Torino e i suoi teatri. Dal Rinascimento ai giorni nostri

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Torino e i suoi teatri

1 Storia del Teatro: il mondo antico
2 Storia del Teatro: il Medioevo e i teatri itineranti
3 Storia del Teatro: dal Rinascimento ai giorni nostri
4 I teatri torinesi: Teatro Gobetti
5 I teatri torinesi :Teatro Carignano
6 I teatri torinesi :Teatro Colosseo
7 I teatri torinesi :Teatro Alfieri
8 I teatri torinesi :Teatro Macario
9 Il fascino dell’Opera lirica
10 Il Teatro Regio.

Storia del Teatro: dal Rinascimento ai giorni nostri

Cari lettori, eccoci arrivati alla conclusione di questa brevissima storia del teatro. Quello che tenterò di fare, con la medesima disposizione d’animo che ho mantenuto fino ad ora, è di raccontare nel pezzo di oggi ciò che avviene dall’epoca rinascimentale al Novecento; nello scritto che – spero -vi apprestate a leggere sfiorerò il teatro erudito, accennerò al teatro elisabettiano, poi al melodramma, fino ad arrivare a D’Annunzio per poi concludere con autori decisamente recenti come Ronconi. Mi auguro di guidarvi il più chiaramente possibile in questo dedalo di informazioni, nomi, titolazioni ed avvenimenti, affinché sia possibile arrivare con una certa prontezza alle prossime letture, specifiche della storia dei teatri torinesi.

Ora, come si suol dire, “bando alle ciance!”, il discorso è lungo e complesso, sarà meglio iniziare. L’età d’oro per il teatro moderno è senza dubbio il Rinascimento, termine con cui si intende un “rinascere” dell’uomo, del suo impegno sociale e culturale, nozione riferibile a tutta la civiltà italiana dei secoli XV e XVI. Nel più generale contesto della “rinascita del mondo antico”, il teatro viene riscoperto nella sua globalità, e ne vengono presi in considerazione l’aspetto letterario, architettonico, scenografico e scenico.
Per quel che riguarda l’ambito letterario, i dotti si interessano alla riscoperta, alla pubblicazione e all’imitazione delle opere degli antichi: a tal proposito ricordiamo gli studi di Lovato Lovati (1241-1309) e Nicolò di Trevert ( 1259-1329) su Seneca tragico e l’impegno di Nicolò da Cusa che nel 1425 porta alla luce nove commedie di Plauto (il grande autore latino del II secolo a.C., di cui ci sono giunte ventuno commedie). Analogamente si assiste alla ricostruzione dell’antico edificio teatrale, sulla base dell’esame archeologico dei resti monumentali. In questo contesto è doveroso ricordare Leon Battista Alberti, impegnato non solo nell’empirica ricerca archeologica, ma anche nell’analisi serrata del trattato latino “De architectura”, scritto nel 15 a.C. da Marco Vitruvio Pollione, il cui quarto libro è quasi interamente dedicato all’edificazione dei teatri. Alberti propone uno schema teatrale assai preciso nel suo “De re aedificatoria”, (“Sull’edilizia”), ove sostiene che la struttura teatrale necessita di una gradinata (cavea), conclusa da una loggia aperta interiormente e chiusa dietro, di un palcoscenico e di un’area mediana (orchestra), attorno alla quale si organizzano gli altri elementi. Nel XVI secolo si va delineando una trattatistica dedicata all’analisi degli scritti di Aristotele, in particolar modo della “Poetica”, testo in cui viene esaminata la struttura della tragedia. Proprio grazie a questi studi viene normata, in Italia e in Francia, una produzione drammaturgica basata sull’uso delle tre unità aristoteliche di tempo, luogo, azione. I personaggi sono tutti coinvolti in un unico problema e agiscono all’interno di un solo ambiente per un periodo di tempo fittizio che non supera le ventiquattro ore. In seguito, però, la struttura e i personaggi mutano, come accade ne “La mandragola” di Niccolò Machiavelli, considerata il capolavoro del Cinquecento. Siamo ormai di fronte alla “commedia erudita” o “regolare”, come per esempio “La Cassaria”, scritta nel 1508 da Ludovico Ariosto. Proprio in coincidenza della rappresentazione di tale commedia si hanno le prime notizie dell’innovativa forma di allestimento tipica del Rinascimento, ossia la scenografia prospettica.

