Hayez, capolavori tra ambientazione medievale e sentimenti risorgimentali

Nelle sale della GAM, sino al 1° aprile 2024

Evvabbè, non ci saremo accaparrati “Il bacio”, gelosamente custodito a Brera, quello a cui guardò pure Visconti per tramandarci in “Senso” la passione e la disfatta risorgimentali di Livia Serpieri e Franz Mahler, manifesto inequivocabile dell’arte romantica di casa nostra, ambientazione medievale in triplice versione che lascia trasparire moti e sentimenti di sapore patriottico e ottocentesco: non avrà il richiamo del collega, ma nelle sale della GAM – che sino al primo aprile del prossimo anno ospiteranno la mostra “Hayez. L’officina del pittore romantico”, organizzata e promossa da Fondazione Torino Musei, Gam Torino (un corposo terzo appuntamento, all’indomani dei Macchiaioli, 2018, e di Fattori, 2021) e 24 Ore Cultura (“Torino punto di riferimento”, sottolineano i responsabili: quindi ulteriori appuntamenti a venire) e curata con affetto e gran saggezza e lunga militanza sul campo da Fernando Mazzocca ed Elisa Lissoni, in collaborazione con l’Accademia di Belle Arti di Brera (ma altresì ancora nei prestiti tra gli altri il Liechtenstein. The Princely Collection, Vaduz-Vienna, l’Accademia di San Luca a Roma, la Fondazione Cariplo di Milano, gli Uffizi, il Musée Faure di Aix-les-Bains, Bologna, Pavia, Verona, Napoli, Trieste), grandioso allestimento – si mostra in una delle dieci sezioni che si snodano in successione cronologica, agguerrito, pronto a prendersi la sua bella rivincita, “L’ultimo bacio di Giulietta e Romeo”, tela realizzata nel 1823 su invito di un ricco collezionista, in una Milano in cui il pittore poco più che trentenne s’era stabilito l’anno precedente, tela composta di struggente distacco, dello sguardo di compassione verso una giovanissima coppia e verso il destino di morte che li aspetta, badando a dare corpo esatto alla ricostruzione d’ambiente, alle colonne e agli archi, alle vesti e ai colori di mantelli e braghe, al candore dell’abito di lei ricamato, alla sedia e al crocefisso sullo sfondo, al quadro votivo, alla vecchia nutrice che occhieggia di lato, alla finestra istoriata, al muro di cinta e agli alberi e alla torre antica che s’innalza poco lontano. Quasi un biglietto da visita, comunque, come biglietto da visita, e “proprietà” tutta torinese, suona quella “Sete dei Crociati” che Hayez iniziò nel 1833, per concluderla diciassette anni dopo. Commissione di re Carlo Alberto, da porsi nella Sala delle Guardie del Corpo a Palazzo Reale, dove ancora la si può ammirare: l’opera che il pittore considerava la sua più importante, il suo impegno più lungo nel tempo, pensata e ripensata a lungo, come testimoniano “le decine di disegni, i fogli tracciati a matita, gli appunti visivi”, ogni cosa messa a fuoco in un turbinio di nudi e panneggi, di atmosfere e colori “che non hanno eguali nella pittura storica del tempo”. È un continuo confronto per il visitatore, le prime idee e la resa, una gioia per gli occhi e per l’ossequio al lavoro di un Maestro. Tutto diventa perfetto, tutto – anche se a tratti insorge una certa raggelante “freddezza”, uno sguardo che non ammette implicazioni del cuore o sentimentalismi larmoyant – s’imprime nella memoria. “Nacqui in Venezia il giorno 10 febbraio 1791 nella parrocchia di Santa Maria Mater Domini” suona l’incipit delle “Memorie” che l’artista dettò tra il 1869 e il ’75 all’amica Antonietta Negroni Prati Morosini (anch’essa in mostra, in abiti di ragazzina, forzatamente sorridente, con accanto grandi presenze floreali; un impegno, quello, non direttamente suo, lui “aveva, si sa, più facile il pennello che la penna”), lui di umilissimi natali, figlio di Chiara Torcellan, donna di Murano, e di un Giovanni povero pescatore originario di Valenciennes, tempi grami con cinque figli da sfamare, lui presto inviato dalla milanese zia materna che se la passava discretamente e avrebbe potuto essere d’aiuto, sposata ad un tal Francesco Binasco, antiquario e collezionista, che ebbe il merito di intuire un talento precoce, di avviarlo ai primi studi, di fargli respirare l’aria di bottega e di mettergli sotto il naso opere di maestri, Tiziano e Veronese e Antoon Van Dyck. L’inizio di una lunga vita (se ne andò nel febbraio del 1882), fatta di avventure e di amori, di celebrazioni, di successi che abbracciavano ogni opera al proprio apparire, campione che appena diciottenne si sposta a Roma con una borsa di studi triennale e con l’interessamento di Canova che lo vedeva capace di ​ rivoluzionare la pittura come lui aveva fatto con la scultura (“oh per Dio che avremo anche noi un pittore; ma bisogna tenerlo a Roma ancora qualche tempo, e io farò di tutto perché vi rimanga”, aveva scritto il potente conte Cicognara, presidente dell’Accademia veneziana, nel 1809 all’autore della “Paolina”), baluardo dell’Arte e del mondo artistico, testimone e uno dei caposaldi del passaggio tra Neoclassicismo e Romanticismo, considerato da Stendhal che visitò il suo studio “il maggiore pittore vivente” e da Mazzini interprete delle aspirazioni nazionali, posto con Manzoni e Verdi tra i Padri della Patria. Il soggiorno romano sarà una manna per lui, perduto nelle chiese e nelle Stanze vaticane a cercare la grandezza di Raffaello, ai Capitolini come al Museo Chiaromonti a studiare la statuaria greco-romana; sarà un bel panorama di nuove conoscenze, lui che nella maturità avrebbe avuto tra gli altri come mecenati e committenti Guglielmo I di Württemberg e Metternich e Radetzky, viaggiando tra Austria e Germania, nello splendore di una carriera strepitosa che lo “ha visto dialogare con i grandi artisti del suo tempo, cultori, letterati e musicisti”, come sottolinea Mazzocca. I salotti milanesi di Cristina di Belgioioso, stupendo ritratto avvolta nel suo abito scuro, l’acconciatura ricercata, e i monili, e di Carolina Zucchi, musa e amante, altro ritratto in mostra, altro covo d’eccellenza per ogni artista e patriota, sguardo languido, due grandi occhi neri, posato tra le lenzuola (“Ritratto di Carolina Zucchi a letto” o “La malata” del 1825), erano le calamite dell’universale sentire. Altre sezioni, altre decadi sparse nel secolo, altro innamorarti del concetto altissimo di perfezione, della rappresentazione di creature femminili (il “Bagno di ninfe”, sensuali nella loro cornice contemporanea) e virili nudi maschili (“Sansone”, rimasto appeso per almeno trent’anni nello studio del pittore, capace d’affascinare i visitatori dell’epoca, punto finale anch’esso dei tanti disegni preparatori, giro di boa inaspettato dalla “critica, stupefatta dalla svolta attuata dal pittore, fino ad allora impegnato nell’esecuzione di una superba serie di figure femminili” estremamente provocanti.

