La lezione di Olmi tra le montagne del Trentino

Da Venezia sugli schermi “Vermiglio” di Maura Delpero

PIANETA CINEMA a cura di Elio Rabbione

Il risveglio nella grande stanza piena di letti dove ci si dorme in due, in tre; il secchio del latte riempito dalla mungitura della vacca, là nella stalla; il padre, un vecchio maestro, che ama Chopin e Vivaldi e che mette i suoi piccoli (e grandi) allievi dinanzi alle suggestioni della parola e della poesia, forte come una torre di difesa e da sempre ancorato a una educazione che non ammette repliche, una madre che ha messo al mondo una decina di figli, quelle rimasti e quelli che ha dovuto seppellire, ogni giorno ad affannarsi nella cucina per non far mancare nulla a quelle bocche, la zia sentenziosa, anche un giovane disertore di quell’ultimo anno della guerra del ’40, che qualcuno in paese tratta da vigliacco ma che in quella famiglia ha trovato rifugio e protezione, lui lontanissimo da quella sua Sicilia che dal nordico Trentino, dallo sperduto paese di Vermiglio, si distanzia di parecchie spanne: tutti attorno al tavolo, un pezzo di pane e una scodella di quel latte caldo. Fuori il bianco della neve e la sua faticosa compattezza (ma ci sarà lungo l’arco della vicenda l’avvicendarsi delle stagioni) e le montagne alte, sovrastanti tutti e tutto, protettive ma anche separazione dal resto dell’umanità, in mezzo alle quali la guerra con gli eccidi e le bombe e le battaglie appare tranquillamente lontana. Ma sempre la grande Storia a raccogliere le piccole storie, di ogni giorno e di ogni anno.

Maura Delpero, nata a Bolzano, pressoché cinquantenne, se n’è andata alla Mostra di Venezia circondata da nomi d’autori altisonanti e dal macigno delle grandi produzioni e se ne è tornata con il Leone d’Argento Gran premio della Giuria. Cinque anni fa, dopo un passato di corto e mediometraggi, il primo importante successo con il premiatissimo “Maternal” a Locarno, selezionato in seguito per un centinaio di festival, carico di riconoscimenti, acquistato al di qua come al di là dell’Atlantico. Oggi con “Vermiglio” continua il proprio cammino guardando principalmente alla figura della donna, alla maternità e alla sessualità, alle rivoluzioni che coltiva e che le stanno intorno, ai sensi colpa che in qualche caso la devastano, ai tradimenti subiti. Un cammino condotto con grande grazia, con pacatezza, con una ricchezza di soffici particolari come raramente s’incrociano sullo schermo, in un racconto che non mostra mai attimi di stanchezza, guardando al passato con occhio critico ma anche facendo inevitabilmente sua la quotidianità del presente, in un panorama cinematografico che ha nel cinema di Ermanno Olmi il proprio sicuro punto d’attracco e la sua indimenticabile lezione. Delpero costruisce momenti che possono nascere quasi dal nulla ma che hanno in sé una invidiabile robustezza, regala la bellezza dell’ambientazione del fuori e dell’interno, riempie le immagini di luci e di ombre anche grazie all’ottima fotografia di Michail Kričman, di oggetti, di facce che restano nella memoria, di innocenti complicità, di ribellioni verso l’autorità dei padri e verso le filosofie antiche, di fatica e di sentimenti, di situazioni d’affetto e di egoismi (la moglie, che ha nuovamente partorito, rinfaccia al suo uomo di non averle mai offerto un mazzo di fiori al termine delle tante gravidanze, mentre lui è pronto a rimproverare il figlio maggiore d’aver “rubato” dal cortile dei vicini quei fiori per portarli a sua madre).

All’interno della forza e della musicalità del dialetto – e non poteva essere diversamente -, in quello che Delpero ha definito “un paesaggio dell’anima, un ‘lessico famigliare’ – momenti fatti di un presente che coltiva felicità momentanee (l’incontro tra il ragazzo di Sicilia e la maggiore delle figlie del maestro, la stretta di mano e i bigliettini con il cuore disegnato, la promessa e il matrimonio e la festa di nozze sul grande prato) e di dolore (il ritorno di lui a guerra finita e la scoperta di come sia già sposato); di futuro, con la più piccola delle sorelle che potrà felicemente continuare gli studi; mentre l’altra sceglierà la strada del convento, nella volontà di cancellare quegli istinti e quel peccato che da sempre la inseguono. Emozioni nette, precise, ben delineate, uno sguardo, una confessione, un sorriso e una lacrima, tutto disseminato in un racconto che lascia conoscere e apprezzare senza mezzi termini una autentica autrice. Sempre coadiuvata da un manipolo di interpreti eccellenti, la maggior parte visi sconosciuti al grande pubblico, ma da tenere a mente: non il granitico Tommaso Ragno e Orietta Notari, che piace sempre di più ritrovare sullo schermo al di là dei palcoscenici teatrali, ma le efficaci sorprese che sono Martina Scrinzi (la sposa abbandonata) e Roberta Rovelli e Anna Thaler e Rachele Potrich. Una autentico successo, che a Torino un unico esercente cinematografico sta ospitando in una delle proprie sale: a significare che per l’occasione il coraggio è davvero mancato.

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