Il Seicento è invece il secolo del melodramma, forma scenica particolarmente apprezzata negli ambienti aristocratici e di corte, che dall’Italia si diffonde in tutt’Europa. In questo periodo attori, cantanti, scenografi e autori sono la componente fondamentale delle feste, soprattutto in Austria e in Germania. Da elemento complementare e secondario, gli intermezzi diventano il vero momento centrale dello spettacolo, l’azione scenica non è più subordinata alle parole, al contrario tutto è giocato sulla visione di un movimento sempre più grandioso e complesso. Il melodramma moderno nasce dalla volontà di un gruppo di dotti fiorentini raccolti nella Camera dei Bardi, desiderosi di recuperare nella loro integrità le forme della tragedia greca, il cui testo si riteneva venisse interamente cantato. Tipici elementi del melodramma cortigiano sono il frequente cambio di scena, che può addirittura diventare frenetico sul finale della rappresentazione, e l’impiego di meccanismi con lo scopo di suscitare meraviglia e ammirazione nel pubblico, per i trucchi che vengono eseguiti sul palco. Sarà tuttavia nel secolo seguente che la scenografia a tema architettonico toccherà il suo culmine, in particolare grazie all’opera della famiglia Galli Bibiena. Rimaniamo ancora al Seicento, di cui tipiche sono le “masques”, spettacoli diffusi principalmente in Inghilterra, incentrati sul personaggio del monarca che trionfa, si tratta di allegorie in cui il Bene, il Bello ed il Buono, sconfiggono il Male. Dato l’ambito anglofono, menzioniamo l’insuperabile Shakespeare (1564-1616), uno degli autori più noti a livello mondiale e principale esponente del teatro elisabettiano; la sua opera poetica e drammaturgica costituisce una parte fondamentale della letteratura occidentale ed è oggi ancora studiata e rappresentata come insuperabile punto di riferimento. Con l’espressione “teatro elisabettiano” si indica in realtà un periodo storico, che va dal 1558 al 1625, e segna la fase di massimo splendore del teatro britannico. Alcuni studiosi tendono a distinguere la produzione postuma al 1603, parlando di teatro dell’età giacobina, che in effetti presenta caratteristiche differenti. È opportuno ricordare e sottolineare che sotto la regina Elisabetta I esistevano anche spettacoli economici, il dramma era considerato un’espressione unitaria rivolto a tutte le classi sociali, di conseguenza la corte assisteva – in luoghi e in tempi diversi – alle medesime rappresentazioni a cui il popolo presenziava nei teatri pubblici. Dopo la morte della sovrana illuminata i teatri privati tornano ad avere il monopolio della cultura e le rappresentazioni si orientano verso i gusti di un pubblico di ceto alto.


