Emanuela Rossi – per anni giornalista freelance, da alcuni anni dietro la macchina da presa, una dei registi di “Non uccidere” per Rai 3, il suo “Buio” (2017) è stato selezionato per tanti festival del mondo, “Eva” è il suo secondo lungometraggio e secondo titolo in concorso per l’Italia al 43° TFF – confessa di alimentare il suo cinema con la somma di tanti generi, “dal dramma familiare, al thriller allo sci-fi, perché è impossibile raccontare il nostro tempo e la sua complessità senza prendere in prestito dai vari generi cinematografici i frammenti di stile e di contenuti più efficaci per raccontare ciò che ci serve.” Qui abbraccia Eva (la sceneggiatura è stata scritta con Stella di Tocco) come Eva abbraccia gli alberi che incontra per strada o nei campi immensi, le appiccica un aureola di santa, quella che nei calendari ancora non trovi, lei che è anche donna misteriosa e maga, incendiaria, appartata dalla società e protettrice di un passato a noi incomprensibile, solitaria e malata di un qualcosa che un giorno nella sua mente ha avuto un’ombra di buio. Lei che coltiva una missione, salvare i bambini del mondo, tutti? per ora quelli che incontra sulla sua strada, sulle rive di un lago o in una cava abbandonata o nelle vicinanze del mare; lei che coltiva la vita reale e l’immaginifico, la fede e la pace, e una miriade di sogni sconnessi, forse quelli che stiamo incontrando alle tante proiezione della giornata. Sembrano essere sempre più la cifra di questo festival. Spera d’inventarsi una nuova esistenza, nell’affetto di Nicola e di suo padre Giacomo, di professione apicultore, ma finisce col ritrovarsi soltanto al tavolo di un ispettore di polizia che le chiede conto di quel gruppo di ragazzini che si continua a non trovare. Recita la sinossi distribuita: “Intanto in Cina una donna è esasperata perché la sua figlioletta è malata” e del parallelo lo spettatore tocca con mano due brevissimi inserti, allucinati, difficilmente accettabili, veloci. Da noi come là: si, ma e poi? Tutto rimane inevitabilmente nel surreale e nell’assurdo, nel trasporto continuo del tempo, nell’inspiegabile anche se si va a scomodare, come fa la regista, le parole “ribellione” e “dolore devastante”, tutto rimane sospeso nel tempo, oltre quella comprensione verso un comportamento che cerchiamo di costruirci. Tutto rimane più che altro un esercizio a tavolino, con la speranza vana che il pubblico delle sale s’imbarchi verso una simile impresa. La fotografia, bellissima e confortante, è di Luca Bigazzi.
La prima parola che ascoltiamo in “Cinema Jazireh” della regista turca Gödze Kural è “speranza”. “Cinema” è il racconto che la regista trae da altri racconti, da esperienze vissute, li ha ascoltati nelle case di Kabul e in giro per il paese, racconti di paura e di coraggio. La protagonista è Leila, ha assistito nell’Afganistan che sottostà al regime dei talebani e alla legge della Sharia al massacro della sua famiglia, adesso l’unico scopo per lei è ritrovare il figlio di sette anni misteriosamente scomparso. In un paese in cui è una condanna essere donna, in cui la scuola e il canto sono negati, in cui non andare accompagnata da un uomo può voler dire decisione percosse e di morte, Leila decide di camuffarsi e fingersi uomo, di vestire abiti maschili, di avventurarsi attraverso il deserto e i piccoli paesi con quei travestimenti: sarà nel vecchio cinema abbandonato che incontrerà Azid, anche lui un ragazzo rapito e costretto alla prostituzione, ancora un essere umano in altro modo ridotto al silenzio e privato della libertà: la decisione di mettere in salvo altre persone, il coraggio e l’amore di madre la spingeranno a chiedersi della possibilità di un domani, se sia giusto sperare di continuare a vivere. Ritratto di una donna forte, di una terra e di un popolo, di una realtà che forse abbiamo già dimenticato, in un film che mostra a volte segni di stanchezza e di eccessiva linearità ma che s’apprezza per il gradino un po’ più alto su cui si pone rispetto a tanti colleghi.
