Facciamoci un bel ripasso sulle due vite del “fu” Mattia Pascal

Repliche sino a domenica 25 al teatro Gioiello

Lo ricorda ancora qualcuno? “Una delle poche cose, anzi forse la sola ch’io sapessi di certo era questa: che mi chiamavo Mattia Pascal. E me ne approfittavo. Ogni qual volta qualcuno de’ miei amici o conoscenti dimostrava d’aver perduto il senno fino al punto di venire da me per qualche consiglio o suggerimento, mi stringevo nelle spalle, socchiudevo gli occhi e gli rispondevo: “Io mi chiamo Mattia Pascal.”

Grazie, caro. Questo lo so.”

E ti par poco?”

Incipit d’altri tempi. Sembra che in un’epoca frettolosa, arida e capace quasi soltanto di comunicare attraverso messaggi e messaggini, attraverso forme abbreviate, attraverso pollici in su o in giù e faccine sorridenti o disperate, tutti l’abbiano dimenticato. In maniera vivace, per nulla sonnacchiosa, veloce e sbrigliata, assai modernamente, (forse) in modo lodevole, ci pensa Giorgio Marchesi a ricrearci la mente, a costruire questo bignami pirandelliano di poco più di un’ora a soccorso e conforto – si “traveste” persino, in qualche modo, con il suo elegante frac bianco e cilindro contaminati da un paio di anfibi: ma, sicuro che ne sentano così visceralmente il bisogno? “Abbiamo voluto sperimentare un linguaggio che potesse essere accessibile e appetibile a tutti, anche e soprattutto alle nuove generazioni” – delle nuove generazioni appunto che io credo, la maggior parte, gli possano rispondere come l’Abbondio del Manzoni: “Pascal, chi era costui?”

È in scena al Gioiello sino a domenica 25 con un adattamento e una regia che fanno capo a lui e Simonetta Solder, sua compagna d’arte e di vita, felice di venire incontro con più di un sorriso e con carrettate di ironia a quanti vedono in quel romanzo del 1904 soltanto serietà, messaggi e un pizzico di spiccia filosofia, lanternino e coscienza compresi. Su di un palcoscenico minimal, un attaccapanni, una sedia e un microfono a cui sta ben aggrappato come una palma su di un’isola in mezzo all’oceano il suo sodale Raffaelle Toninelli con il suo contrabbasso per gli interventi musicali, Marchesi ricostruisce attimo dopo attimo, impacchettando definitivamente la precisione dell’epoca e spalmandola al contrario entro l’intero secolo per “assecondare la contemporaneità dei temi trattati nell’opera”, tutto il bagaglio surreale del personaggio, la sua vita spaccata in due, laggiù alla gora del mulino, e la sua doppia esistenza. La vita nel paesino ligure di Miragno – non andatelo a cercare nelle carte geografiche, è un’invenzione dell’agrigentino -, con il Batta Malagna pessimo amministratore di beni e Romilda con cui stringere un odiato matrimonio, il grugno e la voce imperante della vedova Pescatore, sua suocera, il buon Pomino che impalmerà – più danni che piaceri – la “vedova”; e poi la vincita ai tavoli da gioco di Montecarlo, le ottantamila lire e passa con cui rifarsi una vita, la tragica ma non troppo notizia sul giornale della sua dipartita, l’improvvisata ricostruzione di un passato, l’andata a Roma, con quei quadretti saporiti che sono i tanti personaggi di casa Paleari, con il buon capo di casa Anselmo che gli viene ad aprire la porta “in mutande di tela” e “con un fervido turbante di spuma in capo”, la signorina Adriana e il lestofante Papiano, la Caporali e le sue sedute spiritiche. Al centro di tutto non più lui, il “fu” Mattia Pascal, ma un rinnovato Adriano Meis. Un nuovo battesimo. Ma tutto suonerà fasullo, tutto impossibile se quella nuova identità non gli consentirà neppure la denuncia di un furto. Meglio tornare a Miragno, lasciare pure Romilda al suo Pomino, strapazzare, questa volta sì, la vedova Pescatore, e rintanarsi nella vecchia biblioteca del paese, andando in qualche bella giornata a leggere la lapide che i concittadini avevano voluto porre a quel povero ignoto che s’era suicidato alla Stìa, declinando ancora una volta a qualche curioso le proprie antiche generalità.

Divertito, divertente, a tratti esplosivo, vitalissimo e irriverente, capace di entrare più in maniera convincente nella storia, pronto a correre e ad alleggerire sornionamente le pagine del romanzo, giocando con i dialetti e accennando dall’interno ai tanti personaggi rivisitati, un cambio d’abito con un colorato bomber, mosse e movenze, squittìi e urletti di rilassamento, azzeccate sottolineature, del tutto godibile, buon amico fraterno di “chi non sa”, Marchesi offre un’occasione lontana da quelle abituali – io ricordavo il primo Albertazzi e Pino Micol e il più recente Pino Quartullo -, un buon percorso didascalico che sembrerebbe non guastare se il tutto è valso a rinfrescare le (poche?) idee a quanti hanno i piedi più o meno saldi nel nuovo millennio.

Elio Rabbione

Le immagini dello spettacolo sono di Fabio Lovino

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