Certamente Shakespeare sovrasta per fama e bravura praticamente tutti gli altri nomi che fanno parte della storia del teatro, ma trovo ingiusto non rammentarne almeno altri due: Christopher Marlowe (1564-1593) e Thomas Kyd (1558-1594). In Francia i massimi esponenti sono Molière (1622-1673) per la commedia e Jean Racine (1639-1699) per la tragedia.
Molière (pseudonimo di Jean-Baptiste Poquelin) è un acuto osservatore dei meccanismi sociali e psicologici che definiscono la società; il suo spirito critico e anticonformista, influenzato da Rabelais e Michel de Montaigne ma anche dal pensiero libertino, lo porta a realizzare opere uniche, brillanti e pungenti. Per Molière, artista di franca e serena risata, il compito della commedia è quello “di correggere gli uomini divertendoli, presentando i vizi e i difetti in modo anche esagerato”. Anche Racine porta avanti una fredda critica al mondo e alle condizioni dell’uomo, la sua visione si concretizza in personaggi che sono antieroi a tutti gli effetti: governati da passioni primitive, incapaci di volontà e travolti dai propri dissidi interiori. Racine si è formato nell’ambito giansenistico dominato dalla drammatica e severa coscienza della finitezza e inadeguatezza dell’uomo, della sua impossibilità di realizzarsi moralmente senza l’intervento imperscrutabile della grazia divina. In Spagna troviamo invece Pedro Calderón de la Barca (1600-1681) con le sue vette poetiche immerse nella realtà, nel sogno e nella finzione.
Non si può né concludere il paragrafo sul Seicento, né proporre una seppur breve storia del teatro, senza soffermarsi almeno per un poco sulla commedia dell’arte. I fenomeni che vanno sotto tale dicitura nascono nella seconda metà del Cinquecento, in piena epoca rinascimentale. Base essenziale della commedia dell’arte è l’abilità tecnica, la capacità di movimento degli attori, l’uso di un ricco e costante repertorio di situazioni comiche; lo schematismo delle figure e dei tipi viene portato all’estremo, si creano personaggi fissi, e tale fissità è resa più colorita dalla trasformazione di queste figure in vere e proprie “maschere”. La commedia dell’arte è quella commedia affidata ad attori professionisti che offrono i loro spettacoli a un pubblico vario, vivendo del proprio mestiere; la prima compagnia di comici di mestiere si forma a Padova nel 1545, e ad essa ne seguono moltissime. In questi spettacoli gli attori non imparano a memoria la loro parte ma la improvvisavano. Si tratta comunque di una tecnica recitativa, “l’improvvisazione non si improvvisa”, al contrario prevede che il teatrante si prepari non “la” parte ma “per” la parte.
Prima di essere definita tale, le rappresentazioni della commedia dell’arte venivano indicate come “Commedia degli Zanni” o “Commedia all’Italiana”. Il termine “Zanni” deriva dal nome di figure di servi nelle prime commedie cinquecentesche, “Zan”, forma veneta per “Giovanni”, da cui “Zanni”. Le caratteristiche di questa tipologia di teatro sono due: l’improvvisazione e l’utilizzo di maschere.

