Al Carignano, repliche sino a domenica 11 maggio
Non piacque affatto a Tennessee Williams il film che Richard Brooks nel ‘58, tre anni dopo il successo teatrale al Morosco di New York, trasse dalla ”Gatta sul tetto che scotta”, con la Taylor dagli occhi viola accovacciata, e mielosamente sexy, sul suo bel letto d’ottone a lanciare languidi sguardi (“This is Maggie the Cat…”, occhieggiava blandamente spudorata in quei tre punti di sospensione la locandina del film) mentre Newman dagli occhi azzurri sgambettava con la sua stampella a mettere in mostra la propria eterosessualità, tutta suggellata dal focoso bacio nel finale alla moglie. Aveva gridato al tradimento (accidenti a quel Codice Hays sempre in agguato!) nei confronti di quella sua provocazione, “la critica della società attraverso la lente d’ingrandimento della famiglia”, e s’era preso la sua vendetta, venti anni dopo esatti, dando alle stampe e ai palcoscenici una rinnovata versione che diceva pane al pane e vino al vino. Noi abbiamo peccato un po’ troppo nel costruirci un’atmosfera sdolcinata e amorosa, tutta “da cinema” anni Cinquanta, che non poteva scalfire neppure di un minimo graffio una figura maschile che nell’immaginario collettivo fatto di rotocalchi e ruoli giusti e interviste splendeva per le proprie doti di maschio (anche se qualche malalingua di Hollywood in vena di pettegolezzi aveva buttato lì che…). Accresciuto altresì l’errore per il fatto che il titolo in pochissime sparute occasioni si sia fatto vedere nelle stagioni teatrali di casa nostra. Quelli erano e dovevano essere Maggie e Brick, quello era il vecchio Papà con la stazza di Burl Ives, quella era la stridula, indimenticabile, Mae di Madeleine Sherwood. Già Paolo Bertinetti, nel terminare non molti anni fa la prefazione all’edizione Einaudi, sottolineava: “In un certo senso, quindi, dimenticare il testo e tornare al vero testo di Williams, al suo significato e ai suoi personaggi tratteggiati da lui sarà per il lettore un’operazione di riscrittura dell’immaginario.”
Rendo grazie quindi a Leonardo Lidi, alla sua teatrale esattezza, per la lettura veritiera che ha dato alla “Gatta”, nella nuova, cruda, a tratti in completo sembiante di ferocia, traduzione di Monica Capuani, penultima produzione (con lo Stabile del Veneto) nella stagione del Teatro Stabile di Torino, regista non sempre nelle mie corde, continuo a credere troppo libero in altre occasioni, troppo ad personam, troppo disponibile a “usare i testi classici come canovacci”, forse di uno sguardo troppo avveniristico, forse troppo colpevole allo sguardo di chi scrive queste note di entrare dentro un testo per (il piacere di) prevaricarlo, di sradicarlo da quell’humus in cui da sempre siamo stati abituati a leggerlo e vederlo, a immaginarlo. È stato così nelle passate stagioni, in gran parte, per l’humus cecoviano, attraverso la sua intera trilogia, forzato, fuorviato, sghembo in certe soluzioni. In un presente che ha fin troppo sottolineato. Un filo rosso con l’autore del “Giardino” che Lidi continua – giustamente – a scorgere e reclamare, la descrizione della famiglia tradizionale, con i suoi rapporti consunti, con Maggie che guarda ai figli della cognata – lei sì con l’approvazione del patriarca grazie ai suoi cinque marmocchi caciarosi che ha sfornato e un sesto in arrivo, mentre Maggie non ha ancora figliato – per definirli “mostriciattoli senza collo”, per il vecchio che festeggia i suoi sessantacinque anni continuando a ripetere alla moglie “io non ti amo” e Mamma a ripetere “non è vero, lui mi ama”, con l’ipocrisia qui a circolare in piena libertà, tutti a salvaguardare i tanti sguardi esterni, come pure il possesso della terra, vero orgoglio del vecchio proprietario terriero del Mississippi, quei ventotto acri qui della terra “più fertile da questa parte del Nilo”, e il figlio maggiore con la moglie a volersene impadronire, con quelle scartoffie da firmare immediatamente, quando Papà viene a conoscenza che quello che lui chiama spasmo al colon è un cancro bell’e buono e che a lui non rimane più molto da vivere.
E poi il rapporto, ipocrita, tra Maggie e Brick, quello che spingerà lei a inventare la fasullaggine di un erede per rientrare in uno stretto sistema casa/famiglia, con l’inevitabile equazione madre eguale donna. Si chiude con un secco “da morir dal ridere” da parte di Brick lo spettacolo di Lidi, Brick che nei 100’ s’è caparbiamente – e Fausto Cabra rafforza e pone in lodevole crescita, di attimo in attimo, la sua presenza, rabbia e infelicità di grande spessore, la costruisce prepotentemente, interagendo, nella lunga, legatissima, straziante scena di confronto con una figura paterna sempre negata, con Nicola Pannelli: e ai due attori va indirizzato l’applauso più convinto della serata, nell’autentica verità che imprimono ai propri personaggi – rifugiato nel ricordo di Skipper, compagno di università e di sport, vittima di (autentiche) maldicenze dietro la facciata di una amicizia “pura”, una scommessa a cancellarle finendo a letto con Maggie, a dimostrazione di una virilità che non c’è e non ci sarà mai e che lo porterà al suicidio. Un atto che ha allontanato Brick dalla “gatta”, che gli ha fatto rifiutare ogni rapporto sessuale, che ha svelato appieno il suo lato omoerotico e lo ha portato a bere oltre ogni misura. Ci sono due belle invenzioni di Lidi nella sua trascinante messinscena, nel biancore della scena marmorea inventata con le belle luci da Nicolas Bovey – una tomba dell’amore e della famiglia o un monumento a una passione o una macelleria entro cui scannarsi? -, le bottiglie di liquore che invadono il palcoscenico, parola dopo parola, non detto dopo non detto, spiegazione dopo spiegazione; e la presenza costante di Skipper (Riccardo Micheletti), che nel testo di Williams non compare al contrario mai, qui fantasma e servo di scena a muovere un affatto marginale gioco di specchi, a sfiorarsi e a guardarsi per un solo attimo con Brick ad ogni passaggio, presenza ingombrante ma duratura e inestricabile. È la tematica, la giusta motivazione attorno a cui ruota l’intera vicenda, che Brooks aveva nascosto e che Lidi intelligentemente qui ricompone.
Valentina Picello come Maggie tenta di rimanere ben salda nella sua passione e dentro un meccanismo di potere che la vuole allontanare, Giuliana Vigogna e Giordano Agrusta è la coppia di rapaci da cui guardarsi, Orietta Notari ancora una volta è attrice di rango, che sempre lascia il suo personale segno, agguerrita, incisiva, una Mamma fatta di piccoli quanto assai precisi momenti. Grande successo, repliche al Carignano sino a domenica 11 maggio.
Elio Rabbione
Le immagini di “La gatta sul tetto che scotta” di Tennessee Williams, regia di Leonardo Lidi, sono di Luigi Di Palma.
Leggi qui le ultime notizie: IL TORINESE