Dal gruppo al brand

Nel corso degli ultimi decenni sono molti i cambiamenti intervenuti nella nostra società, sia nell’educazione che nella famiglia.

Chi di noi non ricorda la suddivisione in “colori” o “squadre” all’asilo dove, indipendentemente dalla professione del papà (le mamme che lavoravano all’epoca erano poche) o dall’auto posseduta, i bambini di una stessa squadra svolgevano attività didattiche e ludiche insieme e, ogni squadra, le svolgeva con le altre.

Il grembiulino stesso adottato alle elementari uniformava, appunto, tutti gli alunni evitando differenziazioni diseducative tra chi poteva e chi no, tra i ricchi ed i poveri, tra un ceto ed un altro.

La stessa cosa succedeva, e credo succeda tuttora, negli scout dove le squadriglie (o le sestiglie per i lupetti) erano contraddistinte, per esempio, dal nome di un animale cosicché in una gara vincevano gli scoiattoli (o i pezzati per i lupetti), non chi guida il SUV o quello con la bici da 3000 euro.

Negli anni ’70, in coincidenza con le prime lotte politiche tra sinistra e destra le fazioni cominciarono ad essere distinguibili dall’abbigliamento: chi indossava loden e scarpe “College” e chi, invece, “Clark” ed eskimo schierandosi dalla parte opposta.

Negli anni ’80 lo yuppismo esaltò ulteriormente la contrapposizione tra chi viveva la Milano da bere e chi la subiva, tra chi imitava l’Avvocato e chi, invece, avrebbe venduto la mamma per noleggiare una fuoriserie e mostrarsi per ciò che non era.

Al giorno d’oggi, purtroppo, la situazione è peggiorata: non si cerca più l’appartenenza ad un gruppo (o associazione o aggregazione umana a qualsiasi livello) per collaborare, agire insieme e crescere con l’esempio e l’aiuto reciproco ma si sente il bisogno di uniformarsi, di livellarsi appiattendo, di fatto, la personalità.  I ragazzi (ma non solo loro) si sentono esclusi dalla cerchia di amici e compagni di scuola se non indossano abiti ed accessori griffati (dal giubbotto allo zaino, agli occhiali da sole alla borsa). Oltretutto le griffe “di moda” cambiano periodicamente con il risultato che ciò che hai comprato e ti rendeva degno di entrare nel club dei “privi di personalità” dopo qualche tempo diventa obsoleto e ti obbliga a ripetere la sfilata con un brand diverso.

Quel che è peggio è che molti, pur di apparire, non esitano a comprare oggetti contraffatti, spesso di qualità scadente, pur di fregiarsi di quel logo o quelle iniziali su ciò che indossano: forse ignorano che chi acquista per sé (non per un amico o altri) un bene contraffatto realizza un illecito amministrativo, punito con una sanzione pecuniaria che va da 100 a 7.000 euro, ai sensi della Legge n° 99 del 2009. Non si può sostenere che si credeva fossero oggetti originali perché la differenza di prezzo rispetto ai prodotti originali fa capire che sono state violate le norme in materia di origine e provenienza dei prodotti con un uso indebito del marchio.

Se, poi, compro quella merce per darla ad altri, guadagnando dalla vendita, incorro nel reato di ricettazione (art. 648 c.p.) che si concretizza quando una persona, per procurare a sé o ad altri un profitto, compra merce contraffatta o di provenienza illecita.

Conviene rischiare per sentirsi parte integrata di un gruppo perdendo, oltretutto, la propria peculiarità?

Ai miei studenti ed ai clienti ripeto sempre “In una cosa siamo tutti uguali: essere ognuno diverso dagli altri”.

E’ evidente che non sentirsi accettati non sia piacevole, ma proviamo noi a creare una moda, una corrente di pensiero che davvero ci rappresenti, ci appartenga e ci contraddistingua dagli altri. Come possiamo sentirci integrati per il solo fatto di indossare uno slogan (un logo lo è) di un brand che unisce persone nel mondo totalmente diverse l’una dall’altra, che viene spesso “integrato” da falsi (la merce contraffatta) rendendo uguali chi è originale con chi è falso?

A lezione spiego sempre che la felicità non è la meta, ma la via: non dobbiamo inseguire la felicità facendo ciò che fanno gli altri, pensando che loro siano felici perché hanno ciò che mostrano: dobbiamo essere felici mentre facciamo quello che ci piace, che ci fa stare bene senza curarci di cosa faccia chi ci circonda.

Prima o poi la finzione viene scoperta: meglio essere diversi perché originali che uguali senza personalità.

Sergio Motta

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