Tali maschere finiscono poi per identificarsi con dei personaggi specifici, veri e propri “tipi fissi”, figure comiche che si ritrovano sempre uguali da una commedia all’altra, con lo stesso formulario di gesti e di linguaggio. I personaggi che si vengono via via creando sono assai numerosi, ma vanno tuttavia inscritti in strutture drammaturgiche rigide e che rispondono a canoni ben definiti, succede dunque che esse vengano raggruppate in poche categorie funzionali: due vecchi e due servi, poi confluiti rispettivamente nelle figure di Pantalone, del Dottore bolognese, Arlecchino e Brighella. Questi ultimi derivano in realtà da un unico personaggio, Zanni, il facchino bergamasco che compare fin dalle prime commedie.
Per circa due secoli tale tipologia di spettacolo rappresenta il Teatro “tout court” in tutta Europa, la sua influenza è chiara, soprattutto se si hanno presenti alcuni personaggi non italiani, come ad esempio Punch, versione inglese di Pulcinella, o Pierrot, Pedrolino o Petruška, tutti derivanti da Arlecchino. Nel Settecento si assiste ad alcuni importanti cambiamenti: lo sviluppo teorico della recitazione e della funzione dell’arte teatrale per la società. Il maggiore studioso dell’epoca è Diderot, filosofo illuminista autore di testi teatrali che si inseriscono nel nuovo filone del dramma borghese; egli pone i fondamenti dottrinali della “tragédie domestique” anche detta “genre serieux”. In Francia si sviluppa infatti una nuova tipologia di opera, definita “dramma”. Il “dramma” tuttavia trova la sua massima definizione sul piano teorico in Germania, grazie all’opera di Gotthold Ephraim Lessing (1728-1781). Sempre in Germania nasce in questo periodo l’innovativa figura del “Dramaturg”, ossia una persona che svolge l’importante ruolo di proporre il repertorio, di allestire i testi per la scena, di rielaborarli o di produrli egli stesso.
In Italia i grandi nomi sono Pietro Metastasio (1698-1782) per il melodramma, per la commedia Carlo Goldoni (1707-1793). Metastasio esalta l’importanza del libretto, a discapito della musica e del canto, semplifica il linguaggio poetico e migliora la caratterizzazione dei personaggi. Da grande uomo di teatro, Metastasio affida al proprio testo poetico una fortissima carica scenico-musicale, senza preoccuparsi dell’organicità di tutti gli aspetti dello spettacolo. Goldoni è uno dei drammaturghi più prolifici, la sua intera opera offre una più che diversificata serie di situazioni che si svolgono attraverso un “quotidiano parlare” e si basano su un’attenta rappresentazione del reale. Goldoni critica gli schemi della commedia dell’arte, la banalità delle sue convenzioni, la comicità volgare e plebea. La “riforma” del teatro goldoniano afferma la preminenza del testo scritto sulla caoticità dell’improvvisazione; il suo elemento determinante è il richiamo alla “natura”, che impone un continuo confronto con la realtà quotidiana. I libri su cui l’artista si è formato sono il “mondo” e il “teatro”, il primo di questi gli ha mostrato i “caratteri naturali” degli uomini, il secondo gli ha insegnato la tecnica della scena e del comico, e i modi per tradurla in comunicazione pubblica.
Dopo Goldoni e il suo “teatro” che attinge dal “mondo”, dopo il fascino e la ricchezza dell’opera del più grande commediografo del nostro Settecento illuminista, eccoci arrivati all’Ottocento.
Discorrendo per sommi capi, possiamo dividere il secolo a metà: nella prima metà si diffonde il dramma romantico, collegato agli ideali dello “Sturm und Drang”, tipicamente esaltati in Germania, da autori come Johann Wolfgang von Goethe e Friedrich Schiller; nella seconda metà invece predomina il dramma borghese, vicino agli ideali veristi e del naturalismo, che trovano in Verga e in Hugo i massimi esponenti.
Agli ideali romantici si rifanno anche autori come Manzoni, con l’ “Adelchi” e Silvio Pellico con la sua “Francesca di Rimini”.
L’Ottocento è però anche il secolo degli artisti anticonformisti, ben esemplificati dalla figura di Oscar Wilde, che nel suo “society drama” porta in scena i sentimenti di chi non vuole sentirsi parte della società.

