“Diamanti” sugli schermi
PIANETA CINEMA a cura di Elio Rabbione
George Cukor le aveva chiamate semplicemente “Donne”, Ferzan Özpetek le definisce “Diamanti”, che sullo schermo è la sua opera numero quindici, da quel “Bagno turco” del ’97, volutamente tralasciando spot e piattaforme e prove teatrali “ricavate da” e serie di questi ultimi anni. Uno sguardo tutto al femminile oggi, diciotto attrici chiamate a raccolta tra quante già hanno lavorato con lui e reclutandone altre colte tra le più convincenti, a vario titolo, nel panorama delle ultimissime stagioni. Donne/attrici con le loro felicità e le insicurezze, i drammi e la coralità necessaria ad andare avanti, a superare le asprezze di una vita che ti ha legato ad un uomo o che non ha mai fatto a tempo a legarti, gli sguardi e gli atteggiamenti aspri che nascondono verità inconfessate. Con un espediente che finirà con lo sbilanciare la linearità del racconto, intralciandolo in sovrapposizioni fin troppo chiare dentro un linguaggio cinematografico, Özpetek le raccoglie in un grande terrazzo – di casa sua? la cucina accogliente l’avevamo già conosciuta con i personaggi perfetti di “Saturno contro”, esempio di quel cinema ozpetekiano che con “Le fate ignorante” e “La finestra di fronte” abbiamo preferito e ha incontrato stagioni ben più profonde -, inizia a spiegare per brevi parole, di mano in mano passano sinossi che diverranno sceneggiature vere e proprie, i personaggi prendono forma a poco a poco. Al centro di “Diamanti”, in un passaggio del tempo che dall’oggi riporta a metà degli anni Settanta dove basta accendere una sera un vecchio televisore per rivedere “Milleluci”, stanno Alberta (Luisa Ranieri) e Gabriella (Jasmine Trinca) Canova, due sorelle che hanno dato vita a una delle sartorie della capitale più prestigiose (angelo del focolare che nella cucina a tutto sovrintende la Giuseppina di Mara Venier, un passato di ballerina), in cui prendono vita con incanto e fatica i costumi che andranno a inorgoglire questo o quel film – nel ricordo del regista la sartoria Tirelli, dove lui arrivato fresco fresco a Roma cominciò a muovere cinematograficamente i primi passi: memorie, s’intravedono l’abito della Mangano in “Morte a Venezia” o della Schneider per “Ludwig” -, l’una tirannica, dura e scostante, una sorta di Miranda Priestly che annienta con comandi e sferzanti battute (“vuoi fare la costumista e non sai chi è Piero Tosi?”, silurerà una giovanissima piombata nel suo regno con velleità del posto più alto del podio, rimandandola su due piedi a mettere ordine nelle stoffe, tra cui si passano giornate interminabili, scampoli e bottoni e nastri, dove si cerca il colore esatto di questa o quella stoffa), un amore non vissuto alle spalle e una “protezione” nei confronti della sorella, per anni a rifiutare un rapporto pieno di contrasti, velato e taciuto fatto di azioni mai buttate alle spalle. Meglio scritto il personaggio di quest’ultima, con Trinca in stato di grazia, mentre tende a fossilizzarsi nella propria durezza in più scene l’Alberta di Ranieri, dove la corsa all’indipendenza si sarebbe dovuta costruire dando minor spazio a certI dialoghi e a certi comportamenti che sanno di luoghi comuni. Quando si tratterà di preparare i costumi di un film importante (“Diamanti” è necessariamente un film di scene e costumi, di Deniz Göktürk Kobanbay e Stefano Cammitti, bellissimi per quanto sanno di vita e di lavoro), di cui il regista Stefano Accorsi non si mostrerà mai soddisfatto salvo il risultato finale che è una splendida sorpresa, ecco l’irruzione della costumista Bianca Vega – una Vanessa Scalera che se volessimo estrarre la palma della vittoria andrebbe sicuramente a lei, i giurati di David e Donatello prossimi se ne dovranno ricordare -, forte e sicura in un primo momento nel suo modo d’avvicinarsi a quelle sue costruzioni che prendono vita anche con particolari insignificanti (le carte rosse che avvolgono le caramelle), avvilita quando il regista gliele negherà e pronta a mettere in discussione una ricerca e un’intelligenza. Le sarte in un simile universo debbono avere il loro giusto spazio soprattutto, all’insegna della certezza secondo cui “ognuna di noi non è niente ma insieme siamo una forza”: c’è Milena Mancini che deve subire le violenze di un marito (Vinicio Marchioni) che pare il gemello di Mastandrea nel “C’è ancora domani” targato Cortellesi, c’è la sempre più brava Paola Minaccioni con problemi in casa per un figlio che s’è rinchiuso nella sua stanza e non vuol più uscirne, c’è Anna Ferzetti con problemi di soldi a tirar su da sola il suo ragazzino, c’è Geppi Cucciari con qualche massima messa in bocca a forza e di troppo comodo, con qualche approccio un po’ più dappresso con i giovanotti che dentro o da fuori frequentano la sartoria, ma che non riesce a ritagliarsi nella sceneggiatura (che il regista ha scritto con Elisa Casseri e Carlotta Corradi) una storia tutta sua che meriti qualche respiro in più, ci sono Carla Signoris e Kasia Smutniak che giocano a fare le attrici di teatro e di cinema, impareggiabile nella polvere del palcoscenico la prima a preparare un Cechov per la prossima stagione. Un film che sa di mélo, carezzato da un mare di musiche con le gemme di Mina e di Giorgia, d’attrici soprattutto è “Diamanti”, e di una recitazione di gran valore da gustare guardando lo schermo, tanti ritratti che Özpeteck ha inventato, sempre con innegabile sentimento e la conferma di gran reggitore di marionette, glielo dobbiamo riconoscere, a cui regala un’anima, e spazi e tempi più o meno precisi (anche Sara Bosi o Nicole Grimaudo sono “troppo comparse”), forse non sempre definendo appieno le tele ma lasciando – forse l’occasione per una prossima serie? – alcuni contorni imprecisati, sfocati, là dove vengono a mancare certe luci che aiuterebbero a comprendere e a ispessire esistenze. Forse siamo troppo severi nel rimpiangere le storie di un tempo ma la prima sensazione è quella, anche se siamo più che disposti, costretti, a riconoscere quanto lo sguardo al Femminile da parte del regista rimanga unico. Non soltanto i sentimenti, ma la forza, la decisione a combattere, lo sguardo protettivo, tutta la partecipazione. È la sua visione, il suo modo di fare il cinema, di costruirlo con l’occhio dell’altra metà del cielo: nelle parole finali di Elena Sofia Ricci stanno momenti di riflessione che abbracciano un’arte e una storia questa volta dedicate “a Mariangela Melato, a Virna Lisi e a Monica Vitti, tre donne straordinarie con cui avrei voluto lavorare”.
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