Una punta di bulino, affilata con sapienza, incide delicatamente il plexiglass. Sottilissime linee si dipanano formando tessiture e onde, vortici e spazi, orientandosi variamente sulla superficie liscia, perfetta. Da questi emergeranno e prenderanno forma suggestioni di oggetti, animali, ricordi ed emozioni.
Guido Navaretti iniziò come incisore su lastra di zinco nel 1976, terminata l’Accademia di Belle Arti, ma gli orientamenti del mercato artistico e la difficoltà a reperire il materiale lo hanno portato a lavorare sul vetro sintetico dal 1999: il polimetilmetacrilato (plexiglass). E le dimensioni iniziali delle sue opere, piuttosto importanti, dagli anni Ottanta Novanta si sono portate a un formato più piccolo e agile.
Ma il cambio di formato, come il variare continuo in generale, non gli interessa: egli utilizza attrezzi, inchiostri e misure ben definiti, costanti nel tempo, perché il cambio delle aree di lavoro e dei mezzi deconcentra e sposta l’ attenzione verso il ridimensionamento continuo delle idee, della materia e dello spazio. L’ abitudine permette di concentrarsi sulla creazione. E, a tal proposito, dall’amato Oriente cita un altro suggerimento: il miglior modo di essere liberi è avere dei confini… Nel cambiare supporto, quindi, l’Artista ha invertito la risultante dell’ immagine: mentre sullo zinco il segno accoglierva l’inchiostro nero, lasciando bianca la superficie intonsa (calcografia: nei solchi rimane il nero), su plexiglass egli lavora in negativo, lasciando bianchi gli spazi dove il rullo di inchiostro nero non lascerà il colore (xilografia, da “scrittura su legno”: nei solchi rimane il bianco, e in questo caso possiamo parlare di metacrilatografia o plexigrafia). Il lavoro scelto da Navaretti è, quindi, in negativo, l’antitesi del pensiero precedente. E cambia un mondo, “L’altro mondo”, come dice sorridendo il Maestro. Ma questa scelta non è un problema, bensì una nuova risorsa, un universo da scoprire. Ed è molto interessante, nel leggere i suoi appunti, come Egli si collochi rispetto a un determinato utilizzo del colore nero (quindi riferito alle aree risparmiate dal segno), rifuggendo dal valore espressivo, politico, enunciativo, spigoloso, massivo, politicamente e socialmente forte che lo hanno spesso connotato, dalle opere d’arte, ai manifesti, alla fumettistica: il nero, nel suo segno, mantiene la leggerezza necessaria a dialogare con il bianco, in una danza di reciproco riconoscimento, perdendo i caratteri che nel Novecento questo non-colore o massimo-colore ha spesso assunto.
Il gesto, ben controllato nel suo lento incedere, lascia che le forme emergano. E al gesto contribuisce fisicamente tutto il corpo, facendo convergere la giusta tensione verso lo strumento, sotto occhi attenti, aiutati da una grande lente illuminante. Il segno deve essere presente, visibile, non andare oltre le possibilità visive di chi osservi. Sottile ma solido e definito, chiaro e senza fraintendimenti: gesto e artista si assomigliano? Il bulino, nell’utilizzo, tende a lidersi e a inspessire le linee, ma questo non è necessariamente un intoppo, bensì una suggestione che lo strumento stesso regala, spostando di qualche grado la traiettoria dell’ invenzione. E seguirà un’altra passata sul disco abrasivo, la carta seppia e la pietra Arkansas.
L‘incidere è scavare, nella materia e nella memoria, in uno sforzo di rappresentazione. E il nero e il bianco sono concettualmente alla base della tecnica dell’ incisione e riportano al principio di yin e yang, gli opposti che si contrastano e equilibrano, scambievoli e non assoluti, suggestione concettuale e spirituale alla quale il Nostro é sensibile, come ad altri contenuti legati alla cultura orientale. Ci torneremo.
Per Navaretti, il disegno, l’ arte, necessitano innanzitutto di essere artigianato da praticare con costanza, sempre quando possibile, senza cercare precise mete finali o medaglie, accreditamento presso questa o quella corrente, classificazione, plauso di claque: l’ arte é per lui un gesto naturale della quotidianità, come tutto ciò che riempie le giornate, e che richiede solitudine, nel senso alto di libertà da ogni influenza, senza impellenze pressorie. Ed è un gesto che della vita risente, ma sempre fluendo col resto, nella complessità, nella entropia degli eventi.
L’ Artista torinese non sa dove finirà la propria opera, quando la inizia: lascia che sia lei stessa a disvelarsi, a modellarsi sotto le mani, a suggerire; non teme l’errore, che troverà senso nel contesto; non persegue un progetto -magari nato da una bozza preparatoria- lavorando per la sua realizzazione. Improvvisamente, poi, emerge la chiave di volta e appare la soluzione di questo vagare: un buco da riempire, una sagoma portata a galla, una modifica alle onde ed ecco che prende forma precisa, puntuale, l’oggetto, animato o inanimato che sia, e il lavoro arriva a compimento. L‘incisore non cerca l’ispirazione, dunque, ma trova la risposta nel fare stesso, nel divenire dell’atto creativo: è il soggetto stesso che si disvela. E la memoria corre a Picasso e al suo “Io non cerco, trovo”.