In linea di massima, durante il XIX secolo, tutto è incentrato sul nuovo gusto di rappresentare Shakespeare, dilatando tutte quelle parti che si prestano ad azioni di massa.
In Inghilterra il teatro ottocentesco è caratterizzato da un’estrema povertà di testi drammatici, le opere di questo periodo sono in realtà semplici occasioni per fare spettacolo, si tratta di testi classificati in base al genere d’appartenenza, non importano più gli autori o il contenuto. Così accanto al “gotich drama”, incentrato su storie di fantasmi, troviamo addirittura il “dog drama” dove i protagonisti altri non sono che cani ammaestrati. Lo spettacolo non è più il momento comunicativo del testo, ma il testo diventa mera funzione dello spettacolo, fino ad arrivare allo “spoken dramas”, una sceneggiatura in pura e semplice prosa. È opportuno ricordare che una comune serata teatrale inglese durava in realtà circa cinque ore; tuttavia, dopo la prima parte della recita, il costo dell’ingresso veniva dimezzato e ciò comportava che lo spettacolo stesso si modificasse per trasformarsi in una serie di pantomime, balletti o altre tipologie di intrattenimento.
Diversa è la situazione a Parigi, dove nei primi anni dell’Ottocento si assiste ad un enorme sviluppo dell’apparato spettacolare dei melodrammi, soprattutto da un punto di vista specialistico. Molti tecnici infatti criticano l’impianto scenografico all’italiana e propongono una struttura scenica più complessa, con elementi tridimensionali praticabili e l’apertura di spazi utili alla sperimentazione scenografica e illuminotecnica. Importantissime in tal senso sono le innovazioni di Louis Jacques Daguerre, il quale, attraverso il sapiente uso di macchinari specifici, propone stupefacenti scene paesistiche in movimento, con fenomeni naturali, o scenari cittadini in cui è esaltato il fervore della vita animata. Daguerre chiama questa tipologia di spettacolarizzazione “diorama”, studi che saranno alla base delle ormai prossime scoperte fotografiche. A partire dalla metà del secolo i gusti cambiano e iniziano a diffondersi spettacoli le cui tematiche spesso rappresentano inquietanti realtà, vicende opprimenti, ambientate in una Parigi tenebrosa e formicolante di quella stessa umanità di cui il pubblico è parte integrante.
Il Realismo si impone sul Romanticismo, sul palco le scene ricalcano ambientazioni quotidiane, ma filtrate attraverso una lente che ne accentua le tinte, rendendole lontane e quasi surreali. Il nuovo repertorio si basa sulla rivisitazione del dramma borghese, che assume come luogo privilegiato il salotto, dove si svolge la vita sociale.
La contro-risposta al teatro verista di fine Ottocento è data dalle forme spettacolari che si diffondono a partire dagli inizi del Novecento, fenomeni che possono rientrare nella denominazione “teatro contemporaneo”. Con tale definizione si intendono le rappresentazioni teatrali che si sviluppano nel corso del XX secolo, segnate da una comune ricerca di superamento della semplice figurazione della realtà; in seguito, con l’avvento del cinema e della televisione, si giunge a un’ulteriore linea di demarcazione tra il quotidiano e la verità teatrale, resa possibile dagli strumenti propri del teatro, quali la suggestione, l’affabulazione e il gioco immaginifico che si instaura tra attore e pubblico. Si parla anche di “teatro di narrazione”, quando gli spettacoli si fanno particolarmente vicini agli antichi modelli dei cantastorie e nel contempo prendono notevolmente le distanze dal teatro verista ottocentesco.

La più grande rivoluzione del Novecento – dal punto di vista della storia del teatro – è la centralità dell’interprete. Da teatro della parola si passa al teatro dell’azione, del gesto, della “performance” interpretativa dell’attore, come sostiene il celebre teorico Konstantin Sergeevič Stanislavskij. Tale approccio metodologico porta, nel 1931, alla nascita del Group Theatre, che rimarrà attivo per circa una decina d’anni; il gruppo fondatore finisce per sciogliersi, ma la ricerca prosegue e personalità come Stella Adler, Lee Strasberg e Sanford Meisner continuano a portare avanti gli ideali dei primordi. Strasberg dirigerà poi dagli anni Cinquanta agli Ottanta l’ Actor’s Studio, forse la migliore fra le scuole di recitazione di tutti i tempi, in cui si sono formati anche Marlon Brando, Al Pacino, Robert De Niro. L’affermarsi delle avanguardie storiche apre la via alla sperimentazione di nuove forme di teatro, come il “teatro della crudeltà” di Antonin Artaud, la drammaturgia “epica” di Bertolt Brecht, e, successivamente, il teatro dell’assurdo di Samuel Beckett e Eugène Ionesco.
Da non dimenticare anche il dramma psicologico di Pirandello, che domina le scene del teatro italiano e non solo. I caratteri dei suoi personaggi si scompongono in uno scontro tra le forme paradossali e distorte che ciascuno di essi è costretto ad assumere: la rappresentazione teatrale rivela come ogni essere umano sia insidiato dalla duplicità, dalle maschere, da ciò che lo sguardo degli altri proietta su di lui. I personaggi scavano nelle pieghe dei loro rapporti con un cerebralismo incontenibile.
Altro nome da annoverare è Gabriele D’Annunzio, uno dei massimi esponenti del Decadentismo, il quale utilizza nelle sue tragedie, dal mondano gusto liberty, un linguaggio aulico e forbito, invaso dall’onda della parola preziosissima. Una importante considerazione va rivolta ad Achille Camapanile, geniale anticipatore del teatro dell’assurdo.
In Germania spiccano nomi come Vladimir Majakovskij e Erwin Piscator direttore del Teatro Proletario di Berlino e Ernst Toller il principale esponente teatrale dell’espressionismo tedesco.
Due parole sono dovute al rapporto tra il regime dittatoriale e il teatro. Gli studiosi concordano nel ritenere che non esista un “teatro fascista”, ma di fatto il fascismo “intuì subito l’importanza (o la pericolosità) del palcoscenico” (Biondi), soprattutto per ottenere il consenso dell’opinione pubblica borghese, quello stesso ceto medio a cui piaceva assistere alla commedia di costume, chiamata poi “delle rose scarlatte”. Altra tipologia di spettacolo che in quel periodo riscuote notevole successo è quello di Aldo De Benedetti, detto teatro “dei telefoni bianchi”, poiché in scena vi era sempre un telefono bianco, simbolo di adesione alla modernità; si tratta di rappresentazioni stereotipate, dalle trame abbastanza banali, tutte giocate sul classico triangolo amoroso, il cui fine è solamente quello di intrattenere e far divertire – “panem et circenses” direbbe qualcuno.

