Il successo di un’inaugurazione, “Eternity” è la bella riproposta del cinema di ieri

Ieri al via il 43mo Torino Film Festival

C’è voluto una manciata di anni perché la sceneggiatura di Pat Cunnane trovasse un posto sul tavolo di qualche produttore di Hollywood, perché l’irlandese David Freyne, con un paio di lungometraggi alle spalle, fosse accreditato in veste di regista, il cast fosse composto e finalmente “Eternity”, con cui si è ieri sera inaugurato il Torino Film Festival numero 43 e che dal 4 dicembre arriverà sugli schermi, venisse girato. Commedia romantica, 115’ di piacevolezze e divertimento venati da qualche pizzico di toni drammatici che non impensieriscono più di tanto, di quelle che si potrebbero ripensare legate agli anni Quaranta o Cinquanta, affidate alle coppie Powell/Mirna Loy o Hepburn/Spencer Tracy, di quelle per cui vedresti facile facile dietro la macchina da presa quel gran genio di Frank Capra, un carico di amori e languori, di affanni e di finali lieti, di script svolti sempre con garbo e gusto e girandole che certo non t’annoiano – anche se per qualche strada secondaria degli ultimi minuti è difficile mantenere chiarezza e ritmo, ma comunque uscendo più che convinti che “the end” arriva con tutte le carte in regola.

Tutto parrebbe naturale, solo che qui siamo nell’aldilà, in un mondo “altro” circondato da un cielo fatto di teli dalle nubi colorate, di quelli che già abbiamo visto anni fa in “Truman Show”, un mondo dove una giovane Joan, arrivata dopo aver lasciato in terra una donna anziana consunta dal cancro, ha la possibilità lunga una settimana di tempo per decidere con chi voglia trascorrere l’eternità: la scelta dovrà essere pensata tra Larry, che lì l’ha da poco preceduta essendosi strozzato con un assaggio di biscotti durante una riunione di famiglia che avrebbe preteso di essere felice, e il primo suo sposo Luke, bello e perfetto agli occhi di tutti, costretto tuttavia un giorno a partire per combattere in Corea e là morire. Con il risultato che da 67 anni l’eterno innamorato la sta aspettando tra l’arrivo di un treno e l’altro che trasportano defunti nelle praterie celesti, con un solerte CA o Consulente dell’Aldilà, tra una sala d’aspetto e un’altra di smistamento, tra una nuvola qua e l’altra là. C’è il tempo per ripercorrere il lungo tunnel dei ricordi, per gite in montagna o ombrelloni in riva al mare, pensieri d’un tempo e chiarimenti sulle doti di questo o di quello, finché il trio amoroso non s’ingarbuglia più del dovuto. Senza dimenticare che una soluzione va comunque presa. Non è certo il caso di raccontare i tanti sviluppi di cui la storia, felicemente surreale, si alimenta né definire con chi Joan deciderà di trascorrere “il resto dei suoi giorni”, se l’espressione non sapesse altresì di troppo terreno: sarà sufficiente dire degli ingranaggi perfetti stabiliti tra i tre interpreti, Elizabeth Olsen e i suoi pretendenti di egual misura, Miles Teller (Larry) e Callum Turner (Luke), cui s’aggiunge una vaporosissima e davvero brava  Da’Vine Joy Randolph, che già si conquistò l’Oscar quale miglior attrice non protagonista un paio d’anni fa con “The Holdovers – Lezioni di vita” di Alexander Payne. Un applauso in più va alle scenografie di Zazu Myers, eccezionali, qualcosa che sa di Ziegfield degli anni d’oro.

Lino Escalera, il regista di “Hamburgo”, produzione Spagna/Romania, primo dei sedici film in concorso, ha studiato cinema alla New York University, per poi perfezionarsi in regia e sceneggiatura alla Scuola di cinema cubana. È poi tornato nella sua Spagna, ha iniziato a ricevere premi con i suoi primi corto, è approdato con “No se decir adiòs” al lungometraggio e con quel titolo ha raggiunto i premi Goya: “Hamburgo” è il suo secondo lungometraggio, al centro la figura di Germàn, introverso e silenzioso, un povero rifugio dove abitare, in cerca di quattrini per sbarcare le sue giornate, autista che s’è messo a lavorare tra i bordelli della Costa del Sol, al soldo di Cacho, un vecchio amico d’infanzia, che con la violenza gestisce un traffico di prostitute. Girano soldi e Germàn intravede la possibilità di poter cambiare vita, con l’aiuto di uno sbandato tenta la rapina ai danni del datore di lavoro ma il risultato lo porterà soltanto a uccidere e a fuggire da quegli uomini per cui sino a quel momento s’è sbattuto. “Il film affronta temi già presenti nel mio esordio, come la dipendenza, la distorsione della realtà, il rifiuto del dolore, la solitudine e il bisogno di comunicazione. Ma lo fa in un modo nuovo, attraverso un genere che mi ha sempre affascinato: il noir. Con il noir mi sono immerso nel mondo del traffico di donne, cercando di restituirne la durezza, ma anche di trasmettere compassione”, ha detto di recente Escalera. La durezza che ne nasce è forte come la tensione e il ritmo che il regista imprime all’azione, tra molte ombre e pochissime luci, tra sguardi e silenzi, con una guida del protagonista ferma e dal sapore sincero, di autentica immedesimazione, sa Escalera raccontare, anche le cose più angosciose, con vera precisione, tenendo ben viva l’attenzione dello spettatore. Ovvero un thriller tutto da guardare, d’azione ma non soltanto, anche i disperati hanno un’anima ed Escalera sa guardarci dentro.

Quel che proprio non fa Marianne Métivier, regista di origini canadesi-filippine, con il suo “Ailleurs la nuit”, suo primo lungometraggio: ovvero trovare qualcuno che ti mette una macchina da presa in mano e ti dice “gira!” e tu cominci a girare ma a vuoto, andando a riprendere pianure e campagne e vacche da mungere, sentieri e camminate e corse in auto da filmare con tempi e lungaggini incredibili, a considerare una torrida notte d’estate in cui Marie che è un’artista del suono – e va in giro a raccogliere i fruscii delle foglie e lo scorrere delle acque mentre il suo partner ci dovrebbe interessare con i suoi studi delle processionarie – mette in discussione la sua vita di coppia, in cui Noée arrivata dalla grande città da non troppo tempo la disorienta, in cui la giovanissima studentessa Jeanne perennemente in crisi guarda il mondo da un oblò e distribuisce viveri alle porte degli alloggi di Montréal, in cui Eva, appena arrivata dalle Filippine con al seguito una madre che non sai se comprensiva o imbronciata, viaggia nella città notturna insicura dell’intero suo avvenire. Non ci si sente coinvolti da alcuna porzione del film, che al contrario vorrebbe avere un sapore universale, vorrebbe parlare di rapporti e di giovinezza, di esistenze e di equilibri ad ogni istante in cerca di punti fermi: anche i silenzi restano tali e non trasmettono che il nulla.

Elio Rabbione

Leggi qui le ultime notizie: IL TORINESE

Lascia un commento

Your email address will not be published.

Articolo Precedente

 La Perla di Torino,  regalo goloso:  “Ho fatto l’albero!”

Recenti:

IL METEO E' OFFERTO DA

Fit Homeless