La perfezione che abbraccia il privato e il pubblico e il pubblico, guardato tra le pagine della storia, che dalle vicende di un tempo ormai lontanissimo strizza l’occhio a quelle dell’epoca dell’artista: nasce nel percorso della mostra “La dimensione civile della grande pittura storica”, tra il Trenta e il Quaranta dell’Ottocento. Pittore civile, che guarda alla Storia, votato in ogni momento a immaginare e a rinsaldare il destino di una nazione – quanto ancora è lontano quel futuro! -, Hayez guarda tra gli altri esempi alla figura di Pietro l’Eremita, alla sua “Crociata dei poveri” (1827/’29), e fa di quel fatto l’immagine odierna del riscatto nazionale, eroico ed epico, dà calore all’attualità politica, occupando grandi spazi per dare ampio respiro al paesaggio, alla gente comune pronta a seguire il monaco che li avrebbe guidati al grido di “Dio lo vuole”, inconsapevoli dell’infelice esito. Poi le eroine romantiche, da Giulietta e Imelda de’ Lambertazzi, poi quelle immerse nell’antico mondo ebraico, come Tamar di Giuda, avvolta nell’ampio mantello di un vivo colore giallo (“questa figura rappresenta molto nudo, e dal suo panneggiamento ho creduto darle il carattere biblico”), il che non le impedisce di esporre un prosperoso décolleté (ma non è la sola, a testimoniare la passione e l’ammirazione di Hayez per il gentil sesso, pronto com’era a camuffare e spargere nelle tele estimatrici e amiche e amanti); e poi la ritrattistica, dall’imperatore Ferinando I d’Austria, avvolto nei suoi paramenti regali, viso emblematico, tormentato dal proprio ruolo e deciso ad abdicare in favore di Francesco Giuseppe, a Clara Maffei (1845), avvenente signora del bel mondo milanese, restituitaci “con semplicità e immediatezza”, a D’Azeglio e Manzoni e Rossini, agli autoritratti, come quello gustoso, quasi da intrepido sfidante, dinanzi a un leone e a una tigre, come quello in età avanzata, a settantun anni, nel 1862, negli anni in cui Venezia era ancora in mano straniera e l’artista non esitava a porre la propria firma, “Hayez veneziano”.