Quello che non è riuscito ad ottenere il fascismo, ossia un teatro di massa, riesce a raggiungerlo il teatro di varietà che, con le scene pompose, le musiche irruenti, le ballerine ammiccanti e le irriverenti battute dei comici, ottiene la partecipazione del grande pubblico. Caratteristica del varietà è la sua nota estemporanea, il copione si adatta all’attualità e agli avvenimenti politici, rendendo impossibile un controllo censorio sull’agire degli attori; non solo, il varietà comporta il trionfo dell’uso del dialetto, come ben esemplificano le farse di De Filippo.
Nel secondo dopoguerra arrivano nuovi stimoli a pungolare l’evoluzione del teatro. Gli anni Sessanta e Settanta sono le decadi della filosofia hippie, dell’avvicinamento a certe discipline del mondo orientale per far riemerge la natura istintiva dell’uomo, intrappolata e resa dormiente dalla moltitudine di regole che disciplinano la vita in società. Il nuovo sentire si riflette nel teatro, l’esibizione davanti al pubblico non è più solo un semplice spettacolo teatrale ma un’occasione di crescita personale. Il nuovo approccio si fa evidente in diverse realtà, basti pensare all’Odin Teatret di Eugenio Barba, al teatro povero di Jerzy Grotowski, al teatro fisico del Living Theatre di Julian Beck e Judith Malina. Le avanguardie italiane non sono altro che una sfilza di grandi nomi, ciascuno meritevole di un inchino nel mentre che li si legge: Eduardo De Filippo e Dario Fo, Carmelo Bene (uno dei principali esponenti del teatro sperimentale), Leo De Berardinis, o ancora Luchino Visconti, (più noto forse in ambito prettamente cinematografico). Ovviamente anche il resto del mondo ha i suoi nomi da giocare, in Germania troviamo ad esempio Rainer Werner Fassbinder, in Francia Jean Genet e in Svizzera Friedrich Dürrenmatt (1921-1990). Degno di nota è ancora il polacco Tadeusz Kantor (1915-1990) pittore, scenografo e regista teatrale tra i maggiori teorici del teatro del Novecento. Il suo spettacolo “La classe morta” (1977) è tra le opere fondamentali della storia del teatro.
Molte altre figure meriterebbero di essere annoverate, così come numerosissime altre correnti, avanguardie e sperimentazioni, ma dato che sto scrivendo un articolo e non un saggio, mi trovo costretta, seppur con cuore pesante, a fare una selezione. Eccoci dunque arrivati al termine della nostra riassuntiva storia del teatro e con l’usuale speranza di avervi allietato e incuriosito mi accingo a salutarvi. Prima però mi tolgo un piccolo sfizio personale, perché desidero ricordare due personaggi tra i miei preferiti del Novecento in ambito teatrale. Il primo è Luca Ronconi, un grande innovatore, il suo modo di fare teatro e regia non ha termini di paragone. È un attore che è anche regista e ciò comporta un’attenzione tutta nuova sulla messa in scena. Per Ronconi il teatro implica la definizione di spazio, ma uno spazio completamente nuovo, che assume le forme degli stati d’animo dei personaggi delle storie rappresentate. Molto spesso si tratta di spazi tormentati, pregni di elementi simbolici che gli spettatori colti dovrebbero intendere – soprattutto dopo aver letto un esaustivo commento dal carattere didascalico di quello che si è andati a vedere – Altra peculiarità del teatro ronconiano è il tempo: ciò che avviene sul palcoscenico non ha ordine cronologico, le azioni si sovrappongono e si succedono come in una straniante dimensione onirica in cui lo spazio-tempo non esiste. Il regista pare lanciare un’ancora di salvezza agli spettatori utilizzando molto spesso delle didascalie, ma noi -pubblico attento – sappiamo che non ci si deve mai fidare troppo degli artisti contemporanei. Tali didascalie, infatti, altro non sono che parole chiave per aiutarci a capire la messa in scena, ma, diciamo la verità, per comprendere appieno uno spettacolo di Ronconi serve qualcosa di più che qualche termine sparso qua e là.

