La grande pittura del Quattrocento nelle opere di Felice Casorati

Nelle sale rinnovate della Fondazione Accorsi – Ometto, sino all’11 febbraio

Qual era lo status artistico che veniva respirato nella Torino di inizio anni Venti? Quello di una città uscita anch’essa da un conflitto europeo, che aveva mietuto vittime, e che ora ristagnava, posta alle periferia di un paese che già assorbiva artisticamente esiti di ragguardevole importanza? La città subalpina è ancora legata ad una linea filo-ottocentesca, che vede al proprio centro i nomi di Giacomo Grosso e di Leonardo Bistolfi, fari decisamente irrinunciabili: mentre nell’industriosa Milano già si pongono le basi del Futurismo. Ma qualcosa a Torino cambia, qui maggiormente si accoglie quell’aria che convoglia verso il “Ritorno all’ordine”, la scintilla decisiva la porta con decisione Felice Casorati, un’infanzia e una giovinezza di spostamenti e di nuove abitazioni al seguito della carriera militare del padre, Novara Milano Reggio Emilia Sassari, poi una laurea in giurisprudenza a Padova e studi artistici a Napoli inseguendo Pieter Brueghel il Vecchio a Capodimonte. Arriva a Torino nel 1917, dopo la morte del padre ed entra ben presto nelle cerchie intellettuali della città, frequentando tra gli altri Alfredo Casella, grazie al quale riscalda il vecchio amore per la musica (“verso sera, per tutta la vita dedicò almeno mezz’ora al pianoforte, suonava per sé e non per gli altri, sovente a quattro mani con mia madre”, dirà anni dopo in un’intervista il figlio Francesco) e Piero Gobetti, abbracciandone nel ‘22 le idee e la stretta vicinanza al gruppo antifascista “Rivoluzione Liberale”, frutto pure un arresto e qualche giorno di carcere.

Intorno alla figura del grande pittore muove l’apertura della mostra “Da Casorati a Sironi ai Nuovi Futuristi. Torino-Milano 1920-1930 Pittura tra Classico e Avanguardia” (fino all’11 febbraio) curata nelle sale ampliate della Fondazione Accorsi – Ometto di via Po da Nicoletta Colombo e Giuliana Godio, due sale a lui completamente dedicate, disposizione e illuminazione delle opere davvero impeccabili, l’avvio trionfale con il “Concerto” del 1924 a mostrare al visitatore sei nudi femminili, quasi religiosi, avvolti nel silenzio, una grande macchia color arancio ai loro piedi, posizioni le più differenti (una ad imbracciare una chitarra), chine soprattutto, l’ultima sul fondo contro un ampio spazio aperto d’azzurro. Corpi che paiono sospesi, accomunati e unici allo stesso tempo, riempiti di luce e ricamati nelle ombre, posti al riparo di uno scuro tendaggio, dalle forme perfette, ogni viso, ogni tratto a riportarci felicemente alla pittura quattrocentesca di Piero della Francesca intesa con linguaggio moderno, geometricamente novecentesco, del tutto razionale. Ogni cosa all’opposto di quanto stava succedendo in altra parte del territorio: “Vorrei saper proclamare la dolcezza di fissare sulla tela le anime estatiche e ferme, le cose mute e immobili, gli sguardi lunghi, i pensieri profondi e limpidi… la vita di gioia e non di vertigine, la vita di dolore e non di affanno. No, perché fuggire veloci in automobile, perché imitare il fulmine, la saetta, il lampo? Io vorrei invece adagiarmi nel più morbido letto e avere intorno a me, così a portata di mano, le cose più care, sempre, eternamente… Quale sincerità si cerca nell’arte? La sincerità esterna o la sincerità intima, interiore?” E le anime estatiche e ferme compaiono appieno nella seconda sala dell’esposizione, con “La donna e l’armatura” (1921), con il “Ritratto di Cesarina Gualino Gurgo Salice” (1922), una Madonna dei Bellini o dell’Angelico o del Mantegna, con quello del figlio Renato del 1923, ieratico nella sua giovinezza, con quelle due figure sul fondo in ombra che paiono uscite da una tela fiorentina; altresì con i semplici paesaggi (“Rubiana” del ’27) o con le cose (come gli affetti) semplici, quelle di ogni giorno (“Le uova sul cassettone”, quindici per l’esattezza, posate a formare deboli ombre sul piano del mobile antico: in un gioco di simbologie, come non ripensare all’uovo della Pala di Brera di Piero o alla scenografia approntata da Pierluigi Pizzi per “Il gioco delle parti” pirandelliano messo in scena dalla Compagnia dei Giovani a metà degli anni Sessanta?).

