Grande mostra a Palazzo Reale di Milano, sino al 29 giugno
“Scoprire la più durabile essenza del mondo, scavare nel fondo, trovare il numero, la misura, il peso: numerus, mensura, pondus.” La bellezza e la perfezione della tradizione classica, la convinzione ciceroniana che “di tutte le cose, nulla è migliore e più bello del cosmo”, la visione estetica che vuole abbracciare il mondo intero attraverso la elaborazione di “numerose categorie”, come ricordava Eco sul finire del millennio scorso, molte e differenti, “espressioni non coordinate e impiegate sempre a definire sia la bontà sia la bellezza delle cose.” Sono, quelle, parole di Felice Casorati, parole e pensiero siglati nel 1949, il termine di un fantastico percorso che vede l’artista protagonista della mostra che – semplicemente – da lui prende il titolo, a Palazzo Reale di Milano (è un ritorno nel medesimo luogo dell’antologica di trentacinque anni fa) sino al 29 giugno, a cura di Giorgina Bertolino, Fernando Mazzocca e Francesco Poli: percorso che ne sottolinea la poetica in una selezione di capolavori conosciutissimi e altri da troppi anni rimasti nascosti, gli esempi della grafica e della scultura e della scenografia (quella inventata per il teatro di casa Gualino nella torinese via Galliari), i rapporti con le Avanguardie e le vicinanze con i panorami simbolistici, i contatti – che è bello ricercare e toccare con mano in certe opere – con la produzione di Klimt e la scuola viennese e di Cézanne, gli influssi della metodica pittura del nord della vecchia Europa. Il Casorati che è vicino al Realismo magico e vicinissimo alla tradizione figurativa del Trecento e del Quattrocento, attingendo ai volti ai momenti agli incanti ai rimandi verso i nomi illustri che più ha amato e più ha frequentato, mettendo su tela e su altri materiali non soltanto i corpi che ne fanno un gran ricercatore di femminilità – una femminilità a tratti spenta e dolorosa, pensosa e sospesa in un gesto, allineata a confronto o solitaria, muta e spoglia, disperata con quell’attimo, che si fa simbolo, della mano poggiata sul capo, anche sognatrice in un frammento di tranquillità – ma anche e soprattutto le psicologie, gli stati d’animo, gli abbandoni e la quotidianità, delle conversazioni o dei ritrovi attorno a un tavolo per una semplice colazione, tenuta pur sempre ad un livello altissimo. Per cui balza all’attenzione quell’unico esempio maschile, “Narciso”, presentato per la prima volta alla XXIII Biennale d’Arte veneziana del 1941, dalla “magra e vulnerabile nudità”, a ricordare l’antica tragedia, ambientato in uno spoglio ambiente, lui lo sguardo rivolto verso il basso su una superficie specchiante, le due ragazze dimessamente vestite, in abiti dai morti colori eguali, dai gesti precisi a indicare anche qui la loro personale disperazione, frutti di un vasto repertorio pittorico (“Narciso” avrebbe suggerito il nome per la Galleria d’arte, con sguardo su piazza Carlo Felice, ancora Torino, inaugurata nel 1960 dai Pinottini).
Quattordici stazioni, che s’intrecciano inevitabilmente con la vita del pittore e che seguono, spiegano i curatori, “la cronologia e il filo rosso dei temi pittorici – le allegorie, le maschere, le conversazioni, la malinconia” per snodarsi “tra i momenti salienti della carriera, attraverso gli ambienti che ha frequentato”, un viaggio che prende i primi passi dal “Ritratto” della sorella Elvira, con cui Casorati fu ammesso alla Biennale veneziana del 1909, appena ventiquattrenne, per terminare – “un modo per sottolineare l’importante ruolo che Milano, le sue mostre, le istituzioni culturali e le sue gallerie hanno svolto nella vita di Felice Casorati” – con un gruppo di bozzetti che testimoniano una collaborazione con il Teatro alla Scala, collaborazione iniziata nel 1942 con i bozzetti scenici e i figurini per “La donna serpente” di Alfredo Casella per arrivare ad una decina d’anni dopo, attraverso “La folla d’Orlando” di Petrassi e “Le Baccanti” di Ghedini (1948), il “Fidelio” di Beethoven e “L’amore stregone” di De Falla, dove reinventa “pittoreschi quadri scenici e vivaci costumi spagnoleggianti per i danzatori gitani.” Del 1951è “Il principe di legno”, con le musiche di Béla Bartòk e le coreografie di Aurelio Miloss.
Ben stabile nelle proprie idee, nella personale concezione artistica, lontano dai venti del Futurismo che agitavano i primi anni del Novecento, pronto a ribattere quelle accuse di inattualità e di freddezza che gli piovevano addosso dai tanti detrattori com’era pronto a rivendicare quella “armoniosa corrispondenza tra forme geometriche, tra pieni e vuoti, composizioni di forme immobili immerse in un’atmosfera rarefatta, glaciale, fatta di incantati silenzi, una pittura in bilico tra pitagorismo e platonismo, tra il mondo del numero e quello della Idea, tra l’eternità e la geometria.” Non certo un solitario, né tantomeno un isolato, un punto di riferimento semmai, per seguaci e amici e allievi, un uomo per cui Massimo Mila coniò precisissime parole, affermando che Casorati era venuto a pulire l’aria “dalla retorica carducciana, dall’estetismo dannunziano e dalla malinconia gozzaniana”, come ricorda Domenico Piraina, Direttore Cultura e Direttore di Palazzo Reale.