Il secondo personaggio che vorrei indicarvi è il visionario regista lituano Eimuntas Nekrošius, i cui spettacoli sono tanto affascinanti quanto intellettualmente complessi. Spiegare la poetica di Nekrošius è davvero complicato, la difficoltà è la medesima di cui parla Kafka ne “Un digiunatore”: “Si provi a spiegare a qualcuno l’arte del digiuno! Chi non la conosce, non può neanche averne l’idea”. Il regista lituano dimostra come sia possibile attingere dalla tradizione e al contempo rileggerla alla luce di nuove prospettive critiche ed estetiche. La messinscena è un organismo vivente che racconta storie, muove i personaggi come fossero burattini e determina l’avvio di meccanismi passionali che sfuggono al naturalismo psicologico e non è mai intaccato “dal morbo dell’autoriflessività che si è impadronito totalmente del teatro occidentale” (Valentini). Le opere di Nekrošius sono un’estrema sintesi di opposti, astratto e concreto, tragico e comico, descrizione e narrazione, uniti dalla fusione dialettica dei contrari in una caratterizzazione dinamica che richiama alla memoria l’idea del “montaggio delle attrazioni” teorizzata da Ejzenštein.
Se non avete mai visto uno spettacolo di Nekrošius, probabilmente non avrete capito granché di ciò che ho appena detto, ma l’ho fatto apposta, per invitarvi ad andare su youtube, digitare il suo nome e lasciarvi perdere nel suo mondo onirico e allucinato, così tanto lontano dalla nostra visione spocchiosamente eurocentrica. Un ultimo consiglio, se non sapete da dove iniziare cercate una registrazione del suo “Makbetas”, che marcia inesorabile verso la morte mentre il mantello gli diviene pesante, e nel contempo basculano sul palco delle enormi travi di legno, simbologie di metronomi che scandiscono l’azione che precipita e il destino che si compie. Con quest’ultimo consiglio enigmatico vi saluto davvero, cari lettori, e vi invito a trascorrere un po’ del vostro tempo libero in compagnia di personaggi bislacchi, al limite dell’umana comprensione, che, come i matti, sproloquiano la verità, mentre il resto del mondo finge di non udirli.

Alessia Cagnotto

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