Festival delle Colline. Un anniversario e un’inaugurazione a candeline spente

 

Non è certo uscito il botto – un pampampam reiterato e sonorissimo – qualche sera fa l’anniversario dei trent’anni dal cilindro del Festival delle Colline, in cui tutti speravamo. Un bel gruppo, non indifferente, di candeline spente con tante soffiate che sapevano di fiato corto e di malinconia, di un qualcosa inserito a forza, troppo. Ma ci rifaremo. Perché questo Festival dacché lo conosciamo è sempre stato un bravo ragazzo, come da canzoncina, per questo – sempre poche sere fa – siamo entrati nella platea dell’Astra con la migliore delle speranze – o delle certezze addirittura – che ci saremmo stretti intorno a quella torta con un finale e un sorriso ben diversi. Il gruppo d’apertura era Agrupaciòn Senor Serrano, la regia e la drammaturgia affidate a Àlex Serrano in coppia con Pau Palacios, il testo ad una volenterosa Anna Pérez Moyan che se ne arriva, in canottiera e pantaloni, su un palcoscenico che sta “a metà strada tra un laboratorio e una discarica” (ci era stato detto), un paio di mucchi di sacchi d’immondizia belli gonfi da cui sempre la volenterosa “trova oggetti, resti e rifiuti generati dalla Storia dell’amore che la aiutano ad attivare la trama.”

Già, la trama, gran bella parola, di uno spettacolo che – dimenticavo: e lo scoprirà il publico? – ha per titolo “Historia del amor”. E che la trama sua vai a cercare con il lanternino, sfiduciati come quel vecchione di Diogene. Impossibile quel “compito di cercare di capire cosa sia l’amore” da parte della volenterosa – pronta a camuffarsi dopo un po’ con corpino e gonnone azzurroverdastri d’altra epoca – e noi con lei. Domande, tante, di quella filosofia puntata con gli spilli, lassù nel cielo, cercare di amare perché amiamo e perché amiamo come amiamo, e risposte, nessuna, in un’ottantina di minuti, per uscire con un certo amaro in bocca. Un excursus che non trova nessuna strada e immediatamente va a sbriciolarsi, tra epoche trascorse e l’esperienza personale della sempre volenterosa – scusatemi, ma non riesco a chiamarla attrice! non qui almeno -, frantumandosi pure quell’intenzione della drammaturgia di far trans-ferire in noi che guardiamo quel guazzabuglio di lingue di sopratitoli frettolosi ed emozioni spente, di sforzi anche comici, ma brillantemente superati, di far fronte a qualche incidente tecnico. Di espedienti che hanno tutta l’aria di raffazzonare sul momento. Si narra di antri e spelonche e tesori e giungle che nascondono, le immagini vengono allontanate da noi sino a essere un puntino lontano nel deserto del nulla, irraggiungibili. Come quell’amore? Si va su e giù per il palcoscenico, si procede a fatica, si cerca di riempire spazi e tempi che restano irrimediabilmente e deficitariamente vuoti. Tutto ha un sapore di irrisolto, di pretesto vano per una serata, di quell’”uno dei principali motori della nostra esistenza”, l’amore, che non s’è semplicemente avviato: cercavansi tracce di carburante. Resta, nella memoria, di emozionante, quella lunga sequenza di baci cinematografici messi a scorrere davanti a noi, dalla Bergman e Bogarth a DiCaprio e Winslet sul ponte estremo del Titanic, ricordi spicci per chi ama il cinema, romanzo lungo che nemmeno il maturo Totò di “Nuovo Cinema Paradiso” avrebbe guardato con occhi tanto lucidi.

Elio Rabbione

Nelle immagini, alcuni momenti dello spettacolo

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