Gianni Amelio “sbanda” tra i bianchi letti del “suo” ospedale

Sugli schermi “Campo di battaglia”, in concorso a Venezia

PIANETA CINEMA a cura di Elio Rabbione

Sono lontane le trincee, è lontana la guerra delle decimazioni e degli assalti alla baionetta, dei gas mortiferi, la Grande Guerra – siamo avvertiti: è il 1918, l’anno della vittoria -, soltanto nella scena iniziale la macchina da presa si libera a indugiare, supponiamo al termine di una battaglia cruenta, su un mucchio di cadaveri mentre un soldato li circonda per rubare una moneta o un tozzo di pane, quello che tenevano in tasca nel loro ultimo istante: mentre all’improvviso la mano di un vivo s’alza a urlare la propria vita che continua a resistere.

Non è quello il campo di battaglia che interessa a Gianni Amelio nel film presentato in concorso a Venezia e ora sugli schermi (film decisamente imperfetto ma comunque da vedere, nato dalle pagine della “Sfida” di Carlo Patriarca, sceneggiato dal regista con Alberto Taraglio, tra i produttori Marco Bellocchio), il suo “Campo di battaglia” è il claustrofobico reparto d’un ospedale, dove su lettini bianchi ben allineati si dibattono feriti gravi e quanti stanno per morire. Vi sono anche quegli autolesionisti che si sono feriti ad esempio a un piede – il trucco c’era, non rimaneva che smascherarlo – pur di non tornare a combattere tra le montagne, “vigliacchi” contro cui combatte Stefano, ufficiale medico, rampollo di una abbiente famiglia alto borghese, patriottismo calato nel sangue, un padre che dispone dall’oggi al domani tra le alte gerarchie militari, una casa elegante e una divisa impeccabile, principi di estrema obbedienza e di valori affermati, quasi un investigatore chiamato a indagare senza nessuna pietà. Valori riconquistati anche con la pena di morte, fucilazione al petto davanti a tutti i compagni schierati.

Opera anche tra quei letti bianchi Giulio, amico sin dall’infanzia di Stefano, guarda a quei malati, a tutti i malati, con occhio assai più benevolo, corpi malati nel fisico e nello spirito, li osserva con comprensione e con compassione, vorrebbe trovare per essi un aiuto (“qui non muore nessuno”). S’è ricavato un piccolo ambulatorio in una soffitta dell’ospedale, lì ha modo di riaffermare il suo amore per la biologia. C’è anche Anna, una crocerossina che fa tanto “Addio alle armi”, compagna di studi di entrambi, un’eccellenza ma non accettata, in tutta la chiusura di un’epoca, dai rappresentanti maschili ad esercitare come medico. È lei la prima ad accorgersi che qualcuno la notte agisce sullo stato di alcuni malati, lo manipola, ci si aggrava e si tende allo stesso tempo al miglioramento, si rischia di tornare a combattere e si invoca anche l’amputazione di una mano pur di poter tornare a casa.

Amelio guarda a questa umanità, in questa prima parte, a questi orrori di una guerra – di tutte le guerre – con mano estremamente sicura, piccoli frammenti che vengono a comporre una tragedia intera, la macchina da presa che fruga tra visi e corpi, tra ferite e bende sporche di sangue, costruisce un altro “campo” che tuttavia ci riporta con la memoria, allo stesso modo, al cinema potente di Rosi e di Avati, persino a quello insuperato, tragicissimo nei suoi risvolti che tutti abbiamo ammirato, del Monicelli della “Grande Guerra”. Una prima parte serrata, carica di punti a cui guardare, su cui pensare. Però a questo punto il film sbanda su una scrittura innanzitutto per nulla convincente, allorché un morbo cattura non soltanto i militari ma altresì centinaia e centinaia di civili tra questi piccoli paesi sperduti su al nord. La spagnola (circolano le mascherine: passato e presente ci mettono poco a mescolarsi) mostra i suoi primi effetti: ma viene a indebolire e a pasticciare di parecchio quanto di solido si è in precedenza costruito e portato avanti per più di un’ora di racconto: pecche non da poco, non ultima la morte troppo teatrale tanto da suonare falsa di Giulio, non ultime le parole, “qui non muore nessuno”, di cui Anna si impadronisce, mentre tranquillizza un povero ragazzino terrorizzato da quanto gli sta succedendo intorno. Un corpo estraneo, un qualche cosa di posticcio, quasi un’altra storia. Posticcio come quel pranzo di fidanzamento in casa di Stefano, che ci poteva proprio essere risparmiato.

Alla prima parte, ai propri aspetti più che positivi, appartiene la gran babele dei dialetti che circola tra quei feriti, alle loro storie, ai loro desideri di fuga, alle paure, al loro non essere comprensibili, un disperato tentativo di trincerarsi davanti al potere dei maggiori, appartengono i disegni e le interpretazioni di Alessandro Borghi (Giulio) e Gabriel Montesi (Stefano), forse questi ancor più bravo del suo collega, un militare d’altro tempo ancorato alle tradizioni e alle leggi, un muoversi e un agire esattissimi, un attore che ci auguriamo di vedere di più sul grande schermo. Appartiene la rappresentazione muta di quella guerra che sentiamo ma che rimane tragicamente “fuori”.

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