Rileggendo in questi giorni ‘’ Lamento di Portnoy ’’ (traduzione italiana Einaudi, ed. or. 1969 ) di Philip Roth salutato all’epoca come il primo scandaloso romanzo introspettivo della letteratura moderna americana, dove la grammatica del lettino dello psicoanalista, descriveva in prima persona e in forma parzialmente autobiografica, le nevrosi dell’americano medio sradicato, nichilista e oggi si direbbe postideologico e sessualmente frustrato, mi sono ricordato della visita nella nostra città del grande scrittore americano, in occasione di un incontro con Primo Levi nel 1986, per intervistarlo per il ‘’New York Times Book Review ’’.
Venne a Torino con la moglie Claire Bloom che Levi amava ricordare per essere stata interprete di ‘’Luci della ribalta’’ che fu con la Paulette Godard del ‘’Grande dittatore’’ la musa ispiratrice preferita di Charles Chaplin. Andarono subito a Settimo alla Siva, lo stabilimento chimico industriale nel quale lo scrittore torinese lavorò per molti anni fino alla pensione, che Roth voleva visitare, per conoscere il background di Levi, di cui lesse. La distanza letteraria e culturale tra Philip Roth e Primo Levi non poteva essere più grande. Roth fu eccelso narratore dell’epopea yiddish e suo traghettatore alla fase attuale e postmoderna di Nathan Englander, Levi testimone dell’Olocausto tra i più alti. Uno con Bernard Malamud e Isaac Singer la migliore espressione del milieu intellettuale ebraico nordamericano, l’altro voce documentaria e realista degli orrori del Novecento e dell’ebraismo piemontese laico e assimilato. Eppure si trovarono e avvenne ‘’miracolosamente’’ l’alchimia tra le due personalità e i due mondi, così tanto distanti. Andarono a pranzare al Cambio, si recarono alla libreria Luxemburg di Angelo Pezzana, dove Philip Roth firmò alcune copie delle sue opere più significative, poi si trasferirono allo studio di Primo Levi in corso Re Umberto 75, dove proseguì la loro conversazione, che fu trascritta curiosamente solo a distanza mesi dopo, al di là dell’Atlantico, in forma di epistolario, quando Philip Roth tornò negli Stati Uniti e rimise piede nella sua abitazione. Primo Levi non parlò a Roth della sua grave depressione e fece amicizia con la Bloom che trovò bella, colta ed empatica, all’epoca ancora legata a Philip. Roth scrisse che in Levi ‘’ la scrittura emanava come da un chimico divenuto narratore suo malgrado, piuttosto che il contrario’’, come l’opera ‘’Il Sistema periodico’’ starebbe a sottolineare e le necessità esistenziali dello scrittore torinese a richiederlo. Tutto in Levi è intuito, folgorazione, analisi caratteriale, fiuto del modo di pensare dell’altro, secondo l’americano. Primo Levi non parlò a Philip Roth della sua letteratura pur avendo letto alcune opere, preferì l’atteggiamento schivo, che da sempre umanamente lo caratterizzò, conoscendo poco la critica letteraria, attività che l’americano per contro esercitò sempre in parallelo, a quella di romanziere. Tra Newark nel New Jersey e Torino avvenne una storica stretta di mano e due ambienti culturali agli antipodi videro per sempre il proprio volto riflesso.
Aldo Colonna
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