“Aveva nel sorriso il pianto del mondo e nelle lacrime delle cose faceva brillare la gioia della vita. Toccato dalla grazia del genio era il guanto rovesciato della nostra civiltà, il miele e lo schiaffo, lo scherno ed il singhiozzo; era il nostro rimprovero e la nostra speranza di essere uomini.
Testimone universale commosse e rallegrò i cuori di tutte le razze e latitudini, ovunque si celebrasse il processo all’iniquità, alla presunzione, al cinismo dei ricchi e dei potenti, ovunque dal dolore potesse scaturire la protesta del debole sopraffatto e il riscatto dell umiliato. Uomini e donne di tutte le età e colore si riconobbero in lui, si contorcevano dalle risa e sentivano salirsi dentro pietà per se stessi. Andavano per gioire e uscivano pieni di malinconia”. Così Giovanni Grazzini, su “Il Corriere della Sera” celebrò la dipartita di sir Charles Spencer Chaplin, morto nella sua casa di Corsier sur Vevey intorno alle 4 della mattina di Natale del 1977. A Corsier sur Vevey, in Svizzera, Chaplin aveva fissato la sua dimora quando, nel 1952, venne allontanato dagli Stati Uniti “per gravi motivi di sfregio alla moralità pubblica e per le critiche trasparenti dai suoi film al sistema democratico del Paese che, pure accogliendolo, gli aveva dato celebrità e ricchezza”. Tutto a Corsier continua a parlare di Chaplin, ogni angolo, ogni via, ogni palazzo, la sua casa, le sponde del lago Lemano vegliate dalla statua di Charlot. La villa di Corsier, nel 2016, è stata trasformata nel “Chaplin’s World”, il mondo di Chaplin, che consente al visitatore di entrare in contatto con la vita, le opere e le passioni di un uomo che ha dominato con la sua arte il XIX secolo, creando un cinema immortale e quanto mai attuale. Charles Chaplin nacque 130 anni fa, il 16 aprile 1889 a East Street, nel sobborgo di Londra di Walworth. Il padre era un attore di varietà con il vizio dell’alcol, la madre un’attrice che ebbe poca fortuna e che, con gli anni, iniziò a mostrare segni di cedimento mentale, affetta da crisi depressive. Dopo un’infanzia difficile, Chaplin iniziò ad esibirsi come fantasista negli spettacoli itineranti di Fred Karno, diventando, insieme a Stanley Jefferson, meglio conosciuto come Stan Laurel, uno degli attori più apprezzati. E’ tra il 1914 e il 1915 che nasce Charlot, “the Trump”, il vagabondo, l’omino dal volto imbiancato, dagli occhi bistrati e dai buffi baffi, con un’eleganza tutta sua: indossa una giacca troppo stretta e troppo corta, sulla quale non dimentica di appuntare un fiore, veste pantaloni ampi e larghi pieni di toppe, ha scarpe lunghe con suole simili a grandi bocche che, ad ogni passo, rischiano di spalancarsi, porta una bombetta e una canna di bambù come i gentiluomini dei quartieri alti. Film dopo film, attraverso la figura di Charlot, Chaplin dà voce al “diseredato della società”, all’umile, al reietto, alla massa inascoltata e lo fa con garbo estremo, senza la necessità di abbandonarsi a immagini violente, ma facendoci toccare con mano la crudeltà di un mondo nel quale bisognerebbe, invece, tendere alla felicità. E’ Charlot a mostrarci le ingiustizie profonde che sarebbero sanabili se l’uomo non vivesse nel proprio ristretto egoismo, è Charlot a prenderci per mano e a condurci sul ponte di una nave di terza classe, emigrante tra gli emigranti, disperato tra i disperati che viaggiano verso una terra promessa, pieni di speranze che, invece, verranno deluse, è con Charlot che viviamo il dramma di di una fabbrica che condanna l’uomo a gesti ripetitivi, a ritmi assurdi e allucinanti, quelle fabbriche che Simone Weil, negli stessi anni, avrebbe definito capaci di spezzare l’essere umano, di distruggerne il coraggio, la coscienza e la dignità. Con Charlot conosciamo la storia di un padre che è adottivo e solo, conosciamo l’immagine di una famiglia monogenitoriale nella quale quello che conta davvero non sono i