Su Casorati e sulla sua arte veglieranno il mecenatismo di Riccardo Gualino e la presenza decisiva di Lionella Venturi. Spetterà al Maestro promuovere e vegliare con una scuola-bottega su un ristretto gruppo di giovani autori, quei “Sei di Torino” in cui si raccolgono – “nutriti dalle premesse culturali europeiste filtrate dall’insegnamento di Venturi e dal successivo avvento critico di Edoardo Persico” – Jessie Boswell (qui con “Casa Gualino” del ’30), Gigi Chessa, Carlo Levi che propone nel suo “Nudo” del 1929 la lezione parigina di Matisse, Nicola Galante (l’elegante “Natura morta con pesci rossi”, 1924), Francesco Menzio ed Enrico Paulucci, di cui è presente l’arioso quanto solare panorama di “San Michele di Pagana”, ancora 1930. Dilatandosi le pareti dell’entourage casoratiano, si inseriranno Daphne Maugham (eccezionali le geometrie, i differenti piani e le separazioni, i colori, la solitudine, le cose di ogni giorno nella “Colazione” del 1929), Emilio Sobrero, Giulio da Milano e, più discosto, l’inquieto Luigi Spazzapan.

Mentre ci si spinge nelle sale successive – sono una settantina le opere in mostra, in un percorso ricco di idee e di spunti, di tele famose e meno, di sorprese e di prestiti assai interessanti provenienti da Musei, Fondazioni italiane, collezioni private e grazie alla collaborazione con gli archivi degli autori selezionati -, s’incrociano gli autori che attorno al nome e all’opera di Fillia (al secolo Luigi Colombo) diedero vita a partire dal 1923 al Secondo Futurismo, ambizioso di una partecipazione maggiormente a carattere nazionale. Erano Giacomo Balla, qui con i suoi “Merli futuristi”, piegati, seghettati, in un panorama divertente e colorato (1924), Diulgheroff, Pippo Oriani, Bruno Munari, Osvaldo Bot e Enrico Prampolini di forte personalità. Infine, Milano, con il suo “Novecento” artistico, ispirato alle linee teoriche di Margherita Sarfatti, “le cui premesse vertono su sobrietà del colore, antirealismo e antiromanticismo, recupero di una classicità aggiornata, composizione secondo le leggi di equilibrio e di proporzione e importanza della forma, scandita da linee architettoniche e geometriche”.

Pronto per le ultime attenzioni alle opere esposte, la Fondazione ha mutato la vecchia sala delle conferenze in un nuovo, ampio e illuminato spazio espositivo. Qui, in lineare esposizione, una decina di tele e disegni di Mario Sironi, Achille Funi (“Ragazza con frutta”, 1924), Piero Marussig, Anselmo Bucci e i suoi “Giocolieri” in un grandioso gioco di prospettiva, Leonardo Dudreville e i suoi “Occhiali” del 1925, un piccolo gioiello d’arte, Carlo Carrà e il paesaggio, Filippo Usellini e Gian Emilio Malerba, sua una “Natura morta” dal Museo del Novecento milanese, la semplicità di tre frutti un piatto e una scodella da sbalordire.

Elio Rabbione

Nelle immagini: Felice Casorati, “Concerto”, 1924, tempera su tavola, Collezione RAI, Direzione Generale, Torino; Felice Casorati, “Ritratto di Cesarina Gualino Gurgo Salice”, 1922, olio su tavola, Collezione privata; Leonardo Dudreville, “Gli occhiali”, 1925, Coll. Mita e Gigi Tartaglino; Daphne Maugham Casorati, “La colazione”, 1929, olio su tavola, coll. Paola Giovanardi Rossi.

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