Una città, la sua Venezia, che fa da sfondo all’”Accusa segreta” e al “Consiglio alla vendetta”, una nuova interpretazione del mito della città, “una città che qui appare come il tenebroso ed enigmatico palcoscenico di intrighi politici e amorosi, dove le ragioni del cuore entrano in conflitto con la crudele ​ ragion di stato, una rappresentazione dominata da tinte fosche e da una atmosfera torbida, con cui l’artista ha contribuito all’affermazione del mito di Venezia”. Al centro del secolo (1851, fa parte del patrimonio dei Musei Civici di Verona), si staglia uno dei capolavori di Francesco Hayez, “La meditazione”, un gioco di chiaroscuri, un viso nell’ombra e un seno scoperto, un libro che ha scritto in rosso, il colore del sangue, nel dorso “Storia d’Italia” e un crocefisso nelle mani di una donna, la luce fortissima che batte sulla veste, il corpo mollemente adagiato su una sedia addossata alla parete, quasi una bambola sfatta: è l’immagine di un’Italia ancora scomposta e uscita nel 1848 dai combattimenti, dalle perdite, alla ricerca di una libertà. È una meditazione sul momento storico, sulle pene e sulle lotte, sulle inquietudini e sul futuro, sugli insuccessi, sulla patria ancora sì bella e perduta. Un capolavoro, una delle tante opere remote o sconosciute rappresentate in mostra, che valgono sole il biglietto.

Elio Rabbione

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Nelle immagini: “Il Consiglio alla Vendetta”, 1851, Liechtenstein, The Princely Collections, Vaduz-Vienna; “Ritratto di Carolina Zucchi” o “L’ammalata”, 1822, Gam Torino; “Laocoonte, figlio di Priamo e sacerdote di Apollo, vittima, coi figli, della vendetta di Minerva, per cui partirono due grossi serpenti da Tenedo per avvinghiarli a morte nelle loro spire”, 1812, Milano Accademia de Belle Arti di Brera; “La Meditazione”, 1851, Verona Musei Civici, Galleria d’Arte Moderna Achille Forti.

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