garbato, quello che Clara compie in “punta di piedi”, partendo dalla cascina del Merlo, sotto la Madonna della Guardia, dove lo sguardo si perde tra colline e vigneti fino a Gavi. Nei traslochi con il mobilio caricato sul carro trainato dal bue si rivivono le immagini dell’epopea contadina che il cinema di Ermanno Olmi ci regalò con L’albero degli zoccoli . L’incedere della narrazione porta il segno di una umanissima filosofia che ruota attorno al senso della vita dell’autrice, insegnante in pensione che ha scritto anche un importante volume accademico su Matteo Vinzoni, il celebre cartografo della Serenissima Repubblica di Genova. Un grumo di emozioni e di tremendi punti interrogativi imposti dalla scoperta e dallo sviluppo della sclerosi multipla con la quale è costretta a convivere da molto tempo. Le radici sono importanti, e Clara Cipollina con il piglio della bambina “cianfurosa” di un tempo lo ricorda al lettore facendolo partecipe, conducendolo senza obbligo sulle tracce di se, gratificandolo con il susseguirsi delle scoperte. La scuola con i vecchi banchi e “l’odore d’inchiostro nei calamai profondi”, il lavoro a giornata nei campi, i genitori e i fratelli, le fughe e la grande fame d’affetto e considerazione. Gran parte dei ricordi ruota attorno a quell’universo contadino che si raffigura nell’albero in fondo all’aia. E’ lì che troviamo il suo imprinting, la linea retta, quasi un solco tracciato dal vomere di un aratro nelle terre attorno al Lemme che ne segna carattere e personalità. Il ritmo del racconto è segnato da frequenti flashback, da rimandi e ritorni che seguono una logica precisa, quasi che Clara – da ottima insegnante di lettere qual è stata – avesse steso tra le parole un invisibile filo da seguire. Scrive:”..la nostra prima casa a Gavi era nel Filatoio, anticamente una filanda, tanti piani, tanti appartamenti che mi sembravano incastrati insieme, scale e corridoi si erano mangiati l’aia della mia cascina”. Ebbe in seguito un’altra opportunità quando “dal filatoio traslocammo nella casa della Mentina, spostandoci semplicemente sull’altro lato della strada, in quel lembo di terra incastonato tra le case, ritrovai un pezzetto dell’ aia antistante la cascina. In alto riebbi una pagina di cielo a scandire il giorno dall’alba alla notte”. I ricordi del microcosmo racchiuso nel cortile, i giochi con gli amici, le memorie gastriche dell’olio di fegato di merluzzo, il DDT che a quel tempo si spruzzava generosamente per contrastare mosche e insetti, si intervallano con le angosce di una donna che deve fare i conti con gli impedimenti, le limitazioni imposte dalla malattia invalidante, la sensazione di essere privata della propria femminilità. Il racconto scorre lungo le oltre trecento pagine proponendo immagini che, come in un caleidoscopio, mescolano memoria e quotidianità. Le magistrali a Novi, dalle Pietrine; la vecchia Genova con i suoi caruggi e le  crêuze (“..amavo vedermela addosso, imponente, arrampicata sulla montagna alla mia sinistra, lambita dal mare alla mia destra..”) ai tempi dell’Università e degli studi sull’amato Vinzoni che rivoluzionò la cartografia; gli anni omegnesi, nella città natale di Gianni Rodari sulle rive del lago d’Orta, dove insegnò per diversi anni (.. “la scuola media Filippo Maria Beltrami, dove mi aspettava la 1°E, la mia prima scolaresca, indimenticabile, come il primo amore”) il matrimonio e i figli, il presente spesso difficile, reso complicato dalla malattia. In questa originalissima autobiografia un posto speciale è occupato da ricordi come quelli delle notti stellate sul Lemme. Alle cascine da bambina vivevo la notte nelle serate di veglia nelle stalle, ma a Gavi, quando la luce della luna invadeva la stanza dove dormivo, sostavo a lungo dietro il vetro della finestra ad osservare l’incanto delle scie luminose che si formavano sull’acqua del Lemme e sulle fronde dei salici piangenti. I terrazzini delle case dove ho abitato a Gavi, soprattutto quello della casa della Mentina e quello odierno della casa che appartenne allo zio Baci e alla zia Pina, costituirono delle meravigliose balconate sulla ruralità della mia infanzia”. La donna matura, riflessiva e disincantata, si mescola con l’animo d’eterna bambina. Lungo il suo cammino in punta di piedi Clara Cipollina fa come l’acqua della  Nigoglia che, ostinata, esce dal lago d’Orta, attraversa Omegna e “scorre in direzione contraria”. Tornano entrambe alle sorgenti, verso casa. Al tempo della sua permanenza Omegna, città delle caffettiere, vantava un tessuto sociale vivace, un microcosmo a dimensione umana con tanti punti di aggregazione che ne accompagnarono la crescita e la sensibilità, saldando amicizie e rapporti. Oltre a Gavi e al lago d’Orta c’è poi Novara, città dove vive tutt’ora. Come scrisse Nadia Gallarotti, forse e senza voler far torto a nessuno l’amica più cara di Clara nella prefazione del suo primo libro, era “la città necessaria, vicino al posto di lavoro di Bruno”, in grado di garantire a Clara “un ritmo di vita più accettabile e l’accesso più facile alle cure di cui ha avuto bisogno”. Novara con le fredde nebbie d’inverno “che avvolgono i suoi viali, mettendo i brividi nelle ossa, ma anche la sorpresa- in primavera di scoprire un paesaggio, tutt’attorno alla città, che si trasforma in un lucido specchio, dove l’azzurro del cielo si riflette nell’acqua delle risaie”. La narrazione si chiude con un capitolo dolente, difficile. La scomparsa prematura di Nadia nel febbraio del 2018, i ricordi resi pubblici nell’ultimo saluto che proprio lei rivolse all’amica. Si avverte il senso del vuoto, dell’assenza che può essere mitigata solo parzialmente dalle memorie condivise. E la consapevolezza che la vita continua a girarci intorno e dobbiamo strapparne a brandelli , di volta in volta, qualche morso, come fa Clara Cipollina raccontandosi nel libro, con determinazione e coraggio.

Marco Travaglini

 

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