“L’ufficiale e la spia” di Roman Polanski
Pianeta Cinema a cura di Elio Rabbione
La macchina da presa, avanzando lentamente, racchiude in uno sguardo totale il vasto spiazzo dell’Ecole militaire di Parigi, nella mattina fredda del 5 gennaio 1895, per racchiudersi sull’ufficiale che strappa i gradi dall’uniforme di Alfred Dreyfus e ne spezza la sciabola. È la condanna di un tribunale e di una classe politica nei confronti di un capitano dell’esercito francese, alsaziano di Mulhouse, di origini ebree, per alto tradimento nell’aver trasmesso informazioni militari ad un corrispondente tedesco, è il suo invio all’isola del Diavolo, tra abbandoni e soprusi: è l’inizio bellissimo dell’ultimo film di Roman Polanski, J’accuse, che nel titolo italiano – L’ufficiale e la spia – riprende quello del romanzo di Robert Harris (già felice collaboratore del regista polacco una decina di anni fa per L’uomo nell’ombra) che con lui firma la sceneggiatura: ponendo al centro del dramma non il condannato, bensì il tenente colonnello Georges Picquart, all’inizio dalla parte dell’accusa poi colui che, nella ricerca continua di una verità che sempre più scricchiolava con il verdetto nella quotidiana certezza del continuare dell’invio di notizie al “nemico”, cercherà in ogni modo di ristabilirne l’innocenza.
L’affaire, nato e sviluppatosi in un clima di distruttivo antisemitismo (i roghi dei libri, le vetrine con le scritte “morte agli ebrei” mandate in frantumi legano strettamente quanto accadde a cavallo tra la fine di quel secolo e l’inizio e l’espandersi del successivo, tra gli anni Trenta e Quaranta), spaccò la nazione francese fino al 1906 in colpevolisti ed innocentisti, tra revisioni e processi, i primi soprattutto rappresentanti dell’esercito, le alte sfere e i ministri legati ad esse, ormai consapevoli dell’errore compiuto ma ben decisi a non lasciar distruggere il castello di menzogne costruito, alimentandolo semmai con altre false prove, con connivenze, con una drammatica farsa; gli altri appartenenti al mondo degli scrittori (non soltanto Èmile Zola con il suo J’accuse pubblicato su L’aurore nel ’98, che lo costrinse a fuggire in Inghilterra per evitare un anno di carcere, ma pure Gide e Proust) e degli artisti (Manet), il mondo che è quello di Picquart, deciso a mettersi contro i suoi stessi superiori, a rischiare la carriera e anche la vita, a subire il carcere pur di riportare totalmente allo scoperto la verità. La ristabilirà: ma ad un Dreyfus, reintegrato nel proprio ruolo, negherà il riconoscimento di un grado maggiore e quegli anni trascorsi sull’isola, pedine entrambi di un meccanismo che ha le proprie leggi e le mantiene.
È un’opera davvero bella, estremamente matura, solidamente costruita L’ufficiale e la spia, il film dell’ebreo polacco Polanski più avvincente di questi ultimi anni, struggente nella ricchezza del racconto, bruciante per la forza con cui affronta temi che ancora oggi ci toccano da vicino, costruisce con perfetto realismo l’intera vicenda e ci lascia scoprire tutti i simboli di cui l’arricchisce (la polvere e la sporcizia che invadono gli uffici di cui Picquart prende possesso, la disattenzione del vecchio custode). Affronta il pubblico e il privato, Polanski, arrivato agli 86 anni di età, e si pone con le proprie origini e con la sua storia al centro della vicenda come individuo avversato dal destino, come per un attimo, in alta uniforme, lo si scorge tra un elegante gruppo di militari, facendosi allo stesso tempo accusato e accusatore. Costruisce un’epoca perfettamente nelle scenografie di Jean Rabasse (le tante stanze, i tavolini dei caffè, c’è anche spazio per un soleggiato dèjeuner sur l’herbe), sceglie dalla Comedie Française un gruppo di attori cui affida i volti dei militari ed il risultato è splendido, sfaccettato, la fotografia di Pawel Edelman cerca sapientemente i colori grigi di Parigi. Dispone di due attori in grado di offrire due alte prove di recitazione, Jean Dujardin (Picquart) che esprime in maniera umana e solida tutta la caparbietà della propria ricerca e Louis Garrel (un esempio perfetto di trucco e di invecchiamento) che è un Dreyfus pronto a raccogliere in sé non soltanto la propria tragedia ma quella di un popolo intero.
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