Sugli schermi del Torino Film Festival. Una parabola per raccontarsi la violenza che ci circonda

Umori amari, confessioni dolorose e tragedie del passato ancora non rimarginate, tradimenti, infelicità e solitudini quotidiane, una giustizia che non esiste o che tarda ad arrivare, invidie e luoghi sognati come rifugio estremo, fughe, si trova di tutto al TFF per farti temere (forse inorridire) di questa epoca e di questo mondo in cui viviamo, se c’è un sorriso è sghembo, improvviso e immediatamente da trangugiare. Si respira anche qui l’aria malsana che ormai siamo abituati a respirare, tutto all’insegna del non si salva nessuno, tutto costruito per cullare l’angoscia. Sembra un complotto ben orchestrato o qualcosa del genere. Alla sezione “Crazies”, lo specchio migliore di una simile constatazione dell’odierno vivere sembra essere “Vincent doit mourir”, angosciosa opera seconda del francese Stéphan Castang, che un paio d’anni fa aveva esordito nel cinema horror e che qui mantiene le proprie promesse con i suoi “mostri” più o meno viventi. Un tranquillo luogo di lavoro, colleghi tranquilli uno accanto all’altro a considerare idee differenti, il disegnatore Vincent all’improvviso colpito da un giovane stagista a schiaffoni con il peso non indifferente di un portatile. Il giorno dopo, il gesto di un altro collega, egualmente banale e violento, che lo pugnala al braccio con una biro. Quasi un incubo per il poveretto che decide di rifugiarsi in campagna, nella casa abitata dal padre, mentre ognuno, in un clima di ossessione cruenta e generale, soltanto incrociando lo sguardo di un proprio simile, si fa un probabile assassino. Razionalità in ombra, certo, piuttosto un male oscuro, un contagio, una pandemia, non può essere che questo; un clochard che sembra uscito da un film del vecchio George Romero, una bambina poco affidabile, un paio di ragazzini da cui difendersi, un vicino o un automobilista pronto a colpirti, gli ingorghi di macchine, le fughe e gli inseguimenti, un clima di distruzione che coinvolge tutti. Soltanto il ringhio del tuo cane ti può mettere in salvo. La collettività del male, una parabola che ha nulla di religioso, lo sguardo impietoso di Castang sulla nostra epoca, senza lentezze anzi con un ritmo inarrestabile, sulla vita di ognuno allo sfacelo, paranoia allo stato purissimo, la paura di vedere sullo schermo quello che ormai siamo abituati ad assaggiare amaramente nelle strade, nelle case, nelle famiglie ogni santo giorno. Un’attualità autentica e bruciante, impietosa, corale, senza vie d’uscita, anche se certi eccessi ancora possono spingere alla secca risata. Una storia – e un film – perfetta nella sua prima parte, che poi magari tende a ripetersi e a mollare un po’ gli ormeggi: ma che rimane tra i migliori appuntamenti del festival. Il tutto visto attraverso gli occhi e il faccione mansueto dell’eccellente Karim Leklou, una certa goffaggine anche in amore, cercato con la camiere di un locale in cerca di futuro e di libertà, un uomo dabbene che tenta di arginare con tutte le sue forze questo mondo ormai inarginabile.

Dall’Argentina (in concorso) arriva “Arturo a los 30”, diretto e interpretato da Martìn Shanly, velleitario piuttosto che concreto, folle e disordinato, che vuole tanto essere carino con il pubblico (guardate che galleria di ritratti e ritrattini è riuscito a sfornare) ma che finisce col girare tremendamente a vuoto. Vicino alla maturità, certo, ma pronto a dare in pasto ad un diario personale, attraverso disegni semplici e fanciulleschi, il suo mondo che va avanti giorno dopo giorno in grande confusione, buono per metterci dentro tutto e niente, un incidente d’auto in cui viene coinvolto, i rapporti con la madre, il matrimonio di un amico, le chiacchierate disordinate delle amiche, una mancata pomiciata con il suo ex, un approccio un po’ più d’appresso con un sorridente cameriere acciuffato al ricco buffet del matrimonio, un brindisi in più e un po’ d’erba, i conti con se stesso e con tutti gli altri. Intenzioni buone se non fosse per la scarsità della resa, per una certa ristrettezza d’invenzioni, insomma uscite dalla sala e non vi è rimasto nemmeno un fotogramma.

Di ben diverso spessore, ancora in concorso, in tutta la crudeltà del suo esporsi mano a mano, è “Kalak” firmato dalla regista Isabella Eklöf, nazionalità Svezia/Danimarca. Crudeltà morale e fisica, fin dalla scena iniziale, scopertamente crudele nel chiuso della casa di famiglia, un abuso che negli anni, per anni, interiorizzazione di un dolore, si cementerà nell’animo di Jan (Emil Johnsen, convincente e intimamente convinto interprete) giovane infermiere di Copenhagen, una moglie e due figli biondi, trasferitosi nel cuore della Groenlandia per lavoro e forse proprio per dare un diverso panorama ai propri incubi, alla ricerca di pace interiore. Un lavoro che è completa dedizione e continua gentilezza in un paese e presso una popolazione al cui interno Jan cerca di integrarsi: lui, anche al bar con gli altri, anche con una pacca sulle spalle, sarà sempre uno”sporco groenlandese” o forse riuscirà a trovare quello (o quella) che alla fine lo apostroferà “vero groenlandese”. Ma i fantasmi sono lì, tra i ghiacci e le case rosse, tra la carne di foca tagliata e venduta e le serate fredde, negli incontri con altre solitudini, mentre cerca una affettività e nuovi rapporti che in casa hanno ormai qualcosa di spento e fuggitivo. Che cosa ha lasciato in lui quel traumatico inizio? Le ricerche e gli incontri, i momenti solitari, il sesso sprecato, i visi femminili nuovi fanno qualcosa sulla strada della guarigione? Un medico gli offre la strada per ovviare a quello stato di debolezza e di confusione, che può ben presto tramutarsi in depressione profonda, pericolosa a sé e a chi gli sta accanto: dalle cassette dell’ospedale si possono sottrarre psicofarmaci, l’unione dell’uno e dell’altro possono dare risultati anche maggiori. Si possono fare vittime, anche una ragazza che chiede aiuto, un po’ d’affetto, ma che al rifiuto preferirà sparire tra le fiamme della propria casa. Si nega un aiuto, si resta chiusi in se stessi, quel passato è inevitabilmente troppo cruento. Il cammino scelto dalla Eklöf è forse eccessivamente lungo (una qualche sforbiciata non avrebbe fatto male al film: ma dalla sua completezza non si esce indifferenti) nell’addentrarsi nelle giornate contorte di Jan, anche se lo scavo di quell’esistenza è affondato in quanto di più doloroso e umanamente forte si possa desiderare. Dall’altra parte del mare, il padre di Jan combatte contro il cancro, perché a differenza di un tempo non ha più voglia di andarsene, scrivendo al figlio lettere che il figlio tarda ad aprire e leggere: Jan tornerà a casa, ma soltanto per fare i conti, tragici e definitivi, con il proprio passato.

Elio Rabbione

Nelle immagini: scene tratte da “Vincent doit mourir” diretto da Stéphan Castang, “Arturo a los 30” di Martìn Shanly e “Kalak” firmato dalla regista Isabella Eklöf.

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