Dini ancora una volta indaga la donna e la famiglia

I parenti terribili” di Cocteau sino a domenica 24 al Carignano

Filippo Dini, passando dal ruolo di regista residente, ricoperto sino alla scorsa stagione all’interno dello Stabile di Torino – Teatro Nazionale, a quello di direttore artistico del Teatro Stabile Veneto – Teatro Nazionale, s’è portato dietro un personale progetto già ripensato qualche anno fa, proprio nel capoluogo piemontese, e ha messo in scena “I parenti terribili” di Jean Cocteau, nella traduzione di Monica Capuani, testo concepito all’indomani della fresca unione con Jean Marais (1938) e rappresentato quattro anni dopo, in pieno conflitto, agli Ambassadeurs parigini con la regia di Alice Cocéa. Stimolante tappa, per Dini, la commedia, considerata “la più perfetta opera teatrale” dell’autore – con cui questi “rompe, almeno formalmente, col teatro di raffinata e astratta acrobazia intellettuale, che sino allora aveva avuto in lui uno dei più fertili campioni, per accostarsi ad un tipo di teatro molto più tradizionale” -, stimolante dal momento che, dopo gli appuntamenti con “Casa di bambola” e “Agosto a Otage County”, entra a formare una intrigante (per il regista e per il pubblico) trilogia, offerta a personale dimostrazione dei segni di logoramento del nucleo familiare dei giorni nostri nonché un più variegato specchio nei confronti della figura femminile. Nel primo titolo, Dini si trovava a voler ridipingere la figura donna-moglie mentre in quello successivo era di fronte alla donna-figlia, annientata come il resto degli altri congiunti dalla dominante Violet; la commedia di Cocteau, accusata a suo tempo di immoralità per quei frammenti incestuosi che vi circolano, gli permette di scoprire il ruolo della donna-madre: forse non arrestandosi neppure qui nella ricerca di ampliare il proprio quadro d’esplorazione.

In questo spaccato di famiglia borghese, avvelenato sino al midollo e fatto a pezzi in un incessante quanto imprevedibile susseguirsi di scene, Yvonne, malata di incubi e di droghe, è la madre che dal momento in cui ha partorito il proprio figlio, Michel, lo ha ricoperto di un amore che con troppa facilità è sceso nel morboso, Georges è il marito che da quella stessa nascita s’è visto precluso ogni gesto di interesse e di affetto all’interno della coppia, mentre zia Léonie – sorella di Yvonne – ha per anni cresciuto il proprio amore per Georges e ancora lo accresce, lasciando tuttavia quell’uomo alla sorella, lei che da tempo ha deciso di annullarsi in quella stessa casa, tentando di sistemare quel “carrozzone” in modo che sia possibile viverci. Nel tentativo di una fuga giovanile (“dove ha dormito stanotte Michel?”), viene a formarsi una giovane coppia tra Michel e Madeleine, fatta di un amore fresco e senza limiti, sorpresa in un turbine inatteso dove il vecchio signore che prima occupava i pensieri della ragazza altri non era che Georges. Si romperanno i rapporti di sempre e il mare di bugie (quante se ne dicono sotto quel tetto) e gli equilibri insani, anche violentemente, al di là di una volontà a rimettere ordine, là dove restano soltanto indumenti sporchi e buttati alla rinfusa, lenzuola ammucchiate e letti sfatti.

Tutto in un’atmosfera di drammaticità pronta a sfociare nel tragico e mi suonerebbe strano che l’autore non volesse circondare strettamente la vicenda entro questi termini. Andando con la memoria ad altre edizioni dei “Parenti”, non mi pare che si cercasse sfacciatamente l’angolo del ridicolo. È vero, Georges specialmente si dibatte in situazioni che ne mettono alla luce, come un nervo scoperto, la comicità, decisamente di sbieco ma pur sempre comicità, e il lungo dialogo con Léonie, seduti quasi in proscenio a rimandarsi tutto il buffo di una situazione per cui si dovrà escogitare una scappatoia, spinge al sorriso e alla risata. Ma che qualcuno pronunci all’interno della narrazione la parola “farsa” non vuol dire che gran parte della commedia in “farsa” debba essere girata. Mancano a Dini, di cui nello spettacolo continuiamo a prediligere di gran lunga le zone oscure e più dolorose e maggiormente mantenute nella tragicità (eccezion fatta per quell’incubo iniziale di cui non s’avverte assolutamente la necessità), le mezze tinte, il fondersi esatto di un’ombra all’interno di una zona di luce, cancellando ogni taglio netto. Una “tutta luce“ che altresì, mi è parso di capire, cancella pure quel tanto di “recitazione” che vi era e vi sarà in Georges (lo stesso Dini) e Léonie (Milvia Marigliano, colei che con saggezza cerca d’aggiustare i cocci, eccellente), che trascorrono quell’”angolo” della commedia a “dire” esclusivamente le proprie battute.

Perno della commedia Mariangela Granelli come Yvonne, bravissima, sulla giusta linea di acidità e perbenismo e amour fou per quel suo Michel in cui Cosimo Grilli costruisce un frastagliato personaggio, fatto di passione e di felicità e di dolore, prova non semplice in quell’andamento ondivago ma più che felicemente superata. Giulia Briata è Madeleine, con convinzione a combattere contro i peccati di una famiglia che non vorrebbe altro che distruzione e macerie. La scena funzionale e immacolata è di Maria Spazzi, i costumi pieni di colore di Katarina Vukcevic.

Elio Rabbione

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