Attingendo in principal modo dalla GAM torinese e di Roma come dall’Archivio Casorati, da Ca’ Pesaro e dal Mart e da collezioni private, dai musei di Genova e Verona, l’itinerario casoratiano – che tocca altresì le tante città abitate a causa degli spostamenti del padre Francesco, ufficiale del Corpo d’Amministrazione, e poi il definitivo studio torinese di via Mazzini e il rifugio di Pavarolo, nella tranquillità di quelle colline su cui guarda la finestra che inquadra la sposa (dal 1931) Daphne Maugham nel suo abito blu – si snoda nei suoi esordi tra “Le vecchie”, lodato dalla critica per lo studio approfondito e la ricerca psicologica su quegli antichi volti pieni di rughe, il chiaro rimando alla “Parabola dei ciechi” di Brueghel il Vecchio di Capodimonte (“ora dipingo delle povere vecchie, con i loro scialli sbiaditi e il fardello dei loro dolori, dei loro ricordi”) e acquistato dal Governo per la GAM romana, tra “Persone” e “Le signorine” (1912), dipinto nel nuovo domicilio veronese, gli alberi di piazza Bra sullo sfondo e un chiaro richiamo alla “Primavera” botticelliana, un aria di simbolismo che circola tra le quattro figure femminili, allegoricamente intese a raffigurare la tristezza e la timidezza, la verginità e l’allegria, adagiate su un tappeto pieno d’oggetti, diversissimi tra loro, una sorta di natura morta a richiamare un’antica “vanitas”. È con il finire degli anni Dieci e con l’inizio degli anni Venti che Casorati fissa quella cifra stilistica che lo identificherà presso la critica come presso un vasto pubblico, è l’epoca delle grandi tempere, una serie di ritratti e di capolavori, tra tutti la “spettrale” “Teresa Madinelli Veronesi”, chiusa signorilmente contro l’ombra grigia del divano, con l’incombenza delle mattonelle chiaroscure del pavimento, in un ambiente dove tutto è sospensione e geometrie, “L’attesa” (1919) e “Colazione” (1919-1920), tavoli apparecchiati in un tripudio di scodelle verdi e blu e bianche, smaltate e povere, di fronte a donne che abitano nei loro silenzi più uno spazio mentale che fisico, astrattamente realistiche, in “angosciosa attesa”, anticipando quel male di vivere e quella incomunicabilità covata nel più assoluto pessimismo che altri, nei decenni successivi, andranno a scavare
E poi “Le uova sul cassettone” – che fecero la felicità di Piero Gobetti e di Lionello Venturi, “la forma amata come tale”, Piero della Francesca con la pala di Brera e Cézanne all’orizzonte (lo ritroveremo più in là, nella “Ragazza distesa (con la gonna a quadri)”, se ne ricordò anche Pier Luigi Pizzi per la scenografia del “Gioco delle parti” pirandelliano messo in scena da De Lullo nel ’63, l’anno della morte del pittore – e i limoni e le mele di un verde intenso screziate di rosso, e quel punto inarrivabile d’arte che è “Silvana Cenni”, nome fantastico e immaginario – s’è ipotizzato che il personaggio ritratto sia la pittrice Nella Marchesini, allieva di Casorati e frequentatrice dello studio negli anni ’20 -, un omaggio novecentesco alla grandezza di Piero e del suo “Polittico della Misericordia” di Sansepolcro, donna e divinità, “donna fantasma” ieraticamente intesa, poggiata a quello sfondo che potrebbero essere i collinari Cappuccini. E, nell’attraversare le sale, tra lampi di bellezza, le maschere e le armature, i rapporti con i Gualino e i tre ritratti familiari allineati l’uno a fianco all’altro (bellissimo il giovane Renato, poco più che decenne, pettinatura alla paggio, contro i tendaggi di un rosa acceso, mentre a lato s’apre uno spiraglio abitato che ancora rimanda alla pittura del maestro di Borgo Sanseplocro), il ritratto di “Raja” (1924-25, un ampio drappo decorato a proteggere la ballerina tra una prova e l’altra mentre un’allieva alle sue spalle ha sparso sulla dormeuse verde fogli e quaderni d’appunti) e “L’annunciazione” del ’27, le Conversazioni platoniche e La Primavera della Pittura, che dà spazio al rinnovamento della pittura di Casorati, in cui “le figure appaiono immerse in un luminoso tonalismo atmosferico, che non ha però nulla di naturalistico”, come dimostra “Ragazze a Nervi” (1930), quadro che è figure femminili e marina e natura morta (imperturbabili le uova e il limone) e ancora dialogo silenzioso, di sguardi e di parole non dette; le Figure melanconiche, nella metà degli anni Trenta, la picassiana “Donna con manto“ e la “Donna davanti alla tavola” (una ragazza a petto nudo, un segno ancora di infelicità, alle sue spalle un martello catini bottiglie, poveri oggetti di casa), i Capolavori degli anni Trenta (tra tutti, “Le sorelle Pontorno” del 1938), le nature morte degli anni del dopoguerra, che sono sguardi al metafisico, tra elmi e manichini, tra frammenti statuari, tra astrolabi e uova ancora, ogni frammento a far grande e irrinunciabile l’arte dell’artista.
Elio Rabbione
Nelle immagini, “Le uova sul cassettone”, 1920, tempera grassa su tavola, coll privata, Torino; “Silvana Cenni”, 1922, olio su tavola, coll privata; “Raja”, 1924-1925, tempera su tavola, coll privata; “Annunciazione”, 1927, olio su tavola, coll privata (ph Giuseppe e Luciano Malcangi); “Ritratto di Renato Gualino”, 1923-1924, olio su tavola, Viareggio, Istituto Matteucci.