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Giuseppe Campese, luce poetica. Mostra al castello di Casale

Figlio d’arte, nato da famiglia da più generazioni legata alla pittura e scultura, il padre Nino uno degli allievi più bravi di Giacomo Grosso all’Accademia Albertina, il nonno intagliatore e decoratore di fantastici cavallini in legno per le giostre insieme agli zii, geniali estroversi artigiani, che seppero oltrepassare la sottile linea di demarcazione tra arte applicata e arte vera e propria, Giuseppe Campese ereditò da ognuno amore per il Bello e dedizione al mestiere.

La passione per l’arte fu la stessa senza rimanere influenzato dall’autorità del padre, ancora legato al classicismo novecentista, bensì si avvicinò al movimento Chiarista sorto negli anni trenta a favore di scioltezza della forma svuotata di volume, di colori delicati e tonali escludenti il chiaroscuro e di visioni rarefatte con reminiscenze scapigliate e impressioniste.

Un chiarismo, il suo, del tutto particolare poiché non escludeva la realtà affidandosi a visioni oniriche ma teneva sempre presente il vero, anche se evanescente, guardato tra le ciglia socchiuse.

Da uomo sensibile, mite, intimista, raffinato, i suoi dipinti rappresentano la compenetrazione di stile di vita e stile artistico.

Affascinato dalla natura negli aspetti fuggevoli, al pari del mondo fluttuante giapponese, da cogliere nell’immediatezza prima che svaniscano, godeva con spirito epicureo delle piccole cose quotidiane, senza pretese che gli davano felicità; bastava una piccola diafana rosa immersa in un umile bicchiere di vetro per essere invogliato a dipingerla; scorci sommessi di periferia destavano in lui la stessa considerazione data a prestigiosi monumenti storici mentre gli imponenti castelli sulla collina, visti in lontananza ed appena accennati, suggerivano memoria dell’incanto di fiabe e leggende del suol d’Aleramo.


La timidezza che gli viene attribuita in realtà non era dovuta ad insicurezza bensì al temperamento gentile, educato, rispettoso, eppure pronto ad imporre coraggiosamente la propria onestà quando notava ingiustizie e strumentalizzazioni nel campo dell’arte.

Intimista, non amante di mondanità, mai approfittò delle occasioni di accrescere la notorietà grazie agli elogi di critici al pari di Leonardo Borgese e di Raffaele De Grada che lo ritenevano il più grande chiarista italiano.

Dava l’impressione di voler dipingere per se stesso.

Da sottolineare la sua cultura attraverso tante letture di libri e saggi sull’arte e il grande interesse per la musica, in particolare la settecentesca, nell’atelier risuonavano le Quattro Stagioni di Vivaldi che, essendo prevalentemente a carattere descrittivo, lo accompagnavano nel lavoro.

Gli piacevano anche le ariette metastasiane dai sentimenti leggeri come sospiri mentre gli adagi di Benedetto Marcello e di Tomaso Albinoni gli comunicavano emotività e nostalgia nel dipingere magici angoli di Venezia.

Essendoci stata fra noi una fraterna amicizia e avendogli organizzato e presentato diverse mostre, ho potuto constatare la sensibilità di uomo puro, genuino, rinchiuso nella propria interiorità, umile ma nobile artista che non deve essere dimenticato.

La mostra esposta nel castello di Casale si propone proprio questo scopo.

Giuliana Romano Bussola

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