Un mare di noia ma bisognerà “continuare a vivere”

Al Carignano sino a domenica 26 novembre

L’altra sera, quando al Carignano assistevo alla prima dello “Zio Vanja” cechoviano che Leonardo Lidi ha messo in scena l’estate scorsa per lo Stabile dell’Umbria, in coproduzione con quello torinese e con il Festival di Spoleto, il primo pensiero che mi veniva alla mente era l’edizione di Mario Missiroli sul finire degli anni Settanta. Eravamo nel novembre 1977, esattamente quarantasei anni e sembrano millenni. Mi veniva alla mente di primissimo approccio la scena di Giancarlo Bignardi, lo spaccato di una grande casa, persa nella campagna russa, il desiderio di curiosarci dentro tra vetrate e tendaggi, tra tavoli e samovar, tra salotti e poltroncine e librerie, tra tavoli da lavoro dove nello struggimento del finale Sofia s’immergeva nei conti con Vanja, spingendolo a lavorare e a vivere, a reinventarsi “una lunga, lunga serie di giorni, di interminabili sere”. Ogni oggetto, una sequenza di oggetti, al proprio posto, fotografato e animato, riportato in vita. Millenni. Oggi, ogni cosa, ogni oggetto, ogni angolo delle ventisei stanze della casa, sono stati cancellati come se fosse passato nei decenni uno tsunami a travolgere tutto, i personaggi che potrebbero non avere nome e che già non hanno più tempo, un loro tempo, sono fissati, schiacciati, annientati, immaterialmente fermati contro una parete, biancogrigiastra, di cui ci si sente in obbligo di darci le esatte misure, cinque metri d’altezza per sei di base, il corpus di un gradino/pedana, lungo tre e mezzo, incollato contro, su cui Astrov Vanja Serebrjakov Elena e tutti gli altri ridono e si tormentano, s’addormentano e si amano, si fuggono e si cercano, si dichiarano e vengono respinti, si lamentano dei propri dolori non soltanto fisici, sparano pistolettate che fanno “pum” e portano mazzi di fiori vistosamente di plastica. Ogni cosa in un mare di noia, che non sconquassa più.

Tutto è un fallimento, tutto è una sconfitta, non c’è il più debole sorriso che possa salvaguardare qualche avvenire, tutto è sopravvivenza, il tentativo di sopravvivere, anzi. Si crede che una ubriacatura aggiusti le cose: invece bisognerà con concretezza riempire dei vuoti, un vuoto enorme, e costruire dei domani. L’arrivo del vecchio professore (quello pietosamente con i pantaloni scesi a mezzacoscia e ridicolmente pronto a guardare quel che gli resti dentro le mutande) e della sua giovane moglie (sigaretta sempre accesa, pettinatura biondiccia fuori misura, come se fosse un cespuglio per gli uccelli, falsamente sicura e pronta alla risata per seppellire un dolore e la più bisognosa d’amore) portano lo sconquasso ma forse tutto è già definitivamente distrutto, già cadono vistosamente i pezzi di quella casa dentro cui “guardiamo” soltanto con le parole. Parole che hanno un sapore e una sonorità vuoti – eppure quanto si parla in “Zio Vanja” -, come la vecchia acciaccosa Marina parla a inesistenti oche e pulcini, così ognuno si parla addosso, a se stesso, come in una privatissima confessione, pur parlando a chi gli sta di fronte in quel momento e non lo sente. Anche Astrov, che più di tutti cerca di camuffare il vuoto che gli sta intorno, con la spavalderia, anche con la goffaggine, con le sue tante sbrodolature, con quei suoi atteggiamenti da viveur da strapazzo, con l’accesa corte a Elena, con un appuntamento campato in aria nel bosco demaniale, con un bacio più o meno richiesto, più o meno rubato, anche lui all’inizio si confessa alla vecchia che da sempre vive tra quelle mura: e la risposta è “vuoi mangiare qualcosa?”. Sarà mai stata a sentirlo? E sarà poi sicuro che la lunga chiacchierata ecologica entri con sincerità in qualche cuore e soprattutto in qualche mente, ad ognuno di quanti gli sono davanti e distruggono i boschi come distruggono i sentimenti?

La noia, il succedersi dei giorni, il grigiore, il mestiere di vivere rosicchia tutti, tutti a raccontare a se stessi le loro fini. Astrov alle prese con i suoi contadini ignoranti, Elena che ne ha abbastanza di quel marito che le sta accanto, Sonia che combatte con la sua bruttezza, Vanja arcistufo delle sue ricotte e alla ricerca di un pezzo d’affetto, pronto a gigionare quanto basta, a fare il clown, a cercare di sorridere, Serebrjakov che si dà ancora un cinque anni di vita “e poi vedrete che mi sarò tolto dai piedi”. Tutti sognano un riscatto, tutti sognano e basta: e non succede nulla. Solo una partenza, chi arriva se ne va di nuovo. E chi rimane s’illude che tutto torni come prima. Qualcuno ha un briciolo di consapevolezza: uno dei pezzi più belli della commedia e uno dei brani di maggior resa da parte di Lidi, Astrov che abbraccia forte Vanja, quasi a stritolarlo, ma come in un abbraccio di protezione, per dirgli che noi due siamo eguali, siamo due perdenti dentro una vita che non ci ha dato nulla.

Un fiume in piena “Zio Vanja” e quel fiume in piena Lidi lo guida e lo regge a mano ferma, con grande maturità, con una sicurezza che in altre occasioni aveva avuto più l’aspetto dello sfacciato esperimento, dell’”épater le bourgeois” a tutti i costi (leggi “Bernarda Alba). Fedelissimo alle parole del testo, gioca tuttavia intelligentemente a sconvolgercelo davanti agli occhi, in una atmosfera mai provata, a schiacciare il pedale dell’acceleratore, a farci conoscere personaggi del tutto “nuovi”, come fino a qui mai li avevamo visti, a riempirli di sentimenti e mancanze assai più moderni di quanto non facesse Cechov al termine dell’Ottocento sul palcoscenico del Teatro d’Arte di Mosca (ci ha catapultati nel bel mezzo degli anni Sessanta del secolo scorso). Un successone che non può non coinvolgere tutti gli attori della compagnia, grandiosi negli assolo e nel gioco di squadra, ognuno pronto a confermare il percorso registico, a irrobustire quanto possa nascere da ogni personaggio, una parola, un silenzio, un gesto, un sorriso, un pianto. Tutti da citare, anche se le personali convinzioni vanno a Mario Pirrello (Astrov) e Massimiliano Speziani (Vanja), accanto a loro Giuliana Vigogna, Ilaria Falini, Francesca Mazza, Maurizio Cardillo, con Giordano Agrusta, Angela Malfitano e Tino Rossi. Meritatissime ovazioni finali.

Elio Rabbione

Le immagini sono di Gianluca Pantaleo

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