Chi non ricorda questa frase che Totò, il Principe della risata, ripeteva spesso ai suoi interlocutori?
Quante volte abbiamo usato (anche abbinato al confidenziale “tu”) questa frase per comunicare all’interlocutore che stava dicendo un’eresia, esprimendo un concetto totalmente errato, sostenendo una tesi confutabile da chiunque.
Fino ad un paio di decenni orsono la litigiosità nel nostro Paeseera limitata alle liti tra confinanti, alle dispute tra sindacalisti e padroni e, in casi semi-romantici, alle diatribe tra suoceri e futuri generi.
La convinzione di essere meglio di altri (non mi stancherò mai di citare il Marchese del Grillo: “Io sono io e voi non siete un c…”) ha portato la nostra società a separare gli eletti dai reietti più di quanto Manzoni non abbia saputo esprimere, a distinguere i cittadini di serie A da quelli di serie B (o inferiore) e a dirimere ogni questione inerente differenze di vedute con la forza fisica, con il ricordo ad azioni legali e con il famoso “lei non sa chi sono io”, e quasi sempre non si perde nulla a non saperlo.
I social sono la dimostrazione che spesso si perdono ottime occasioni per fare bella figura commentando fatti cui non abbiamo assistito, scelte politiche delle quali non conosciamo i presupposti, materie delle quali ignoriamo anche gli elementi basilari. Un tempo, quando le discussioni avvenivano al bar, nelle piole, era sufficiente togliere il vino per spegnere i commenti.
Ora, in un’epoca in cui nel giro di cinque minuti pensi di aver assimilato le nozioni importanti di quasi tutte le materie (dalla sismologia all’ecologia, dalla medicina all’architettura) è evidente che anche le discussioni assumono mille sfaccettature, per alcuni aspetti comiche, per altri deludenti.
Come ebbi modo di scrivere anni addietro, la sindrome di Dunning-Kruger è sempre in agguato; chi non conosce una materia si sente esperto nella medesima, chi la conosce bene sente di avere alcune lacune.
Ecco, dunque, che molti si sentono autorizzati a dispensare informazioni, a pontificare su questo o quell’argomento e difendono con veemenza la loro (falsa) convinzione.
Così abbiamo disoccupati che diventano coach in grado di farti rinascere, studentesse che con un massaggio ti fanno passare anche i dolori che non sapevi di avere, e così via, tutti convinti davvero di valere, di essere “qualcuno”, il più delle volte unicamente per il dio denaro.
Personalmente credo che tutti noi siamo qualcuno e, facendo le debite eccezioni, tutti abbiamo qualcosa di particolare; non dico sia qualcosa di cui vantarci ma di sicuro qualcosa che altri non hanno o posseggono in misura minore.
Quello che sicuramente infastidisce tutti è l’ostentazione di meriti autoreferenziali, di nozioni di dubbia provenienza tra quanti, fino al giorno prima, faticavano a distinguere un’automobile da un telefono.
Se è fastidioso quando riguarda il pinco pallino qualsiasi, quando proviene da un professionista della materia può sortire effetti anche peggiori.
La pandemia ci ha fornito esempi illustri; professionisti della comunicazione che, prima di ogni evidenza scientifica e senza alcuna sperimentazione, sapevano dire tutto ed il contrario di tutto su evoluzione del virus, assenza di effetti collaterali dei vaccini, diagnosi, prognosi e terapie più efficaci.
Esprimere un parere è legittimo, fornire informazione è doveroso, illudere o ingannare il pubblico è esecrabile.
Sicuramente, la modestia e l’umiltà, sarebbero gli ingredienti migliori per dirimere tante questioni e per coniugare, in modo proficuo, curiosità, autorevolezza, diritto all’informazione e diritto al dissenso.
Questa due doti, però, non rendono famosi, non ci rendono appetibili nelle comparsate in TV e, dunque, non arricchiscono il patrimonio: ecco perché sono tenute sotto il tappeto.
Sergio Motta
Leggi qui le ultime notizie: IL TORINESE