Le fantasie del palcoscenico più che un testo che a tratti gira a vuoto

Sino a domenica all’Alfieri “Il Calamaro gigante”

Capita a volte che, in una sera a teatro, il (nuovo) testo con cui ti dovrai confrontare non funzioni. O funzioni ansimando, incespicando, mostrando qua e là delle falle che ne oscurano lo svolgimento e ne frenano il ritmo.

 

Capita che si abbia la tentazione di abbandonarlo per trovare rifugio in quanto da esso nasce e gli sta intorno, ben più solido, per trovare un divertimento e il culto del fantastico nella cornice, nella bravura degli interpreti e in quella assai maggiore di quanti li affiancano, nella bellezza delle scenografie montate a vista, in tutto un mondo d’immaginazione che merita l’applauso incondizionato e viaggia a piacere per conto proprio. Capita questo nel “Calamaro gigante” visto in un teatro Alfieri stracolmo la sera della prima (tre soltanto le repliche torinesi), tratto dal romanzo omonimo di Fabio Genovesi che con gli interpreti Angela Finocchiaro e Bruno Stori ha curato la stesura teatrale, per la regia eclettica e da fuochi d’artificio di Carlo Sciaccaluga.


Siccome siamo a metà strada tra l’autobiografia impregnata di sorrisi e tanti dubbi e quel versante di immaginazione che s’è detto e che più non potremmo pretendere, ecco che l’Angela – l’Angelina per tutti – si ritrova un bel giorno in una coda di macchine, intrappolata senza pietà sulla A1, mentre se ne dovrebbe correre ad una doverosa cena d’ufficio – è una vita che vive tra i moduli assicurativi e le clausole e le postille -, circondata da quegli sfaccendati e goduriosi che se ne vanno giù al mare, imprecando contro loro e pure contro il mare: fino a che un’onda anomala capitata da chissà dove la investe e la catapulta, stravolgendole l’esistenza parecchio piatta, in un mondo sconosciuto e azzurro, fatto di acqua e di onde grame, di vortici che ti tirano giù, di sapientoni in giro per il mondo come questo tal Monfort che arriva da un’altra nazione e da un altro secolo, sperduto lui pure, di un tal don Francesco Negri, parroco ravennate e seicentesco partitosene per il Polo Nord come il piccolo Tommy Piccot bullizzato dai colleghi più vecchi che sarà l’unico ad affrontare un nuovo mostro per offrirlo in pasto ai grandi studiosi, di tentacoli lunghissimi mai visti che sono gli abbracci funesti del Calamaro gigante, di tempeste e di isole riparatrici, di monasteri di frati che religiosamente accolgono ma fino ad un certo punto, di un continuo lavorìo di sartìe e di vele che giocano con la narrazione delle vicende. Acqua, mare, onde, avventura, orribili creature, in un panorama che è pronto a farci venire alla mente i capolavori di Melville e di Hemingway: ma siccome siamo anche nella pianura lombarda, nell’infanzia poco felice dell’Angelina, nei sogni e nelle paure, magari a ridosso di qualche incubo, nel ritrattino di una nonna che comunica a cena con il consorte ormai scomparso o nelle visite strambe di un circo che un genitore fa fare alla ragazzina che quel circo non lo ha mai visto, ecco che tutto si sovraccarica, si confonde, facendo spazio a dei grumi narrativi che a fatica s’amalgamano con il racconto fantasioso che sta sempre più prendendo corpo. E allora “Il Calamaro gigante” a tratti gira a vuoto, si fa lento, s’appiattisce, annoia anche, non focalizza, mentre al contrario dovrebbe ancor più – in quella spinta verso il coraggio e la realizzazione dei propri sogni – dare libero sfogo a quanto di fantasioso già mette in campo.

Angela Finocchiaro, con quella sua recitazione stralunata che le conosciamo, attraversa lo spettacolo con sicurezza, bel motivo di risate in un pubblico quantomai divertito (ma quanto non mi è arrivato delle battute sarà a causa del mio udito ormai bisognoso delle cure di un otorino o di certi sussurri esagerati di cui nello spazio ampio dell’Alfieri bisognerebbe tenere conto?) e Bruno Stori la segue a ruota nel divertimento. Ma – dicevamo – sono le scene di Anna Varaldo e l’uso che la scenografa fa del materiale che ha a disposizione a stupire, quei velari che salgono e s’abbassano facendosi oceani e ambienti chiusi, a stupire ad ogni istante; come la ricchezza del fondale dove si disegnano umani e mostri (a Robin Studio si devono i video). Eccezionali senza se e senza ma gli otto ragazze/ragazzi che di volta in volta si fanno operatori di scena, mimi, cantori e acrobati, artefici di ombre cinesi con i loro corpi che diventano barche con le persone a bordo. L’occhio si posa su di loro: manca purtroppo troppo spesso quel cardine che è la parola scritta.

Elio Rabbione

Nelle immagini, alcuni momenti dello spettacolo.

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