“Perfect days” sugli schermi
PIANETA CINEMA a cura di Elio Rabbione
C’è un vasto cielo sopra Tokyo, e poi il verde degli alberi e il traffico congestionato, punteggiato dalle luci delle tante auto, gli ingorghi delle sopraelevate nell’andare e venire della giornata. C’è un altro angolo, del tutto appartato, alla periferia della metropoli, che appare come un altro mondo, il protagonista Hirayama e la sua casa, semplice e disadorna, dove ogni oggetto superfluo è bandito. Siamo dentro a “Perfect days” che il tedesco Wim Wenders – l’autore mai troppo lodato di capolavori come “Paris, Texas” (1984) e “Il cielo sopra Berlino” (1987) – ha costruito nella capitale nipponica, esattamente a trentotto anni dal suo “Tokyo-ga”. Come in una sorta di religiosa ritualità, esatta, particolareggiata sino alla virgola nella prima ora di proiezione (poi le azioni si diraderanno), guardata in ogni atto, in ogni più minuta azione, specchio umano delle piccole cose, Wenders segue Hirayama – e il suo interprete, Koji Yakusho, eccezionale, cui al festival di Cannes dello scorso maggio è stato decretato il Palmarès quale migliore attore -: un ventaglio di sorrisi impercettibili, per un uomo, sessant’anni più o meno, che con troppa fretta potrebbe esser definito senza qualità, di lacrime trattenute, di inchini e gentilezze, rispetto del proprio lavoro e della cosa pubblica, l’affetto verso una nipote che gli capita dal nulla all’improvviso, il desiderio di ricostruire i ponti tagliati e un passato scalfitto all’interno della famiglia, l’amore per la musica (dalle musicassette arrivano le voci di Lou Reed e Patti Smith, di Otis Redding e dei Velvet Underground, di Nina Simone e di Van Morrison, la colonna sonora del film che sa di sospirata giovinezza e di riscoperta) e le piccole piante che cattura dai terreni della città, l’amore per i libri e la lettura (da una libreria si porta a casa William Faulkner e Patricia Highsmith).
Lo segue: nel prolungarsi del silenzio, l’alzarsi il mattino e riordinare futon e coperta, i denti da lavare e la barba da fare, la cura delle piante, la tuta da indossare, gli oggetti da raccogliere accanto alla mensola accanto all’ingresso – l’orologio le monete le chiavi di casa e dell’auto – riposti in bell’ordine la sera precedente, il caffè alla macchinetta davanti a casa, l’accensione del motore, la musica e il tragitto. Il silenzio e il frastuono, il caos, il disordine. Poi il posto di lavoro: Hirayama opera per conto di un’impresa nella pulizia dei gabinetti pubblici della città, ambienti di radiosa ipertecnologia, vere e proprie meraviglie di design poste a fianco di giardini e di viali alberati, che a suon di spazzoloni bacinelle disinfettanti spugne rende puliti come in casa nostra non ci si può immaginare. Un lavoro fatto con scrupolo, con ricercata meticolosità, con disciplina. E poi i brevi incontri, sempre fatti di poche parole: gli aiutanti che arrivano e spariscono, il bambino che si è perso e ritrovato e la madre che nemmeno lo ringrazia, il gioco del tris lasciato in un bagno da uno sconosciuto che lui continua e conclude, gli avventori di una sorta di trattoria in cui è solito andare per farsi uno spuntino, l’incontro con un uomo malato di tumore che potrebbe essere l’ultimo; l’appuntamento fisso con un bagno pubblico per ripulirsi e il ritorno a casa, il bucato in lavanderia, un giro in bicicletta e una corsa ai giardini per fotografare con una vecchia macchina, analogica, in un rigoroso bianco e nero, l’intreccio delle nervature delle foglie e il tetto degli alberi, una corsa dal fotografo per lo sviluppo, il libro alla luce di una semplice lampada la sera.
Per ricominciare il giorno dopo. Wenders descrive la bellezza della ripetuta quotidianità, la poesia raffinata delle ripetizioni, siano raccontate sotto il calore del sole o sotto la pioggia. Per Hirayama sono “giorni perfetti”, tutti da vivere. Tutti pieni di serenità e di calma. Spiega ad un certo punto Hirayama alla nipote: “Il mondo è fatto di tanti mondi, alcuni s’incontrano, altri rimangono in disparte”; ecco, lui è quel mondo in disparte, di una solitudine tutta particolare, diremmo fiera, fanciullescamente caparbia, in perfetto e sperimentato equilibrio, dove trova spazio anche il sorriso e le abitudini sono l’essenza che rinfranca, la bellezza di quei luoghi in cui lavora si riverbera nella bellezza della propria vita, tranquilla, accompagnata per mano, in ogni più semplice azione. Di ogni giorno.
Non cercate una trama, non ci sono scene ad effetto, godetevi le tante tracce e le suggestioni che Wenders – e il suo grandioso attore – sanno creare, l’amore per le piccole cose che invade lo schermo e l’amore per il lavoro umile. Godetevi la fotografia di Franz Lustig. Godetevi i 123 minuti di proiezione, tutti quanti. Non sono immagini vuote, ripetitive, banali e alla fine pronte a scivolare nella noia, non è un’idea che non riesce a prendere il volo: anzi. Non vi capiterà mai di guardare l’orologio. “Perfect days” (che il Giappone presenta agli Oscar prossimi in corsa come miglior film straniero) è un inno alla poesia, alla semplicità dell’animo, alle emozioni lasciate timidamente trasparire, alla Bellezza ricercata ogni giorno, a quel Bene che forse non esiste nemmeno più. È la visione dell’esistenza da parte di Wenders: lui, arrivato a settantotto anni oggi il mondo lo vede così. E su Tokyo c’è ancora un vasto cielo.
Leggi qui le ultime notizie: IL TORINESE