Vertigo, la stagione dell’Orchestra Sinfonica RAI guarda al cinema

Di Renato Verga
La stagione dei Concerti dell’Orchestra Sinfonica Nazionale della RAI continua a guardare al cinema con curiosità e intelligenza. Dopo le tre serate inaugurali dedicate al muto, il settimo appuntamento offre un trittico musicale di grande fascino: un capolavoro hitchcockiano, una fiaba stravinskiana e, per chiudere, uno dei vertici del sinfonismo ottocentesco. A legare i tre mondi, un direttore che Torino conosce bene e accoglie sempre con entusiasmo: Juraj Valčuha.

Si parte con Vertigo (La donna che visse due volte, 1958) di Alfred Hitchcock e con le musiche di Bernard Herrmann, un autore che ha trasformato la colonna sonora in un vero linguaggio psicologico. Herrmann, nato nel 1911, direttore d’orchestra prestato alla radio e scoperto da Orson Welles, debutta al cinema con Citizen Kane e trova in Hitchcock il suo alleato ideale. In Vertigo, film costruito come una spirale di desiderio e ossessione, la musica non si limita a seguire le immagini: le precede, le spinge, le interpreta. Fin dai titoli di testa, la spirale grafica di Saul Bass trova un equivalente perfetto nella spirale sonora: archi ipnotici, cromatismi in continua rotazione, armonie che sembrano sempre sul punto di cedere. La Suite proposta dall’OSN raccoglie i momenti più intensi: il Prelude vorticoso, l’aura sospesa dei temi legati a Madeleine, il crescendo quasi wagneriano di Scène d’Amour, le sezioni finali dove i motivi dell’inseguimento ritornano come un’ossessione ricorrente. Valčuha, che di Herrmann coglie la forza drammatica e la sorprendente autonomia sinfonica, guida l’orchestra con gesto chiaro e senso narrativo.

Cambio d’atmosfera con Le baiser de la fée, il balletto composto nel 1928 da Igor Stravinskij per i Ballets Russes e rielaborato prima in una suite (1934), poi in una seconda versione nel 1949. Una storia semplice e inquietante: una fata bianca e glaciale bacia un bambino, lo “segna” per la vita e torna a riprenderlo il giorno delle nozze. Un racconto di Hans Christian Andersen che Stravinskij trasforma in un omaggio al balletto romantico e soprattutto a Čajkovskij, suo nume tutelare. Non a caso, l’archetipo è quello classico dell’artista-poeta, figura sospesa tra realtà e fantasia, tra la quiete domestica e l’irresistibile richiamo dell’altrove. È il mondo delle Willi di Giselle, delle creature eteree che seducono e annientano, delle figure in bilico tra bellezza e morte. Qua e là affiora persino un’eco lontana di Petruška: sberleffi ormai filtrati, quasi un ricordo di gioventù. Valčuha mette in rilievo la brillantezza della scrittura orchestrale, ricchissima di colori, e l’orchestra risponde con morbidezza e slancio.

Dopo l’intervallo, la scena cambia nuovamente. L’orchestra torna in formato romantico, minime le percussioni e assenti le tastiere richieste nella prima parte del programma: è il segno che si entra nel territorio della Sesta Sinfonia Patetica di Čajkovskij, la più celebre e la più enigmatica del compositore russo. Valčuha sceglie un approccio che scava nella partitura senza indulgere al melodramma. L’incipit del primo movimento, tenue e cupo, appare particolarmente desolato, con dinamiche trattenute e una tavolozza sonora di grande sobrietà. Il successivo Allegro non troppo, con i suoi continui cambi di tempo, crea una sensazione di instabilità emotiva quasi patologica che il direttore rende con grande lucidità.

I due movimenti centrali, un valzer apparentemente rasserenante e un terzo tempo costruito su un tema di marcia sempre capace di strappare applausi anticipati (puntuali anche questa volta), non dissolvono del tutto la tensione sotterranea. E quando arriva il finale, l’Adagio lamentoso, la sinfonia rivela tutta la sua radicalità: un lento conclusivo che è quasi un addio al mondo, scritto da Čajkovskij appena nove giorni prima di morire. Valčuha evita i toni tragici estremi e sceglie una linea più moderna, fatta di trasparenze, dinamiche sottili, colori pastello e un’attenzione particolare alle pulsazioni ritmiche. Ottima la prova del timpanista Biagio Zoli, essenziale nel dare corpo alla drammaturgia interna del pezzo.

Ne emerge un Čajkovskij meno romantico del consueto e sorprendentemente vicino a un gusto mahleriano, proiettato verso il Novecento. Una chiusura intensa e misurata per una serata che ha saputo attraversare, con coerenza e leggerezza, tre mondi musicali lontani ma legati da un unico filo: la capacità della musica di raccontare ciò che le immagini – cinematografiche, coreografiche o sinfoniche – solo suggeriscono.
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