legami di sangue, il benessere o le convenienze, bensì l’amore puro e semplice. E’ sempre Charlot, nel 1940, a dare il volto, in una geniale parodia dei totalitarismi che schiacciavano l’Europa, contemporaneamente ad un barbiere ebreo e a Hitler, in una straordinaria dicotomia tra bene e male, tra giusto e ingiusto, in una satira tagliente e delicata al tempo stesso, con un finale commovente in cui i due personaggi si scambiano e si sovrappongono e in cui Chaplin regala ad un mondo violento e dominato dall’odio il suo discorso all’umanità, lirico e commovente messaggio diretto al cuore dell’uomo: “Vorrei aiutare tutti se possibile: ebrei, ariani, neri o bianchi. Noi tutti vogliamo aiutarci vicendevolmente. Gli esseri umani sono fatti così. Vogliamo vivere della reciproca felicità, ma non della reciproca infelicità. Non vogliamo odiarci e disprezzarci l’un l’altro. In questo mondo c’è posto per tutti, la natura è ricca ed è sufficiente per tutti noi. La vita può essere felice e magnifica, ma noi l’abbiamo dimenticato. L’avidità ha avvelenato i nostri cuori, ha chiuso il mondo dietro una barricata di odio, ci ha fatto marciare, col passo dell’oca, verso l’infelicità e lo spargimento di sangue”. Il discorso all’umanità assume toni visionari, dipingendo un’epoca fatta di una comunicazione rapida e spesso sbagliata, nel passaggio in cui Chaplin afferma “La mia voce raggiunge milioni di persone in ogni parte del mondo, milioni di uomini, donne e bambini disperati, vittime di un sistema che costringe l’uomo a torturare e imprigionare gente innocente. A quanti possono udirmi io dico: non disperate. L’infelicità che ci ha colpito non è che un effetto dell’ingordigia umana: l’amarezza di coloro che temono le vie del progresso umano. L’odio degli uomini passerà, i dittatori moriranno e il potere che hanno strappato al mondo ritornerà al popolo. Qualunque mezzo usino, la libertà non può essere soppressa”. La tecnica deve essere al servizio dell’umanità, di tutta l’umanità, non di pochi folli che ingannano le masse e che la utilizzano per instillare odio. Anche “Monsieur Verdoux” ci presenta, in fondo, semplicemente, uno Charlot invecchiato, un po’ più elegante e forse un po’ più cinico, costretto dalla società e dalla crisi economica a trasformarsi da onesto contabile a Barbablù, pur di riuscire a mantenere la propria famiglia e pronto, alla fine ad abbracciare il proprio destino e a consegnarsi alla giustizia, non senza, tuttavia, invitare l’uomo a riflettere sull’assurdità di una società che ha legalizzato, attraverso la guerra, l’omicidio di massa. “Se parliamo poi di massacri” afferma Verdoux “non abbiamo autorevoli esempi? In tutto il mondo si fabbricano ordigni sempre più perfetti per lo sterminio in massa della gente, e quante donne innocenti e bambini sono stati uccisi senza pietà, e magari in modo più “scientifico”! Eh, come sterminatore sono un misero dilettante, al confronto”. Charles Chaplin è stato per tutta la vita un uomo innamorato degli altri uomini. Il Governo americano lo definì “comunista”, allontanandolo dagli Stati Uniti, definizione che Chaplin rifiutò sempre perché il suo immenso, struggente amore per l’umanità andava oltre la catalogazione imposta da una parola, da un termine, da poche lettere. In ogni sua opera, nella maschera di Charlot troviamo questo sentimento, ma anche il profondo, inguaribile ottimismo del bambino cresciuto nei sobborghi poveri di Londra che Chaplin conserverà intatto dentro di sé per sempre. E’ quel bambino ad insegnarci che, alla fine, dopo tante difficoltà e dopo tanti problemi, dopo tante ingiustizie e dopo i periodi bui, l’uomo troverà sempre il coraggio di rialzarsi, di prendere per mano il suo simile, di voltare le spalle al passato e di incamminarsi lungo una nuova strada che si dirige verso il futuro.
Barbara Castellaro
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