Incontro con Donald Hatch, attivista per i diritti degli indiani

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Incontro con Donald Hatch, figlio di Viola Hatch una delle più coraggiose e importanti leader dell’American Indian Movement degli anni 70, amica e compagna di lotte di Leonard Peltier, Russel Means, Dennis Banks, Carter Camp.
Donald Hatch, Arapaho, Healing and Freedom Movement
Sibilla Drisaldi, Healing and Freedom Movement
Naila Clerici, Associazione Soconas Incomindios
Boris Bellone, ANPPIA-Torino
Donald Hatch, un attivista per i diritti degli indiani americani appartenente alle tribù Arapaho e Cheyenne, ha messo in luce un aspetto spesso trascurato della storia americana: il genocidio degli indiani americani, iniziato con l’arrivo di Cristoforo Colombo. Secondo Hatch, circa 100 (cento!) milioni di nativi americani, che vivevano nelle terre che oggi conosciamo come Stati Uniti, furono annientati a partire dal 1492. Questo massacro, che ha portato alla perdita di culture e vite, è descritto da Hatch come un vero e proprio olocausto; egli sottolinea l’importanza di riconoscere e ricordare questa tragica parte della storia. La sua testimonianza ci invita a riflettere su come la storia sia, spesso, raccontata dai vincitori; chi ha perso, ne rimane escluso.
Gli indiani hanno perso e per molto tempo sono stati visti come “i cattivi”. La maggior parte della filmografia occidentale ha sempre descritto i “pellerossa” come un popolo primitivo, feroce e crudele; da allora ad oggi, questo stereotipo continua a dominare, con il risultato che molti aspetti della vita dei nativi americani, come la povertà, la disoccupazione e le ingiustizie storiche, tendono ancora a essere ignorati o sottovalutati, eccezion fatta per poche aree privilegiate. Per tale motivo, la lotta degli attivisti e dei leader comunitari continua, per portare alla luce pregiudizi e ingiustizie.
Negli Stati Uniti, il razzismo ha molte facce, e una delle più trascurate è quella che colpisce gli indiani nativi. Come ha sottolineato Donald Hatch questa forma di discriminazione è meno visibile rispetto a quella storicamente rivolta alla popolazione afroamericana, ma è altrettanto devastante e radicata nella società.
Uno degli aspetti più inquietanti di questa realtà è il fenomeno delle donne nativo-americane che scompaiono senza lasciare traccia. Quando i congiunti segnalano queste scomparse, spesso le forze dell’ordine non avviano neppure le ricerche. In molti casi, i corpi di queste donne vengono rinvenuti in discariche, abbandonati tra i rifiuti, e le istituzioni sembrano non avere alcun interesse nel risalire agli autori di questi omicidi. Il silenzio istituzionale alimenta un senso di impotenza e abbandono nelle comunità nativo-americane. Per fortuna, recentemente, è nato un movimento nazionale che si batte per dare visibilità a questo orrore e ci si augura che contribuisca a ridurlo, se non a sanarlo. Un’altra dimensione del razzismo che colpisce i giovani nativi è la frequente esclusione dalle scuole. Molti ragazzi indiani non vengono iscritti o sono costretti a lasciare gli studi, spesso perché portatori di uno stile di vita culturale che l’establishment non accetta. Il governo e le istituzioni educative sembrano preferire un melting pot che omogeneizza le diverse culture, piuttosto che celebrare e rispettare le identità uniche. Non c’è interesse nel comprendere il significato delle trecce, delle piume o della pelle di daino, simboli di un patrimonio storico ricco e profondo.
Questa forma di razzismo silenzioso non solo nega la dignità e i diritti degli indiani nativi, ma contribuisce anche a perpetuare un ciclo di violenza e invisibilità. Solo attraverso la consapevolezza e l’azione collettiva possiamo sperare di costruire un futuro migliore, in cui ogni vita, indipendentemente dalla sua origine, venga considerata preziosa.
Le politiche economiche e i tagli ai finanziamenti di Donald Trump hanno aggiunto ulteriori preoccupazioni, perché con questa significativa riduzione di supporti finanziari molti programmi vitali per la loro sopravvivenza saranno cancellati.
Già durante il primo mandato Trump, uno dei settori più colpiti è stato quello della salute. Sotto quella amministrazione, ci sono stati tentativi di ridurre i fondi destinati al Servizio Sanitario Indiano (IHS), l’agenzia responsabile della salute pubblica per le tribù. Questi tagli hanno avuto un impatto diretto sulla qualità delle cure disponibili per le comunità, che già lottano con tassi elevati di malattie croniche.
Inoltre, i programmi di assistenza economica e sociale, come quelli per l’istruzione e lo sviluppo economico, hanno subito riduzioni significative, e oggi sembra che, addirittura, verranno cancellati. Le più colpite sono state le scuole nelle riserve, che spesso ricevono finanziamenti federali, ed oggi non sono più in grado di garantire un’istruzione adeguata, con ricadute pesanti su apprendimento, crescita ed opportunità future.
Ma non dimentichiamo le politiche ambientali dell’amministrazione Trump tese a penalizzare le terre tribali. La deregolamentazione e l’apertura di terre per l’estrazione di risorse, sollevano ulteriori preoccupazioni tra le 500 tribù, che vedono queste azioni come una minaccia alla loro cultura e al loro modo di vivere. Le terre sacre e le risorse naturali sono fondamentali per molte comunità, che non riescono più a salvaguardarle e saranno obbligate a venderle a questo governo, per trasferirsi in un mondo che le emarginerà ulteriormente.
In risposta a questi tagli, molte tribù, già in passato, avevano cercato di mobilitarsi per sensibilizzare l’opinione pubblica e per chiedere un ripristino dei fondi. Purtroppo, il leader di queste contestazioni, Leonardo Peltier, venne subito arrestato ed è stato rilasciato solo recentemente, perché il presidente Joe Biden, in uno dei suoi ultimi atti di governo, gli ha commutato la pena in arresti domiciliari a vita. Peltier, ora ottantenne, ha trascorso in carcere 49 anni! Era stato arrestato il 26 giugno del 1975, con l’accusa di aver ucciso due agenti dell’FBI, dopo uno scontro a fuoco, mentre cercava di difendere la riserva indiana di Pine Ridge. Il processo a suo carico fu costellato di prove false e minacce ai testimoni. In questi anni, attivisti, politici, intellettuali e pensatori di tutto il mondo hanno chiesto, nel corso dei decenni, la grazia, rimanendo però inascoltati.
Al termine dell’intervista Donald Hatch ha ringraziato “Il Torinese” dicendo: “ Abbiamo ancora molte lotte e quando le persone ci ascoltano, ci sentiamo bene; quindi venire qui e parlare mi fa bene al cuore. Tornerò a casa mia e dirò che a Torino ci sono persone che ci ascoltano e vogliono sapere di noi, anche se gli Stati Uniti non vogliono che il mondo sappia cosa è successo e cosa sta succedendo. Però, il mondo sa che non può nascondere il genocidio; noi siamo ancora qui e saremo sempre qui. Loro devono andarsene!”.
FRANCESCO VALENTE

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