Il flop del femminismo

Chiunque abbia intorno ai 60 anni ricorderà le lotte femministe degli anni ’70, tese a ottenere la parità di diritti per le donne, con tanto di slogan ad effetto e parallelamente altre lotte (aborto, per esempio) che comunque coinvolgevano il sesso femminile.

A distanza di 50 anni è opportuno e, direi, doveroso valutare quale sia il risultato di quelle lotte, quali effetti abbiano prodotto e, soprattutto, se sia stato raggiunto l’obiettivo.

Possiamo senza tema di smentita affermare che la parità è lontana dall’essere raggiunta: sono state create le quote rosa nelle liste elettorali perché, altrimenti, le donne sarebbero state una sparuta minoranza dei candidati e gli stipendi delle donne sono, a parità di mansioni, inferiori a quelli dei colleghi maschi nella maggioranza delle aziende private.

E che dire della lettera di dimissioni, fatta firmare all’atto dell’assunzione, qualora la dipendente restasse incinta o decidesse di sposarsi?

Nato con intenti nobilissimi il movimento femminista ha perso di vista, strada facendo, l’obiettivo cercando in molti casi l’uguaglianza uomo-donna, uguaglianza che non può e non deve esserci perché uomo e donna sono diversi tra di loro sotto molteplici aspetti.

La conquista di alcune posizioni, di alcuni posti fino ad allora preclusi alle donne, però, non è sempre stato accettato di buon grado dagli uomini che, in molti casi, si sono sentiti togliere il terreno dai sotto i piedi, si sono sentiti spodestati come se fosse compromessa la loro virilità, la loro mascolinità.

Ancora oggi sono molti gli uomini che digeriscono male il fatto di avere una donna come superiore, nelle aziende come nelle forze armate, che la moglie percepisca uno stipendio maggiore del loro o che, se impiegata nella stessa azienda, raggiunga un livello superiore a quello del marito (o compagno).

Gli uomini, che hanno millenni di cultura patriarcale nel proprio DNA, hanno visto traballare il loro predominio nel giro di qualche decennio digerendo male l’inversione dei ruoli o, quantomeno, l’essere spodestati dal ruolo di “sesso forte”.

Studi recenti hanno dimostrato, inoltre, che le donne sono molto più forti degli uomini, anche per loro natura: sopportano meglio la febbre potendo lavorare anche con 39°C mentre un uomo con 38 è in coma, sopportano la gravidanza ed i dolori del parto mentre un uomo difficilmente ci riuscirebbe e questa consapevolezzadestabilizza ulteriormente i maschietti.

Anche i recenti fatti di cronaca nera, femminicidi o tentati tali, che alcuni psichiatri come Crepet (il cui giudizio condivido in toto) attribuiscono al fatto che gli omicidi non hanno mai ricevuto un NO o un rifiuto dai genitori, dimostrano quanto sostengo: per questi individui un rifiuto è un oltraggio al proprio ego perché,come diceva il Marchese del Grillo, “Io sono io, e voi non siete un c…”. Se poi il rifiuto, inteso anche come volontà di interrompere la relazione, negazione di un incontro o di riappacificazione proviene da una donna, da una ex ecco che il soggetto assume un comportamento asociale, pericoloso e spesso imprevisto.

Fin quando ci saranno mamme che giudicano le fidanzate del figlio puttane, facili, non adatte al figlio o peggio, avremo maschi che svilupperanno un concetto fortemente deviato di approccio, di corteggiamento e di relazione; individui che se trovano una donna non accetteranno che poi questa possa lasciarli, possa innamorarsi di un altro o, semplicemente, possa aprire gli occhi e capire chi sia veramente il proprio compagno.

Come nelle separazioni anche nell’educazione la colpa non sta mai da una parte sola: da un lato i genitori che non rifiutano nessuna richiesta dei figli, concedono loro tutto ciò che questi chiedono li fanno crescere nella convinzione che tutto sia dovuto, come se un diniego fosse un reato di lesa Maestà; dall’altro i giovani, ignoranti nell’affrontare la vita, vanno contro le regole che l’umanità ha fatto proprie da millenni: non uccidere, non usare violenza se non per difendersi e così via.

Il 28% degli italiani è analfabeta funzionale, non comprende cioè il significato di un testo; figuriamoci come possa comprendere il contenuto di un dialogo o, più spesso, di un monologo soprattutto quando si parte con la convinzione che l’interlocutore non stia dicendo nulla di importante o che non abbia diritto di replica.

Sergio Motta

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