Navaretti pare assimilare idealmente questo procedimento alle sue amate passeggiate, dove si lascia pervadere dal mondo circostante, osservando la vita scorrere in quel preciso momento, accogliendo l’ hic et nunc, e si porta a casa un ricordo, una emozione; a volte un dolore, un turbamento. Perché questo incedere è sempre un viaggio, lo stesso che percorre il suo bulino mentre nel silenzio lascia che le emozioni, le memorie inconsapevoli, tornino e prendano libera forma. Ed è un viaggio affettuoso nelle cose, che si presentano nella loro semplicità, come manifestazione di sé e testimonianze del mondo. Ed è lo stupore di esse. Talvolta i soggetti presenti nelle opere propongono domande, si trovano in situazioni ambigue, sospese come le risposte possibili, appena suggerite. E’ dunque un vagare nella vita.
Osservando le opere del Maestro l’occhio si perde in linee che formano nuvole, tessiture, che per pareidolia mostrano a ognuno forme diverse, accenni, suggestioni, e da questo sfondo emergono, con tecnica descrittiva definita e sopraffina, oggetti e animali, piante e fiori. Ma Navaretti chiede di non limitarsi a pretendere un riscontro retinico delle cose, un iperrealismo asettico, ma di accettare la rilettura che, pur puntuale, genera la mente-occhio dell’ incisore. Come nascono le immagini, da dove arrivano? L’incisore torinese si racconta e conduce verso la comprensione del proprio atto creativo, che nasce lasciando fluire la mano, il segno spesso seriale, ripetitivo, come in molte opere degli Anni Novanta e Duemila, pulviscoli e tessiture che addensano e ràrefano la luce, oppure composto da matasse di fili sottili come capelli, in genere a rappresentare dinamici e cangianti sfondi. La finezza del segno crea paesaggi preziosi: boschi, turbinii, spazi che dividono la tela (anche metaforicamente parlando) in modi diversi: nuvole dense di accenni o divisioni orizzontali, oppure diagonali, riportando volutamente ai contrasti del pensiero orientale. Si osservano spesso due piani visivi differenti, l’uno sull’altro.
Le opere trovano un titolo quasi sempre una volta terminate, dando compiutezza al lavoro, concludendone l’articolato percorso e aprendo la strada a una nuova esperienza: e questo l’Autore lo fa spesso con ironia, giocando con le parole, con citazioni di poesie, di motti, di testi sacri, di neologismi scherzosi. Ad esempio, “Scampo?, 2020”, “Campo?, 2021”
“Viddi ‘na cozza, 2021” o “Palla al centro, 2023”.
E trova spesso ispirazione nell’ opera del poeta giapponese Matsuo Bashō (1644 – 1694) del periodo Edo, del quale ci pare importante segnalare questi versi significativi, nel chiarire il concetto taoista di “La via, la strada”: ”(…) I propositi iniziali, per non diventare fonte di frustrante impotenza, vanno posti e perseguiti con la serena consapevolezza che il Tempo e la strada da percorre sulla lastra influiranno sulla loro teoretica (N.d.r. Filosofia della realtà e della conoscenza) chiarezza. Tempo del lavoro ed il lavoro del Tempo, apriranno imprevedibili sviluppi che – del proposito iniziale – lasceranno intatto solo la spinta ideale, non i freddi e inumani condizionamenti”.
Opere riferite a Bashō: “Riemerge la rana di Bashō, 2014” e “Takotsubo o del vaso da polpi di Matsuo, 2023”
Terminato questo nostro incontro ideale con l’Artista torinese, ci troviamo a constatare che le sue opere veicolano non solo una grande competenza tecnica e contenuti artistici solidissimi, ma anche ironia e stupore, amore per l’amicizia e la convivialità, lo scambio, il sorriso; a ricerca interiore; uno sguardo aperto al divenire degli eventi, accettandone la complessità e l’appartenere a un Disegno imperscrutabile. E quindi ci piace immaginare l’incisore Guido, Torino, XXI secolo, congedatosi dal mondo esterno, chinarsi sul suo banco e, in compagnia del fedele bulino, adagiare sulla carta la magia delle cose.
Davide Ficco
Guido Navaretti é nato a Torino nel 1952 e, terminato il Liceo Artistico, nel 1975 si diploma in Pittura all’Accademia Albertina di Belle Arti ottenendo il Premio Dino Uberti come miglior licenziato del Corso e il Premio Vittorio Avondo, come miglior licenziato di tutti i Corsi. Nell’ incisione é allievo di Mario Calandri e Francesco Franco. Dal 1986 inizia il rapporto con quella che nel 1989 diverrà la “Franco Masoero Edizioni d’Arte”, eccellenza nella tecnica della stampa, con la personale alla Stamperia del Borgo Po. Nel 1999 inizia la produzione a bulino di matrici xilografiche e la pubblicazione sulla rivista Smens, edita da “Nuova Xilografia”, oltreché la partecipazione alle sue iniziative editoriali. Ha insegnato presso i Licei Artistici di Milano, Novara e Torino. Le sue incisioni sono presenti in decine di esposizioni in tutto il mondo; recentissima, la Victoria & Albert Museum di Londra.
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