Di sogni più semplici ma altrettanto pericolosi vive la giovane protagonista di “Slanted”, opera prima dell’australiana Amy Wang (batte però bandiera statunitense). Joan è arrivata dalla Cina negli States quand’era piccola, con il nome di Qiqi, oggi adolescente – cresciuta ed educata da una coppia di genitori che vorrebbero ben salvaguardati i principi della vecchia patria – fatica a confrontarsi con i compagni del suo corso a scuola, a farsi accettare. Figuriamoci poi se si è messa in testa di diventare la reginetta del ballo della scuola (con il King di turno al seguito, strafico e parecchio ricercato), i lineamenti troppo asiatici la eliminerebbero dallo sperato successo, è necessario entrare nelle grazie della influencer di turno e rendersi bella e bionda e desiderabile grazie a un intervento chirurgico di alta (o più o meno bassa) sperimentazione per “sembrare” bianca, pur d’ottenere accettazione e corona sulla fronte. Ma il taumaturgo non è proprio dei migliori e, come una nipotina di Meryl Streep in “La morte ti fa bella”, tutto il mascherone facciale comincia a prendere delle brutte pieghe. Tra reginette di bellezza e social, tra sfide e nuove filosofie di vita, nel disegno esatto di una gioventù che mai come nella nostra epoca è andata dietro alle più stupide apparenze, Wang tratteggia un ritrattino corrosivo e incendiario, colpisce al segno, espone e lascia allo spettatore il tempo di pensare, con la piena volontà di rimanere quello che siamo.
“Diya” arriva dal Ciad, è il primo lungometraggio di Achille Ronaimou, è ambientato in una località in cui continuano a essere ben radicati gli opposti che presero vita dopo la guerra del 1979, quando i cristiani del sud si opposero ai musulmani del nord, è la legge del taglione, è l’usanza antica dell’occhio per occhio. Dane è un autista per conto di una ONG, tutti i giorni s’immerge nel traffico per portare aiuti, conduce una felice esistenza accanto alla moglie incinta: fino a che una distrazione, una chiamata al cellulare durante il lavoro e un viaggio, un bambino che attraversa la strada davanti a lui. Il ragazzino muore e i parenti reclamano un risarcimento, cospicuo e nel giro di un paio di settimane. Dane, per saldare il debito, dovrà affrontare il deserto e nuovi villaggi, verità che non conosceva. Racconto di ampio respiro e autentico, assolato e caotico, carico di tinte gialle e soprattutto d’odio e di tradimenti in cui camuffarsi, il (quasi) eroe intrappolato dentro a ingranaggi più forti di lui e inspiegabili, come tanto cinema ci ha mostrato, all’interno di un’intelaiatura che non prevede grosse sorprese ma che si lascia guardare con qualche piacere. Dispiace invece che un attore del calibro di Al Pacino sia rimasto invischiato nelle maglie di “Billy Knight” del giovane regista americano Alec Griffen Roth, che il cinema dovrebbe averlo nel sangue e succhiato sin da giovanissimo se, ci informano le cronache, il padre è lo sceneggiatore Eric Roth e la madre la produttrice Debra Greenfield, con fratelli al seguito. Qui è al suo primo lungometraggio e in tutta sincerità – glielo chiedeva anche il direttore Base presentandolo al pubblico – si fatica a credere che il ragazzo abbia avuto dalla sua l’insuperato attore, anche qui di vulcanico ed eccezionale peso. Un’isola a sé. Perché la storia – leggi: sceneggiatura – è di una semplicità sconcertante, l’andamento quanto mai debole, aggirandoci noi in quell’area “cinema sul cinema” che ha sfornato capolavori (e lasciamo anche solo per un attimo il venerato Fellini – e tralasciamo pure che il regista si ostini a definire la sua opera “un omaggio al cinema, un racconto sospeso tra realtà e immaginazione”) come il non troppo lontano Spielberg dell’autobiografico “Fabelmans”, etcetera etcetera. Perché qui si parla di un Alex che alla morte del padre scopre una scatola piena di sceneggiature, incompiute e tutto lascia credere mai proposte, neppure nella speranza di, e un fazzoletto con ricamato sopra un nome, Billy Knight: gli verrà voglia di volarsene a Hollywood dietro la spinta del “chi era costui?”, deciso a scoprire chi in passato si sia nascosto dietro a quel nome. A noi, di andare a cercare i pochi o tanti rimandi cinematografici sparpagliati nella storia, non è proprio venuto voglia: e non chiediamo nemmeno scusa.
Elio Rabbione
Nelle immagini, scene da “Billy Knight” del regista americano Alec Griffen Roth, “Eva” di Emanuela Rossi in concorso per l’Italia, il turco/iraniano “Cinema Jazireh”, “Slanted” (USA).
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